«Charitas Christi urget nos!», “l’amore di Cristo ci spinge”. La scritta all'entrata del Cottolengo di Torino

Cottolengo. «Se non diamo Dio, non diamo niente»

Siamo andati a Torino, nella “città” della carità. Dove «la ragione d’essere non è l’assistenzialismo o la filantropia, ma il Vangelo». È questo il “motore” che cambia la vita di chi è accolto. E di chi lo assiste (da Tracce di gennaio)
Paola Bergamini

Vito era nato senza braccia e senza gambe. A un anno, i genitori lo avevano portato alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, a Torino. Lasciandolo per sempre. Era il 1951.
Ha vissuto 68 anni, in quella piccola città nella città che è il Cottolengo; una vita piena, dignitosa, mai ripiegato sulla sua condizione. In quella nuova famiglia, la sua umanità era fiorita. Aveva imparato a leggere e scrivere, aveva fatto il telefonista, l’attore di teatro, il pittore e, negli ultimi anni, l’assistente dei bambini della scuola che c’è all’interno del Cottolengo. Ma non era quello che riusciva a fare o che diceva a colpire: era lui stesso. «Poverino», era il pensiero di chi lo incontrava la prima volta; ma poi quando se ne andavano, in silenzio, si sentivano loro «poverini». «La fede mi ha tirato su», dice Vito in un video che illustra l’opera.

Il 27 novembre scorso, al suo funerale, la chiesa del Cottolengo era piena: malati, ospiti della Casa, suore, sacerdoti, infermieri, medici, volontari. «Sei stato un dono per la Piccola Casa e la Piccola Casa lo è stato per te. Dono della carità di Cristo. Tutto questo è un miracolo della Divina Provvidenza», ha detto durante l’omelia don Carmine Arice, padre generale della famiglia Cottolenghina.
Vito è una delle “perle” della Piccola Casa, così chiamava don Giuseppe Cottolengo i poveri, gli ammalati, gli infermi, chi aveva bisogno e bussava alla sua porta. Dal 1828 al 1842, anno della sua morte, il santo piemontese mise in piedi quest’opera che ospitò più di seimila bisognosi fornendo cure mediche, istruzione, lavoro. Una rivoluzione. A lui non interessava risolvere i problemi sociali di Torino, tanto è vero che rifiutava l’appellativo di benefattore perché associato all’idea di filantropo, ma si lasciava provocare dal bisogno in cui incappava e la risposta la trovava nella carità di Cristo per il fratello. «Charitas Christi urget nos!», “l’amore di Cristo ci spinge”), aveva fatto affiggere fuori dalla porta. E ancora oggi quella frase la si legge scolpita all’entrata del Cottolengo. «La carità era il motore che lo muoveva e smuoveva le persone», spiega padre Arice, «perché attraverso la carità il fratello bisognoso può incontrare Cristo e avere una speranza per la vita. E la cosa interessante è che trovava soluzioni laddove i problemi sembravano impossibili. Persino uno come Cavour rimase strabiliato dalla sua opera. Per lui tutto nasceva dagli incontri. Quando papa Francesco dice che la realtà è più importante dell’idea, io ho compreso meglio l’operato del nostro fondatore. Incontrava dei sordomuti? Metteva in piedi la famiglia per sordomuti, cioè una casa all’interno del Cottolengo che li ospitava. Il samaritano non ha fatto la stessa cosa? Non è andato a cercare tutti i malmenati della zona. Ha aiutato quella persona».
Da questi incontri sono sorti l’ospedale, le Famiglie – non istituti – dei Santi Innocenti, di Sant’Antonio, Sant’Anna, Santa Elisabetta, Angeli Custodi… Accoglievano i poveri mutilati, sordomuti, malati di mente, deformi, orfani, quello che la realtà gli poneva davanti. Oggi, percorrendo i vialetti di questi 112mila metri quadrati di carità, accanto all’ospedale, le Case accolgono i nuovi poveri: anziani, disabili, malati affetti da patologie neurodegenerative, e poi la scuola primaria e secondaria, dove il 13% degli alunni (a fronte del 2% delle scuole pubbliche) sono portatori di disabilità. E altro ancora, quello che la realtà suscita. E ovunque ti giri vedi all’opera le suore che Cottolengo volle ad affiancare i laici. Quelle di vita apostolica al servizio dei bisognosi e quelle di vita contemplativa, perché «preghiera e Eucaristia sono le due ruote della Piccola Casa», si legge all’interno della chiesa dove tutto il giorno le suore si alternano nella laus perennis.

Quando, nel 2015, papa Francesco venne in visita al Cottolengo, disse: «La ragione d’essere di questa Piccola Casa non è l’assistenzialismo, o la filantropia, ma il Vangelo: il Vangelo dell’amore di Cristo è la forza che l’ha fatta nascere e che la fa andare avanti». «La carità più grande non è dare qualcosa, ma dare Gesù», continua padre Arice: «Il nostro obiettivo è che l’uomo stia bene e che il suo star bene lo possa condurre all’incontro con Gesù. Questo determina il nostro agire. Cottolengo ripeteva alle suore: “Se ai poveri non diamo Dio, non diamo niente”».
Questo “Amore che sprona” investe anche chi, da dipendente, lavora nella Piccola Casa. Chiara Maghenzani da vent’anni è infermiera nell’ospedale. Eppure di opportunità economicamente migliori ne ha avute. «Sono rimasta per scelta. Si respira un’aria diversa. Si predilige la fragilità e per questo ci vuole una ricerca di senso, del perché fai il tuo lavoro. Per questo io cerco la compagnia delle suore, che sono diventate una presenza alla mia vita. Qui io ritrovo la sorgente della carità di Cristo. Ma a volte la carità genera gelosia, invidia, perché è qualcosa che sfugge alla normale comprensione. È difficile capire che inizi il turno in anticipo solo perché vuoi stare con quel malato o perché hai bisogno di parlare con una suora, ad esempio».

