Fammi vivere felice

«Qualunque tipo di umanità, in qualsiasi momento della vita, può essere presa da Cristo». La Fraternità San Giuseppe accoglie uomini e donne chiamati alla verginità. Dentro le condizioni in cui si trovano (da Tracce 1/2020)
Paola Bergamini

Giovanni infila i guanti, prende la ramazza e come ogni mattina ha un moto di ribellione. Laureato, non era certo questo il lavoro che avrebbe voluto fare: l’operatore ecologico. Lo spazzino, in pratica. Come ogni mattina, recita un’Ave Maria e dice: «Tutto per Te, ti offro tutto». Solo allora la giornata inizia veramente. Le preghiere continuano, mentre raccoglie cartacce e svuota bidoni. A fine turno, felice, pensa: «Ho pulito un pezzo del Tuo Regno, quindi ho fatto una cosa importante. Guardare la città pulita mi fa pensare a Te, o Dio, che l’hai voluta così». Da dove nasce questa consapevolezza? Giovanni, alle spalle una vita ricca di fatiche e sconfitte, lo ha spiegato al ritiro di Avvento della Fraternità San Giuseppe: «La vocazione alla verginità è rapporto con Lui e basta! Ti permette di essere più attratto dalle cose, ti sospinge a vedere più in là delle cose stesse». È la pienezza della vita persino in mezzo alla spazzatura. Ecco, la “San Giuseppe”, in fondo, è solo questo: una Fraternità che accoglie e sostiene uomini e donne che, a un certo punto dell’esistenza, il Signore chiama alla verginità. Una radicalità del rapporto con Cristo come vocazione, dentro le circostanze della vita.

Questa è stata l’intuizione originaria di don Giussani. A metà anni Ottanta, infatti, alcune persone gli avevano espresso il desiderio di dedicarsi totalmente a Cristo, ma per situazioni famigliari, lavorative o per altre ragioni non erano entrate nei Memores Domini. Don Giussani indica come fondamentali per l’identità della San Giuseppe: «Una certa scelta e gusto dell’orazione; un impegno di aiuto vicendevole. Una fedeltà al riconoscimento della presenza del Signore. Questa scelta fa percepire la vita nelle sue fatiche, nei suoi dolori, come testimonianza a Cristo nel mondo, vale a dire come esaltazione missionaria del senso della vita. È il contenuto del Battesimo spinto fino all’estrema conseguenza», si legge in un testo citato in Vita di don Giussani, di Alberto Savorana.

In questi trent’anni, quel piccolo gruppo è via via cresciuto. Oggi nel mondo sono circa 6oo persone, che rimanendo nelle proprie circostanze personali e lavorative, consacrano la loro vita a Cristo, secondo i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. «La sorgente viva a cui si attinge è il movimento di CL», spiega don Michele Berchi, che dal 2009 segue la San Giuseppe. «Per questo l’autorità, ultima, riconosciuta come essenziale alla propria vocazione, è oggi don Julián Carrón, come prima era stato don Giussani. Per il resto... non c’è “forma”».

Ogni storia è la testimonianza di come qualunque tipo di umanità, in qualsiasi momento della vita, «può essere presa da Cristo, e presa fino alle viscere. Per questo è bellissimo vederlo nel Vangelo e vederlo in voi», come ha detto don Carrón all’ultimo ritiro (il testo è su clonline.org). Anzi, tante volte proprio quando si tocca il fondo, quando rimane solo il fallimento, la disperazione o la rassegnazione, il Signore chiama in modo semplice e chiaro, inequivocabile. Esattamente quello che era accaduto alla Samaritana, a Zaccheo. Come san Giuseppe, che silenziosamente ha custodito e amato la Madonna, ognuno rimane dentro la propria condizione di vedovo, separato o divorziato, oppure semplicemente continuando a vivere da solo.

