Ospiti della Cooperativa Nazareno di Carpi

Nazareno. Con la fragilità puoi andare ovunque

Cesare ha scoperto di essere un pittore. Luca un barman. Altri lavorano la ceramica o il legno... Qui hanno trovato qualcuno che ha pensato a loro. Su "Tracce" di novembre il racconto di una giornata al Nazareno di Carpi, che avvicina i disabili al lavoro
Anna Leonardi

Cesarone a vent’anni pesava già 150 chili. In paese, lo conoscevano tutti perché passava le giornate in piazza davanti al negozio di elettronica. Ogni tanto entrava per comprare cavi e decoder e per interminabili discussioni coi commessi. Non voleva arrendersi al fatto che la radio non riuscisse a trasmettere le immagini come accadeva con la tv. Era la sua fissazione. Poi una notte buttò giù dalla finestra il televisore e i servizi sociali decisero di farlo seguire da una comunità. Lo accolse il Nazareno di Carpi, nel Modenese, che allora, alla fine degli anni Ottanta, iniziava la sua attività con lo scopo di avvicinare le persone con disabilità al mondo del lavoro. Lì Cesare scoprì di sé qualcosa di inimmaginabile: sapeva dipingere. Soprattutto volti. E non si è più fermato. Oggi, che ha 52 anni, Cesare Paltrinieri è un artista apprezzato a livello internazionale. I suoi ritratti, dopo essere stati esposti in varie rassegne italiane, sono arrivati fino a Londra, al centralissimo Museo Everything di Oxford Street.

Il Nazareno, nel frattempo, è cresciuto anche lui. Nel 1998, il trasferimento in una sede più grande, la bellissima Villa Chierici, lasciata in eredità alla Diocesi di Carpi, ha permesso un potenziamento dei servizi. Oggi sono più di 150 le persone con disabilità di vario genere impegnate nei laboratori dell’opera, che spaziano dalla falegnameria all’orchestra, dalla moda all’ippoterapia. Nel vasto giardino all’inglese che circonda la villa, sono stati realizzati anche alloggi per gli ospiti che non sono più in grado di vivere con le loro famiglie.

«Nel fare le cose non siamo mai partiti da un progetto in senso stretto», racconta Sergio Zini, presidente della Cooperativa. «Abbiamo sempre cercato di rispondere alla realtà. L’idea delle residenze, per esempio, è nata con Cesare che, quando rientrava a casa la sera dalle nostre strutture, se ne andava in giro per il paese a citofonare a tutti, chiedendo: “È qui il Nazareno di notte?”». Poi un pomeriggio l’hanno sorpreso in lacrime mentre saliva sul pulmino che lo riportava a casa. «Non l’avevamo mai visto piangere», prosegue Sergio, «gli ho chiesto: “Che hai?”. E lui, guardandomi dritto in faccia: “Ma voi mi prendete per scemo? Sono sette anni che mi promettete una casa…”». Le abitazioni oggi sono dieci, alcune anche nel centro di Carpi, e sono gestite dagli educatori a seconda dell’autonomia degli ospiti. Si tratta di case a tutti gli effetti: c’è il design, ma si respira anche l’anima di chi ci abita. Ci sono camere da letto piene zeppe di fumetti, altre di attrezzi da palestra, le cucine sono superaccessoriate per quelli che amano spadellare, e il verde dei terrazzi è rigoglioso dove c’è qualcuno col pollice verde.

La Cooperativa Nazareno accoglie nelle sue strutture 150 persone con disabilità fisica e mentale

Luca, 31 anni, vive in una di queste case. Ha avuto problemi di tossicodipendenza associati a problemi psichiatrici. Quando è arrivato al Nazareno non aveva voglia di fare niente. «Era stato assegnato all’assemblaggio di materiale per un lavoro in conto terzi», racconta Sergio. «Ma lui quel lavoro “da cinesi” non lo voleva fare». Lo trovavano a metà mattina addormentato per terra nel sottoscala del laboratorio. «Così un giorno gli abbiamo messo lì una poltrona. E su quella poltrona lentamente si è risvegliato. Il fatto che qualcuno avesse pensato veramente a lui ha segnato una svolta». Dopo poco ha chiesto di poter lavorare al Bistrot 53, un locale realizzato all’interno del parco della villa e aperto al pubblico da maggio a settembre. «Questo ci insegna che non possiamo pensare di far funzionare le cose organizzando il cambiamento dell’altro, se fosse così sarebbe un “accanimento educativo”», riprende Sergio: «L’aspetto più importante del lavoro terapeutico, e forse quello più duro, è l’attesa che nasca qualcosa dentro le persone. Questa tensione a cogliere anche la più impercettibile mossa della libertà dell’altro è l’unica cosa che può garantire un aiuto vero».

