In vacanza con gli amici

La grande certezza

Enzo fa il poliziotto ad Agrigento. Lui ed Alida hanno due figli affetti da una malattia rara. Il loro è un cammino fatto di gratuità e tante sorprese, in cui hanno incontrato «un Dio che è occhi, mani, braccia»... (da "Tracce" di dicembre)

Enzo Roccaforte, classe ’73, siciliano verace, è sposato con Alida e fa il poliziotto. Lo aveva persuaso da ragazzino vedere suo fratello, dieci anni più grande, sfrecciare in volante per le vie di Agrigento. Sentiva che quella era una vita di cui andare orgogliosi e così è entrato in un mondo dove viene facile pensare di «catturare i cattivi come un trofeo». Ma a lui si è aperto l’orizzonte. Come ama ripetere: «Grazie a persone o momenti di persone».

Sebastiano. Pluripregiudicato, lo arrestano una notte mentre tenta di entrare in un negozio con un crick. Tornati in questura all’alba, Enzo va a prendere caffè e cornetti: per i colleghi, per il commissario e per Sebastiano. Gli altri lo rimproverano: «Anche a quel delinquente!». «Ma cos’ha di diverso?», dice Enzo: «Dopo la nottata, merita la colazione come noi». Processo, condanna, arresti domiciliari. A distanza di dieci giorni, tocca ad Enzo con un collega fare il controllo a casa di Sebastiano, che si affaccia al balcone, lo riconosce e chiama fuori la moglie: «È lui che mi ha arrestato!». E lei: «Ah, buongiorno! Grazie!». Loro, increduli. Appena entrano in casa, Sebastiano gli dice: «Non sono mai stato trattato così. Grazie». In quel momento Enzo non si è detto «ok, bello», ma ha sentito che quel fatto aveva un’origine. «Era una novità anche per me: intuire che c’è un mistero in ogni cosa. E poter vivere il lavoro come una possibilità buona, per me, per l’altro, di incontro».

Enzo, Simone, Alida e Samuele.

Un giorno la volante porta nel suo ufficio tre minori da una casa di recupero. Avevano picchiato e derubato un coetaneo. Enzo parla con il capetto dei tre, che gli racconta un po’ sostenuto qualcosa della sua vita e, a un certo punto, gli fa: «Tu sei diverso dagli altri». «Come?». «Tu sei diverso dagli altri». Enzo gli risponde: «Io sono cristiano». Arrivano gli assistenti sociali a prenderli, i tre escono e il capetto gli chiede piano: «Posso abbracciarti?». Lui lo guarda come a dire “perché no”, e il ragazzino d’impeto lo abbraccia, sempre più forte. «Non mi ha mollato finché non l’ho stretto anch’io», racconta Enzo: «Mi ha abbracciato come un figlio. Ed io lo sentivo così caro».

Oggi mette subito in chiaro: «Tutto ciò che è accaduto nella mia vita mi ha portato ad essere quello che sono: un poveraccio contento, perché amato». Le prove non sono mai mancate. Quando è nato, la sua mamma vestiva di nero, da poco era morta la prima figlia, di quindici anni, ed Enzo è cresciuto accanto alla sofferenza della madre. Poi entrambi i suoi genitori sono morti mentre lui ancora studiava all’istituto per geometri. Negli stessi anni in cui incontrava il movimento di CL, attraverso il professore di religione: «Un incontro che mi ha cambiato la vita».


In questi anni di matrimonio, l’amicizia «con i figli di don Giussani», come dice Alida, li ha accompagnati ovunque. Nel 1999 nasce il loro primo figlio, Andrea, con una malformazione al cuore. Si trasferiscono d’urgenza a Catania: il bambino vive poche settimane, in cui loro vengono accolti da una famiglia del movimento che non conoscono. «Ci hanno dato in mano le chiavi della loro casa. A noi, perfetti estranei», racconta Alida: «Un amore così gratuito, che è un giudizio buono su di te. È Dio che non ti abbandona. Questo Dio che è occhi, braccia, mani... È stato così in ogni città in cui ci siamo trasferiti». Un anno e mezzo dopo, infatti, arriva Samuele: il cuore funziona, ma a quattro mesi gli viene diagnosticata una rarissima malattia genetica. Inizia il peregrinare tra ospedali e città, Agrigento, Genova, Padova, Lecco, e ancora Agrigento. Samuele oggi è un ragazzone che dipende in tutto, per il grave ritardo psico-motorio. Con lui la notte è come il giorno, Enzo e Alida dormono quando possono, se possono. La giornata tra lavoro e famiglia non ha tregua e di solito ogni programma salta.

«All’inizio, mi arrabbiavo», racconta Alida, «ma nell’esperienza ho imparato che quello che arriva è meglio di quello che ho in mente». Lei ha il cuore reso semplice dal bisogno, continuo, concreto. «Sono sempre nel bisogno», sorride, «soprattutto qui ad Agrigento dove gli aiuti per famiglie come la nostra sono molto esigui. Ci sono momenti di più grande fatica, o in cui sono preoccupata». Ma come la vita di Samuele è una richiesta incessante che si faccia qualcosa per lui, così lo diventa la sua: «Quello con Dio è un dialogo continuo. Gli chiedo ogni cosa, è il rapporto in cui vivo la giornata. È proprio una presenza». Da quando sale in auto la mattina, e mette la prima affidando la giornata e pregando di «imparare anche oggi una cosa buona», ad ogni momento fino a sera, la notte, e poi un altro giorno, preparandosi a vivere le cose grandi con l’offerta delle più piccole, le terapie di ogni giorno, la spesa, il sonno, la tristezza. «Quello che ci aiuta è la preghiera e l’educazione che riceviamo dall’incontro che abbiamo fatto», continua: «L’incontro con un’umanità nuova, che ora riconosco anche negli estranei. La cerco sempre».

