La campana che suona al Cascinello (foto: Marina Lorusso)

Tutti i "sì" del Cascinello

Una convivenza fra tre famiglie nella Bassa Milanese, cominciata dieci anni fa. Oggi come all’inizio, seguono un fatto dopo l’altro, aperti a tutti e tutto. «Non è successo niente di quello che pensavamo, ma molto di più». Da "Tracce" di novembre
Paolo Perego

Davanti ad ogni porta, la prima cosa che si vede uscendo di casa la mattina. Un ulivo, proprio a ridosso della casa, con tre rami che si staccano dal tronco, e poi altri, sempre più sottili. «Quel tronco è un dono. E i frutti sono tanti “sì” che ciascuno è chiamato a dire ogni giorno», dice Andrea Franchi, “Branco”. Per questo ogni mattina, la vita al Cascinello San Luigi di Abbiategrasso parte proprio da un “sì”, quello della Madonna, ricordato nell’Angelus recitato tutti insieme, prima di andare al lavoro, a scuola, in università… Ci sono i Franchi, appunto, Andrea e Cristina con i quattro figli. E ci sono i Buratti, Andrea “Bura” e Clementina, che di figli ne hanno tre. Poi Luca “Pelo” e Paola Ballabio, con altri cinque. Ma ci sono anche Luciano, il papà di Branco, e Gianni, un amico insegnante in pensione.

Tutto è iniziato dieci anni fa. O poco prima. «Siamo venuti a vivere qui il giorno dopo che ci avevano montato i vetri, il 9 agosto 2009», racconta il Bura. Quel “qui” è un piccolo cascinale ristrutturato alle porte del paese, nel cuore della Bassa Milanese. La campagna di campi e risaie si apre pochi metri oltre il cancello. Nella sala, come spesso capita, il grande tavolo è apparecchiato per la cena tutti insieme.
«Intorno al 2005 avevamo iniziato a frequentarci più assiduamente», racconta Buratti: «Per la vita della comunità di CL e per qualche vacanza insieme, e perché avevamo i figli compagni di scuola». Il desiderio di stare insieme “di più” c’era, «ma poi di fatto ognuno faceva la sua vita, le sue scelte».

Una domenica nel gennaio 2007, le tre famiglie si trovano «quasi per caso» a un pranzo in parrocchia: «Ci eravamo andati solo perché a Cristina e Branco avevano chiesto di fare una testimonianza, un po’ a fare da claque. Poi, tutti a pranzo in oratorio». Due chiacchiere e viene fuori di un rudere in vendita, non lontano da lì. «Siamo andati a vederlo». C’era solo un pezzo di quello che c’è adesso, una parte era crollata, e al posto del grande salone non c’era nulla.

«Un’“idea romantica”? Forse lo era, all’inizio. Anche se non è mai stata un’idea». Al cuore di tutto ci stava, per ciascuno, l’aver preso sul serio il lavoro che don Carrón, dopo la morte di don Giussani, aveva iniziato a proporre al movimento. Lo spiega Branco: «In un certo senso, per anni avevamo vissuto nel movimento in maniera un po’ superficiale. Quella di Carrón era una sfida a cui non ci si poteva sottrarre: “Ma tu, cosa desideri davvero?”. Su questo eravamo già insieme prima del Cascinello».



«Vivevamo una bella amicizia, ma non sentivamo il bisogno di una convivenza». Ma davanti a quella cascina abbandonata… «Hanno iniziato ad accadere dei fatti, uno dopo l’altro. E piano piano gli ostacoli non erano più insormontabili». La proposta d’acquisto accettata contro ogni previsione, i permessi concessi «nonostante fossimo in periodo elettorale e il padre di Cristina fosse candidato sindaco in opposizione alla giunta». Tutti segni che mostravano un cammino. E quella raccomandazione di Carrón: «Se lo fate per diventare più amici tra voi, perdete tempo. Ma se il problema è la vostra affezione a Cristo, allora si aprirà un mondo molto più interessante». Ognuno ha detto il suo sì. Anche nel metterci i soldi, «mai con la preoccupazione di calcolare al dettaglio le parti di ciascuno», ricorda il Bura: «Mi trovavo addosso una misura nuova, il mio desiderio. Era liberante. Allora come oggi, ogni fatto che accadeva aveva dentro questa possibilità». Racconta Luca: «Quando siamo entrati era un cantiere. Non c’era il giardino. Non c’era la recinzione. I bambini giocavano a raccogliere i chiodi nella terra. C’erano i tombini, però. Ma senza il fondo erano alti, per cui, quando pioveva, per uscire di casa c’erano metri di passerelle».