A 19 anni, dopo la morte del padre, Laura chiude con la Chiesa e inizia a inanellare una serie di relazioni anche con uomini sposati. Una vita dissoluta, alla ricerca di ciò che può riempirla affettivamente. A 26 anni si sposa in Comune e lavora in ospedale come infermiera. Suo nipote, memor Domini, un giorno le dice: «Ho visto come stai con gli ammalati. Non è solo un mestiere per te. Perché non provi a frequentare la comunità della tua città?». Lei alla fine cede, va agli incontri e ricomincia ad andare a messa. Al Signore chiede: «Fammi vivere felice. Voglio tornare nella Chiesa, rimettermi in piedi». Quando Benedetto XVI rinuncia al Pontificato, ha questa intuizione: «Voglio essere libera come lui».

Poco dopo, la vita prende una piega diversa. Laura si separa dal marito e pensa che la strada più adeguata sia la clausura perché «con un muro intorno non combinerò più guai». Prima di partire incontra don Carrón, che le chiede: «Cosa ti rende felice?». «Stare con i malati». «Bene. Verifica se in monastero hai lo stesso sobbalzo che senti quando sei in ospedale». Dopo due mesi, capisce che le mura del convento non sono la sua strada. Torna da Carrón. Inizia il suo cammino di verifica nella San Giuseppe. In quei mesi, in ospedale una sua collega atea, che l’aveva sempre giudicata cinicamente per la sua fede, si ammala gravemente. Per tre mesi Laura la assiste giorno e notte. Poco prima di morire, la donna le sussurra: «Tu sei la mia speranza. Chiama un sacerdote. Voglio confessarmi».

In quel lasso di tempo, Laura si “dimentica” della San Giuseppe. «Si vede che non ne ho bisogno», pensa. Ne parla a don Michele. E lui: «Rimani fino al ritiro di Quaresima». È la svolta, inattesa. La San Giuseppe è la sua strada. «Come per Nicodemo, sono rinata da vecchia. Il Signore mi ha ripreso vincendo la percezione che avevo del mio male, che ancora mi teneva legata al palo. Ha scommesso su di me, rispettando il mio desiderio di vivere da sola». Oggi Laura assiste in un hospice gli ammalati terminali. Dove è possibile, li prepara all’incontro con Gesù. «Con loro ho un rapporto verginale: mi appartengono, senza possederli».

Alla nascita della quinta figlia, Roberta viene abbandonata dal marito. A don Michele chiede: «Anche se separata, la mia vocazione rimane il matrimonio. Però io vivo come se il Signore mi offrisse qualcosa di più in questa condizione. C’entra con la San Giuseppe?». C’entra, perché la Fraternità non riempie un vuoto. «È di più. Il Signore chiama a consacrare la vita a Lui come modalità di vivere il matrimonio da separato».

Il Signore sorprende quando la vita sembra ormai a posto, anche affettivamente. Walter a quarant’anni rimane vedovo. Ha un figlio, dirige una comunità di recupero per tossicodipendenti ed è responsabile del movimento della sua città. «Pensavo di non aver bisogno di altro». Attraverso il lavoro, conosce alcune persone con cui sperimenta una sintonia. Con loro si sente a casa. A posteriori, scopre che appartengono alla San Giuseppe. Tutti i suoi pensieri sull’“essere a posto” si sgretolano davanti a questa possibilità a cui il Signore lo chiama. «Il giorno in cui sono andato a chiedere a don Michele di iniziare la verifica, ho fatto la stessa esperienza di quando mi ero dichiarato a Maria, mia moglie». Le preoccupazioni lavorative, che prima lo tenevano sveglio di notte, ora non sono più un impedimento al sonno. «Essere calamitati da Lui mette una pace che non è frutto della propria capacità. Una Grazia di cui sei investito».