Il Battesimo di Simone.

Per Enzo la certezza più grande è sbocciata all’improvviso. Un giorno, al lavoro, riceve una telefonata dall’ospedale: gli dicono che per una retinopatia degenerativa Samuele perderà del tutto la vista. «Mi ha raso al suolo». La sera stessa, è con la famiglia a cena a casa di amici conosciuti da poco. Si guarda intorno, con quell’ennesimo dolore nel petto, e si accorge dei figli degli altri: «Erano così felici di stare con Samuele. E stare con lui non è facile, anche solo perché nei luoghi chiusi impazzisce... Eppure erano lì, insieme, sereni». Gli attraversa il cuore una domanda della Scuola di comunità: cosa ti manca? «Mi è stato così chiaro: “Non mi manca niente. Fammi contemplare questo. Sei Tu”. Non è successo nulla di eclatante. La semplicità più semplice del mondo... Ma ho detto a Cristo: “Eccoti, tu ci sei. Io ti ringrazio di tutto”. In una cena normalissima, la certezza dell’abbraccio del Signore che dà pienezza. Per la prima volta cominciavo a vedere la mia vita con simpatia». Dice che di quella certezza non ha vissuto di rendita nemmeno un giorno: «Le ansie, le paure, i pianti non sono mancati. Ma per me è iniziato un cammino: da quella sera non mi ha più abbandonato il bisogno della pienezza sperimentata».

Persone o momenti di persone. Alfonso. È un suo collega, «bestemmiatore da competizione». Diventano amici ed Enzo lo invita alla vacanza della comunità. A cena, in albergo, tutti parlano ad alta voce, le portate tardano, la confusione cresce e cresce l’agitazione di Samuele, che si butta per terra, strilla. Enzo prende Samuele e lo porta in camera. È affamato e sfinito. «Mi dicevo: “Ma possibile che non c’è uno che veda? Uno che muova un dito per rendere più umana quella cena?”. Ho mandato tutti a quel paese. Ad un certo punto, sento bussare alla porta. È Alfonso, con in braccio la sua neonata. Mi dice: “Amico mio, non so cosa possa fare per te, ma non ti lascio”. Ed io: “Tranquillo, torna giù, tua moglie ti aspetta”. “No, sto con te, ceniamo dopo”. Avevo davanti Cristo in carne e ossa. Ho benedetto quella vacanza e tutta quella compagnia».

Nel tempo Enzo impara l’amicizia vera, senza pretese. «Oggi vivo una cosa che non mi era mai successa: penso ad una persona e il solo fatto di pensarla mi fa pregare, e mi riapre gli occhi. Una persona che magari non vedo mai, ma è un varco a Cristo». Un’esperienza che gli fa guardare in modo nuovo anche gli amici più vicini: «Sono la cosa più cara che ho perché ci sono, non per come dovrebbero essere».

Per anni la paura ha soffocato il desiderio suo e di Alida di avere altri figli. Per la scienza, le probabilità che avessero un altro bambino malato erano una su quattro. E la decisione netta: basta. Ma il cambiamento è una sorpresa anche per loro, frutto di un cammino senza proclami, solo accettato e vissuto. A un tratto, si trovano pieni di desiderio. Quando scoprono di aspettare un altro figlio, un amico butta lì: «Questa volta, ve lo deve sano...». Per loro è una provocazione vitale: «Ci siamo accorti che non stavamo giocando alla lotteria. Volevamo il figlio che Dio ci avrebbe affidato».

Samuele con due amiche.

Oggi c’è Simone: ha 5 anni e la stessa malattia del fratello. Smentendo le previsioni della medicina, non ha nessun ritardo cognitivo, tanto da lasciare senza parole il dottore che aveva rimproverato i suoi genitori di non aver abortito. Ha la vista danneggiata ma vede quanto basta per correre, ed è sempre contento. Chiede a bruciapelo: «Sei felice?». Se rispondi «sì», ti dice: «E perché?». Oppure: «E perché hai quella faccia?». «Così ho imparato anch’io a fare questa domanda a mia moglie», racconta Enzo: «Glielo chiedo quando ho la vista annebbiata, perché lei ha uno sguardo bello su tutto. E mi fa vedere subito una cosa bella che ha visto ed io no».

Poi c’è Samuele, che cresce. Ormai ha 16 anni. «È la persona più cristiana che io conosca», dice il papà. Vuole sempre andare a messa, l’unico luogo chiuso in cui riesce a stare: è inquieto fino a quando non riceve la Comunione, poi si calma. Vuole sempre ascoltare la musica, ma solo canzoni che hanno dentro il nome di una persona a cui vuol bene. «Appena sente il nome si trasforma». Se è triste, cambia di botto. Se è inchiodato a terra, si tira su, comincia a ridere, a urlare. Io voglio essere come lui», dice Enzo: «Mi fa capire la libertà. Un uomo che fa memoria di chi ama e si rialza. Si riaccende tutto».