Poco importa. Da subito, al Cascinello, inizia ad arrivare gente a pranzo, a cena, a dormire perfino. «Anche qui, è la realtà a far fuori le tue idee», racconta Cristina: «A tavolino ci eravamo detti che ci saremmo tenuti una sera alla settimana per invitare qualcuno. Poco tempo, e abbiamo intuito che almeno una sera dovevamo tenercela per guardarci in faccia». «Perché segui quello che accade. E abbiamo sempre accolto tutto come un dono», aggiunge Branco. Tanto che oggi, scherzando, ma non troppo, si parla di una lista di attesa «di amici che ci vogliono venire a trovare».

Tutto vissuto come dono. «È il contrario dell’“idea”», continua Branco: «Gli amici, le cose che capitano. Se le guardi con la curiosità di scoprire cosa c’entrano con quello che desideri, ecco che si apre una strada». E tu la segui. «Quanti episodi. Dall’impresa di costruzioni che fallisce all’aiuto di alcuni con prestiti e donazioni. O quella foto d’annata con una stalla di cui nessuno aveva memoria, proprio di fianco al cascinale, ritrovata al catasto per caso dall’amico architetto Sandro, scomparso qualche anno fa: «Ci dava il diritto a ripristinare quella struttura. Uno dei nostri crucci più grandi era di non avere uno spazio comune dove stare insieme. La casa era quasi pronta. Ma non avevamo soldi, eravamo già indebitati. Però quella foto era un segno. E la Provvidenza ha fatto il resto». Nella grande sala oggi «si vive la vita come arriva»: le cene dei Banchi di Solidarietà, per esempio, di cui Branco è presidente, con settanta e più persone da tutto il Nord Italia, «con le mogli che cucinano e i figli che servono a tavola»; le serate con gli amici, le feste dei figli, lo studio dei ragazzi… «D’estate si fa tutto in giardino, all’ombra di un grande salice».



Ma non solo: «Costruire quest’ala della casa ci ha permesso di ricavare il monolocale in cui oggi vive Gianni». Insegnante di Filosofia al liceo di Abbiategrasso, Gianni fin da subito aveva iniziato a frequentare il Cascinello con i ragazzi di GS che accompagnava: «Nel gennaio 2010, un aneurisma. Quando sono tornato dall’ospedale, loro mi hanno accolto qua, per darmi una mano, almeno durante la convalescenza». Due settimane dai Buratti, tre mesi a casa Franchi, poi due anni dai Ballabio: «A un certo punto, pensavo fosse giusto andarmene». E invece: «Per quello che avevo vissuto con loro, ho chiesto di rimanere».

Si ride a cena, pensando che l’amico don Eugenio, arrivato a benedire la nuova casa, aveva detto «di non metterci subito a fare progetti di accoglienza, ma di “vivere la realtà”. Sfidati da questo, abbiamo “adottato” Gianni…», dice Paola: «Era un richiamo a non partire da un progetto, ma a stare a quello che sarebbe accaduto». Perché l’accoglienza non è una dimensione speciale che si sceglie: «È la quotidianità per ogni cristiano», chiosa Branco: «Tu accogli quello che Dio ha preparato per te. Si parte sempre, come dieci anni fa, dal fatto che seguire il disegno di Dio è la cosa che ha reso e rende bella la vita».

Per questo anche l’accoglienza dei ragazzi di GS che, a trenta alla volta, si radunavano lì a studiare e pregare mentre Gianni stava male: «E dovevi preparare loro da mangiare…», dice Cristina. E poi le tante persone incrociate in dieci anni. Nel gennaio 2009, per esempio. «Un amico ci aveva parlato di una coppia che aveva un po’ di problemi. Non vivevano vicino a noi». Li invitano al Cascinello. «E questi hanno iniziato a venire sempre più spesso, perfino “imbucandosi” dove andavamo noi... Dopo un po’ i due, con una figlia, ci hanno detto che si stavano lasciando. Noi siamo stati con loro, ma non per “risolvergli” il problema. Ci erano dati. Pochi mesi e si sono trasferiti a cinquanta metri da qui. Stanno insieme e hanno avuto altri due figli. E per noi sono una testimonianza».