Anche l’idea di creare una squadra che lavorasse i sei ettari di terreno di proprietà della villa è sbocciata dall’intuizione che per alcune persone era problematico rimanere al chiuso dei laboratori. «Molti di loro da quando lavorano all’aperto stanno meglio e prendono anche meno farmaci», raccontano Alessandro e Giacomo, due educatori con la passione della botanica. E in effetti, a guardarli nelle loro tute verdi, si fa fatica a distinguere i disabili dagli abili. Tutti gli ortaggi qui sono coltivati con metodo biodinamico, senza uso di alcuna sostanza chimica e nel rispetto dei ritmi della natura. «Questo ha un impatto educativo», spiegano: «Impariamo ad avere pazienza, non possiamo avere fretta di fare grandi raccolti. Quest’anno i fagiolini non sono venuti perché c’è una pianta infestante che con le sue radici spacca il terreno. Ma è il modo in cui la terra sta eliminando tutta la tossicità di decenni di fertilizzazioni pesanti». È una docilità che chi soffre conosce bene. Sanno che ci vuole tempo perché dalle cose brutte possa nascere qualcosa di buono.

Alcuni dei ragazzi e degli educatori che lavorano i sette ettari di terreno intorno a Villa Chierici

Il frutto del loro lavoro ha poi uno scopo pratico: gli ortaggi vengono utilizzati dalla cucina del bistrot, venduti al mercato del sabato e offerti personalmente dai ragazzi alle famiglie bisognose della città. In tutti questi gesti loro cercano una soddisfazione, che è sinonimo di normalità, perché sta a fondamento di ogni rapporto sano con le persone e con le cose. Come racconta Fernando, coordinatore dei laboratori che oggi si raggruppano sotto il nome, e brand, “Manolibera”: «Qui non si viene a fare i “lavoretti”. Tutto ha un obiettivo e abbiamo un direttore artistico che cura tutte le nostre produzioni. Dalle ceramiche e complementi di arredo che vendiamo nei nostri negozi di Carpi, Pavullo e Bologna, agli spettacoli teatrali e musicali che mettiamo in scena durante il Festival internazionale delle abilità differenti che organizziamo dal 1999, per l’intero mese di maggio».

Non si tratta solo di dare uno sbocco commerciale alle attività della Cooperativa, ma di non interrompere la dinamica di ogni lavoro. «Nei nostri negozi sono presenti anche i ragazzi. Per loro è importante vedere cosa un cliente acquista perché scegliendo un oggetto implicitamente si afferma il valore di chi lo ha fatto».
La stessa cosa accade coi dodici artisti del Nazareno che, come Cesarone, hanno iniziato ad esporre le loro opere nei circuiti dell’arte contemporanea. Uno di loro è Gianluca Pirrotta, classe 1980, con Sindrome di Down e un linguaggio verbale limitatissimo. Nel 2010 è stato selezionato per esporre i suoi lavori, fatti di griglie e colori, a Monaco di Baviera. «L’ho accompagnato insieme alla sua famiglia», racconta Sergio. «Lì mi sono accorto che il vero disabile ero io che non parlavo né inglese né tedesco». Gianluca, invece, pur non parlando, si è fatto conoscere da tutti, è riuscito addirittura a farsi “intervistare” dalla televisione tedesca e a far capire che i suoi quadri raffigurano i suoi ricordi e che per lui sono come amici a cui vuole bene. «Alla fine ero io che avevo bisogno di lui, lo mandavo in giro a cercare le persone che dovevo incontrare e a fare le pubbliche relazioni della Cooperativa».

Gianluca Pirrotta, uno dei dodici artisti del Nazareno

Il muro che divide operatori e ospiti a volte qui diventa sottile. Sono i momenti in cui ci si riconosce compagni sullo stesso cammino. Addirittura, capita di scoprirsi amici nelle ferite e nel bisogno. «Io riesco a stare davvero con loro, davanti alle loro sofferenze quando mi accorgo che sono io ad essere accolto», racconta Sergio. «Loro hanno addosso tutto quello che io non vorrei avere, eppure sono capaci di una creatività o di un’affezione che mi stupisce. Questo mi costringe a chiedermi cosa rende veramente la mia vita felice, al di là di tutte le immagini che mi costruisco». Senza questa esperienza di sentirsi reciprocamente accolti, prevarrebbe la stanchezza per alcuni casi. «Con la conseguenza ultima di tornare a tirare su il muro tra noi e loro. Che significa, in fondo, tornare al manicomio».

Una separazione che qui non riesce a sussistere neanche coi casi più gravi. Come quello di Laura che è schizofrenica e vive in un mondo tutto suo. Spesso sta così male da non riuscire a partecipare a nessuna attività. I suoi piccoli occhi pieni di angoscia chiedono solo che qualcuno le tenga la mano. Quando sta meglio, lavora al laboratorio “pezzi unici”, dove si realizzano croci in legno. Un giorno, mentre sta decorando la sua croce, ascolta il dialogo fra due educatrici. «Sai, è un periodo molto faticoso», confida Elena alla collega, «mi sento molto fragile». Laura le interrompe di colpo: «Elena, ma con la fragilità puoi andare ovunque!». In loro ci sono intuizioni e sentimenti di cui il mondo “normale” ha bisogno per accorgersi di quella mossa inestinguibile che si svolge dentro ad ogni persona. E imparare a commuoversi. Che è quello che capita spesso anche a Sergio e ai suoi collaboratori: «Quella improvvisa lucidità di Laura ci ha lasciati tutti in silenzio. Mi capita solo davanti ai fatti che non pensavo potessero accadere».