L’attesa di papa Francesco, che ha visitato il Cottolengo il 21 giugno 2015

«Come fate a stare in piedi?», è la domanda che si sente spesso rivolgere padre Arice. «Da un punto di vista economico, assistendo gli indigenti non è possibile il pareggio di bilancio. Non c’è convenzione che tenga. Ma la Divina Provvidenza, fin dall’inizio, non ha fatto mai mancare nulla». Così può capitare che una mattina arrivi un furgone pieno di casse di mandarini. Troppi, e allora una parte è stata inviata alle fondazioni che ci sono fuori Torino. «Deo gratias», ha detto una suora al conducente del furgone. La stessa espressione che usava san Giuseppe Cottolengo quando vedeva l’opera della Provvidenza in atto. Da allora, quelle due parole vengono ripetute alla fine di un colloquio, di un incontro anche di pochi minuti. Per non dimenticare mai per Chi si lavora.

Di far quadrare i conti ne sa qualcosa Rossella Puddu, che fa il controllo di gestione. «Una cosa è chiara: non si taglia sui servizi. Anche dentro i numeri cerchi il senso di carità di Cottolengo. Difficile da spiegare. Ma questo poi si ripercuote sul mio lavoro con le altre aziende».
È tra le “perle” accolte nella Piccola Casa che si scopre quale speranza genera questo luogo. Angela è sordomuta e cieca. La comunicazione con l’esterno sembrava impossibile. In anni di lavoro, con l’aiuto delle suore ha imparato un linguaggio dei segni che le permette di “parlare” con le persone. Quando è andata in pellegrinaggio a Lourdes non ha chiesto il miracolo della guarigione, ma la pace del cuore.
A novembre 2018 in piazza Castello è stata allestita la mostra dal titolo: “Con i miei occhi”. Con dipinti, sculture, poesie e altre espressioni artistiche, realizzate dagli ospiti della Piccola Casa. Che hanno fatto dire a Maurizio Momo, architetto torinese, curatore della mostra: «Queste sono opere d’arte!».
Su un pannello Teresina, affetta da sclerosi multipla, aveva voluto scrivere la sua storia: «Signore Dio d’amore, di tenerezza, hai posato il tuo sguardo su di me prima ancora che io nascessi. Il tuo amore tra le pieghe della mia sofferenza ha fatto breccia nel mio cuore, nella mia anima ferita, sconvolta dalla malattia, dalla morte precoce della mia mamma e come conseguenza la scelta di mio padre di sradicarmi dalla mia terra per la lontana Torino e lasciarmi nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. Ti lodo, ti ringrazio, Dio di amore, Dio di tenerezza per avermi fatto comprendere nel tempo che la sofferenza e la malattia non erano più un abisso, ma una profondità da vivere con gioiosa speranza».

Poi può accadere che proprio stando con le “perle” del Cottolengo la carità di Cristo diventi così trasparente e urgente da indicare la strada per la propria vocazione. Lucia, neo laureata in Infermieristica, per “caso” inizia a lavorare all’ospedale della Piccola Casa. A breve deve sposarsi, tutto è definito. È felice del suo fidanzato. Un giorno, si perde nei sotterranei del Cottolengo e si ritrova in un cortile dove c’è una festa organizzata per persone disabili. A una suora chiede cosa sia quel posto. «Sei nella Piccola Casa della Divina Provvidenza dove si accolgono persone sole, con disagi». Rimane lì inchiodata a guardare. E il giorno dopo, ci ritorna, e quello dopo ancora, attratta da quel luogo. «Mi fermavo con queste persone speciali, avevano una serenità che invidiavo, una gioia profonda». I conti non tornano. C’è qualcosa d’altro. Ha bisogno di tempo. Non si sente più sicura di nulla. Si ritira un mese in preghiera e meditazione. Un pomeriggio piovoso, mentre legge sulla Bibbia: «Ti farò mio servo!», un raggio di sole entra nella stanza. È successo proprio così. «Nulla di sentimentale, ma ho pensato: questa frase è per me. Va bene, Signore, mi fido, ti seguo». Niente matrimonio e la decisione di entrare come consacrata nella famiglia del Cottolengo. Oggi è suor Lucia.

E c’è chi ritrova la vocazione. Una coppia è in crisi: solo litigi e incomprensione. Sembra essere arrivato il momento di mettere la parola fine al matrimonio. Una mattina, la moglie dice al marito: «Senti, prima di prendere l’ultima decisione, andiamo come volontari al Cottolengo. Almeno avremo fatto un’opera buona». L’opera buona, anzi un nuovo Amore li investe attraverso i volti di quei poveri che nella loro condizione sono felici. Dopo qualche mese, una sera si guardano come forse prima non avevano mai fatto. Chiedendosi: «Ma cosa stiamo facendo?». E da lì sono ripartiti per una nuova vita matrimoniale.