Il loro piccolino Tommaso era convalescente dopo un’operazione per una grave malattia. Ivan, però, rimane senza lavoro. Attraverso un amico comune arriva a Branco. «Una sera mi ha chiamato e mi ha raccontato di sé. Gli ho detto che mi sarei mosso per dargli una mano. Metto giù e poco dopo entra in casa senza preavviso, come accade di solito con tanti amici, Francesco». Una birra e Francesco, che per lavoro gestisce mense e bar, racconta di una giornataccia: si è licenziato uno che gli dirigeva un locale. Branco pensa a Ivan. «No, serve uno che sappia fare questo lavoro», replica Francesco. Branco chiama Ivan: «Scusa, ma tu di cosa ti occupavi?». «In tutta la vita ho sempre e solo gestito bar…». Il lunedì Ivan era a lavorare per Francesco. «Poche settimane dopo, abbiamo invitato Ivan per conoscerlo. E poi anche la moglie e il figlio. Abbiamo iniziato a frequentarci più spesso». Una volta, durante un pranzo, con una cinquantina di amici, Ivan fa un annuncio: «Io e Francesca vogliamo sposarci». Momento di silenzio. Tutti pensavano fossero sposati… Pochi secondi, e, dopo un brindisi, la spiegazione di Francesca: «Eravamo innamorati e dodici anni fa siamo andati a convivere. Poi è nato Tommaso, con i suoi problemi. Sono stati anni duri, anche tra noi. Quando è guarito, Ivan ha perso il lavoro. Ancora difficoltà, tensioni. Ora siamo qui e non siamo mai stati così bene. Ma ci siamo accorti che ci manca qualcosa: “Ma non è che quel qualcosa è quel Gesù di cui abbiamo sentito parlare da questi amici?”. Se è Lui, allora vale la pena sposarsi». Un anno dopo, Ivan fa un altro annuncio: «Aspettiamo un bambino». Altro brindisi, ma Ivan aggiunge: «Dopo Tommaso, avevo giurato: basta figli. Se fosse stato anche lui malato? E invece è successo che quando uno ha il cuore che scoppia non può che desiderare di darlo a tutti, anche, a Dio piacendo, a un altro figlio».

«Ce ne sono decine di incontri e storie così», spiega Branco: «Noi stiamo con loro, li cerchiamo e li invitiamo perché sono la possibilità per noi di ricordare Chi ci tiene in piedi. E che ci aiuta in questa avventura di vivere insieme». Perché il passo tra accoglienza e convivenza è brevissimo. «Oltre allo spazio comune, il pianterreno delle nostre case è aperto. Chiunque può entrare, senza bussare. Solo per salire in camera, da sempre, si deve chiedere il permesso. Così, capita che sei stanco, dopo una giornata di lavoro, e vorresti sederti sul tuo divano e rilassarti. E invece ti ritrovi figli tuoi, e non, che ti saltano intorno. Non è sbagliato che tu voglia liberartene, ma è più interessante, davanti a loro, chiederti cosa hanno a che fare con ciò che desideri. Poi puoi dire sì o no. Ma quella domanda ha già cambiato tutto».

È la possibilità di un richiamo continuo a questa dimensione. Fin dall’Angelus alla mattina, quello che Clementina dice in auto da sola, pensando che a casa stanno pregando, mentre lei esce prima perché lavora lontano: «Se no è impossibile ripartire». E poi riaccade davanti agli impegni del Cascinello, le cene, gli incontri. Che coinvolgono tutti. Le donne a cucinare o i figli a servire: «Perché è bello», dicono Pietro ed Elena, 8 e 6 anni. «Magari a volte ti nascondi, un po’. Pensi di dover prendere un “respiro” come lo chiamiamo noi», raccontano le tre grandi che fanno il primo anno di università, Veronica, Teresa e Sofia: «Ma quello che sperimentiamo qui, l’amicizia che c’è tra noi è qualcosa di diverso da tutto quello che viviamo fuori. Ed è un riferimento». «Vero, non è facile», dice Giacomo, terzo anno di Ingegneria: «Ma io appena posso invito qui i miei amici. E alcuni di loro si sono affezionati e sono diventati parte di questa storia».

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C’è anche chi non è della famiglia, come Greta, 30 anni, arrivata al Cascinello come babysitter, e poi, tra alti e bassi e con una parentesi in Africa con Caritas, è tornata: «Questa è casa per me. Perché con tutti i miei limiti, gli errori e le fatiche, qui c’è qualcuno che mi vuole per sé, come sono». E così per Lucia, Ambrogio, Giuseppe, Michele, Anna. E per Maria, quarta scientifico: «Quello che vedo tra i miei genitori e le famiglie, il loro sguardo, la loro amicizia… La desidero per me, la gioia di questo modo di vivere. Li vedo felici. E anche io voglio essere felice».

«Devi decidere di starci, ogni momento», torna a dire Paola: «Il frutto più grande di questa vita sono proprio i tanti sì di ciascuno di noi». È difficile, aggiunge Branco: «Anche solo l’idea che un altro corregga i tuoi figli… Puoi accettarlo una tantum, ma qui può accadere ogni giorno. È una lotta quotidiana tra l’affermazione di sé, del “mio” e quello che Dio sceglie per te». È questo che fa a pezzi l’“idea romantica”: «Se guardo a questa storia e a ciò che c’è oggi, anche dentro a difficoltà e cadute, vedo che questo è accaduto. E sta avvenendo ora. Non è successo nulla di quello che avevo in mente io venendo qui, ma molto di più. La realtà sfida a renderti conto di chi sei. Quello che diceva Maria. “Vedo loro e voglio essere felice”. Ma questo non è il Cascinello, è il cristianesimo».