Con il cuore al lavoro/1. Dal cioccolato alla vita: una questione di gusto
L'abbraccio di un amico e uno sguardo nuovo nel dirigere l'azienda. E non solo. Storia di Fabio, la prima di una serie che racconta di come anche la fede può cambiare (e far fruttare) il modo di fare il proprio mestiereÈ un problema di gusto. Del cioccolato, intanto. Ma anche della vita. In fondo, è una continua ricerca della qualità quotidiana, «qualcosa che sia davvero all'altezza della bellezza che ho incontrato». Fabio Saini, 45 anni, è un imprenditore di Arona, in quella parte della provincia di Novara che si affaccia sul Lago Maggiore. Con Lucia e Andrea, due dei suoi cinque fratelli, dal 2005 portano avanti la Laica, azienda produttrice di cioccolatini, fondata dal loro padre nel 1946 e, oggi, un gioiello da 50 milioni di fatturato e 250 dipendenti in alta stagione.
Una passione che arriva da lontano quella di Fabio, ingegnere, ora direttore tecnico dello stabilimento. «In casa non girava mai cioccolato. Papà lasciava il lavoro fuori, anche se qualche volta, più grandicelli, d’estate si andava in fabbrica a fare imballaggi per guadagnare due lire». Così oggi, con camice e cuffietta tra le linee di produzione, racconta anche di suo padre, orfano a 21 anni: «Mio nonno fu ucciso dai fascisti per essersi opposto al sequestro delle mole del suo mulino, uno dei più moderni dell’Europa di allora e dove lavorava mio papà». Due anni dopo nasceva la cioccolateria. «Non so bene da quale idea. Ma ricordo che raccontava di essere stato spesso ospite da una zia, che il pomeriggio andava a mangiare del pane vicino a una fabbrica di cioccolato... Il panino era vuoto, ma il profumo di cacao lo rendeva più buono».
Quattro ingredienti in tutto, zucchero, latte, massa e burro di cacao, alla base di tutto quello che esce dalla Laica, dalle monete di cioccolato alle tavolette. «E poi c’è il know how, quello tipico di ogni azienda», tra macchine speciali, modi di produrre e "ricette" segrete. Ok, tutto qui? Basta a fare funzionare bene un’azienda? Cosa c’entra la ricerca del gusto della vita?
«Per me, da qualche anno, andare in fabbrica è anche scoprire cosa abbia a che fare la fede con il lavoro». Non è un problema teorico, un cliché da applicare: «Tutt’altro. È un desiderio grande che la vita sia “una”». Bisogna scavare a cena, con lui, la moglie, i quattro figli e un paio di cari amici, per capire bene questo nesso.
Si parte da lontano. Da una madre «che ha sempre educato i figli alla fede, vivendola lei in prima persona». All’università, l'incontro con Maura, la moglie, e con il movimento di CL che lei seguiva: «Era interessante, anche se capivo poco di Giussani e certi rapporti non mi piacevano. Ma con il tempo gli amici di Maura hanno iniziato a diventare anche i miei amici». Non bastava, però. «Era poco. Anche dopo il matrimonio: avevo un buon lavoro, una bella casa, una bellissima famiglia che cresceva... Quasi da “Mulino Bianco”. Ma sempre insoddisfatto. Ho iniziato a coinvolgermi con la Colletta alimentare, poi coi Banchi di solidarietà, con la caritativa dei pacchi... Tutto ancora troppo stretto». Fino a un incontro con un amico, Andrea Franchi, presidente dei Banchi di Solidarietà: «L'avevo ascoltato a un evento, poi ero andato a conoscerlo. Quello di cui parlava era un cristianesimo che mi interessava. Parlava di unità della persona, di poter vivere la vita non a compartimenti stagni». Invitato a una vacanza estiva a La Thuile, Fabio trova Andrea ad aspettarlo davanti all’hotel: «Era lì per me. Era un Altro che mi abbracciava, così com’ero. E da lì è cambiato tutto». Quell’abbraccio è diventato un criterio nuovo anche per andare al lavoro. «Come uno sguardo mio ma “non mio”, su tutto».
Cambiato? «Sì. Mi sono trovato cambiato, durante queste scoperte. Nel modo di agire, ovunque, anche in azienda. E nel modo di guardare alcune cose». Il progetto di ampliamento dell’azienda per esempio. «Si trattava di creare un nuovo magazzino per rendere più efficiente la produzione. Con mio fratello Andrea ci avevamo lavorato mesi... In dirittura di arrivo, mio fratello mi chiama. “Ho pensato che potremmo fare diversamente”. Ma come? Dopo tutto quello che avevamo fatto, studiato… Potevo reagire. Oppure prendere sul serio anche quella novità, magari mi ero perso qualcosa». Qualche anno fa non sarebbe successo: «Invece, abbiamo riguardato tutto, scoprendo che la proposta di mio fratello poteva essere utile in un altro progetto». E la fede? Cosa c’entra? «È qualcosa che non ti fa rimanere in difesa». Non basta il genio imprenditoriale? «Non lo so, secondo me è difficile. Uno deve comunque dipendere da qualcosa. Siamo fatti per questo. Se non dipendi da Dio, da cosa dipendi? Dal tuo orgoglio? Invece poggiare su uno che ti ha abbracciato come è successo a me, ti pone in una condizione di libertà e apertura che… Prima non ero così: con mio fratello avrei reagito, mi sarei impuntato». Anche Maura ne è colpita: «Non è che uno accetta così senza colpo ferire. Quella volta Fabio era molto arrabbiato. Non è facile lavorare con lui, tiene tutto sotto controllo, e ti viene quasi l’ansia da prestazione quando ci devi avere a che fare. Poi non è da imprenditori, sulla carta, non attaccarsi a un proprio progetto. È evidente che lì, piano piano, ha lasciato entrare qualcosa d’altro».
Cosa? «Mi viene in mente, per esempio, quando Lucia, mia sorella è rimasta a casa in maternità», spiega Fabio: «Il suo lavoro è ricaduto sulle mie spalle. In genere amo risolvere i problemi. Ma a un certo punto era troppo. Soffocavo. La realtà che avevo davanti non poteva essere solo una serie di cose da sistemare». Quel respiro che manca è una breccia nello schema. «È la realtà stessa che accade e ti scardina». E ti cambia. Non è che diventi improvvisamente “più buono e magnanimo”: «No. Ma piano piano non riesci a lasciar passare nulla senza pensare all’abbraccio che hai ricevuto».
Come con quel collaboratore che, pur di fronte a un aumento di stipendio, minaccia di andarsene perché a lui spetta uno scatto di carriera. «Uno in gamba, con noi da tanti anni. Davanti a una mail quasi sgarbata, di contestazione, per cui anche i miei fratelli si erano risentiti, avremmo potuto dirgli “Vai pure”». E invece? «Ti chiedi perché lo ha fatto, quali sono le sue ragioni, a quale bisogno sta provando a rispondere. Ma perché hai in mente il tuo». Fabio gli parla, gli spiega le sue ragioni, lo “abbraccia”. Lui capisce, si scusa. Pochi giorni dopo, si incrociano in pausa pranzo e quel tale gli dice: «Però… Tu un po’ mi vuoi bene».
E quando questo non basta, ti fai anche dare una mano, ti confronti. «È successo, per esempio, con un gruppo di imprenditori amici». Due dipendenti avevano litigato pesantemente in azienda. «Una delle due era da licenziare», dice Fabio: «Nessuno avrebbe avuto da ridire, si trattava di un fatto grave. Ma un giudizio così schematico mi stava stretto. Cosa stava davvero al fondo di quella vicenda, di quelle persone?». Nel dialogo con alcuni amici nasce un’idea. Fabio prova a parlare con le due donne: «Con una la discussione è stata difficile. Con l’altra, quella da lasciare a casa, la situazione era complessa. Le ho detto che avrei proposto a tutti gli altri dipendenti di reintegrarla a patto che loro fossero d’accordo». Ma non bastava ancora. «L’ho invitata con me a preparare i pacchi di alimenti per il Banco di Solidarietà, perché lì io, con i miei amici, sono educato a stare di fronte al mio cuore e al mio bisogno. E lei è stata felice, si è sentita accolta». Pochi giorni dopo, alla cena aziendale di Natale, Fabio parla con i dipendenti: «Ho fatto la proposta di riprenderla con noi, ma solo in pochi hanno detto sì. E lei non è rientrata. E allora? Non mi scandalizza. Il mio sguardo nasceva dal riconoscimento di un abbraccio che ho ricevuto. Senza questo, uno non può capire…».
La realtà, guardata così, è più feconda, dice ancora: «Un imprenditore è, per natura, uno che, in questa realtà, ci deve mettere le mani. E a seconda della sua consistenza, ovvero, in base a “da che cosa dipende”, potrà cogliere la positività di ciò che gli accade davanti». Ma non solo. «La grande possibilità è scoprire che l’altro è un dono. Un collaboratore non è solo un portatore d’opera, ma una possibilità di bene per me». Fa la differenza? «Non sempre ha funzionato. Non so neppure dire se come strategia aziendale si poteva fare meglio. Questa è la mia storia. Ma ogni circostanza vissuta così è stata occasione di crescere un pezzettino. Ed è stata gustosa».
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