La messa quotidiana, l’ora di silenzio, la preghiera, i raduni annuali e l’incontro con il proprio gruppetto sono i gesti semplici che aiutano a riconoscere la presenza di Gesù, a farne memoria. Null’altro. «La carne di Cristo a cui ci si consegna è la circostanza», spiega don Michele. «Prima viene la vocazione alla verginità, poi la San Giuseppe. La verifica è innanzitutto questo. Lo abbiamo capito meglio con Solange». Solange, attrice brasiliana sempre in tournée in giro per il mondo, praticamente non riusciva mai a partecipare ai raduni o al gruppetto. «Davanti a questa situazione, siamo andati da Carrón chiedendogli quale fosse il “minimo” per appartenere alla San Giuseppe». E lui, ribaltando la questione, ha risposto: «Può la San Giuseppe sostenere la vocazione di una donna che vive quelle circostanze di lavoro?».

«La nostra umanità – che tante volte viviamo quasi con dispiacere, perché i conti non tornano, perché non ci piace, per i tanti limiti che riscontriamo in noi – è l’unica in grado di essere presa da Cristo», ha detto Carrón in quel ritiro di Avvento. Chiara, medico nutrizionista, era arrivata quasi a detestarsi perché ancora non era riuscita ad avere una relazione affettiva definitiva. Sentiva, però, impellente la domanda di Pietro: «Se vado via da Te, da chi andrò?». Eppure il movimento, gli amici, la Scuola di comunità… nulla era una risposta esauriente. «È stata una lotta, capivo che non potevo fare a meno del mio rapporto con Cristo. Voleva me. Diciamo che mi ha fatto una corte serrata». Una mattina del 2013 chiama la segreteria della San Giuseppe. «Quando ho sentito parlare don Michele, ho pensato: è la mia storia. Mi corrisponde, perché salva tutte le mie caratteristiche. Sono io». Ora i pazienti del centro nutrizionale di cui è responsabile le ripetono: «Lei è diversa». La psichiatra, incrociandola nel corridoio, le dice: «Il suo reparto è un altro universo».

All’inizio, don Giussani aveva immaginato: «Se questi gruppi si moltiplicassero (…) si potrebbe invadere l’Italia, non con lo scopo di invadere l’Italia». Si era sbagliato. Non l’Italia, ma il mondo è stato “invaso”. In Africa, preti, suore e anche memores sono accettati perché, come dire, sono ben identificabili. Ma un’esperienza come quella della San Giuseppe è inconcepibile.

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Nel 2002, Marta va per la prima volta alla vacanza della comunità di Yaoundé, in Camerun. Una persona la colpisce in particolare: Alice. All’amica che l’ha invitata chiede: «Come mai è così? Attenta, calma, materna, gentile…». «Ha fatto una scelta di vita: non è sposata, non ha figli. Fa parte della Fraternità San Giuseppe». «Ecco, io vorrei essere come lei», esclama. Due anni dopo, in Italia per l’Assemblea internazionale responsabili, le presentano alcune persone della San Giuseppe, tra cui Adele che le chiede: «Mi hanno detto di te, del tuo desiderio. Allora vuoi venire con noi?». Marta non ha esitazioni: «Subito!». Il giorno dopo, inizia la verifica. Tornata a casa, racconta alla famiglia la sua decisione. Scende il gelo. La sua scelta è incomprensibile. «Con gli studi che hai fatto! Ridurti così!». Da quel momento, per i suoi lei non esiste più. Ora Marta è educatrice in un centro sociale per ragazzi in difficoltà. «Nel rapporto con questi giovani io chiedo: “Cosa vuoi Tu da me, in questo momento?”».

«Dentro le pieghe della quotidianità» vuol dire persino sovvertire una mentalità. In Kenya, dopo il ritiro, a don Michele viene chiesto di fare una grande festa per l’entrata nella San Giuseppe. «Si è sempre detto di no. Per discrezione», spiega. Ma la persona in questione insiste. Poco prima della messa, in sagrestia ne parla con padre Pietro Tiboni, che ben conosce la mentalità africana. Il missionario comboniano non ha esitazioni: «In Africa la verginità vissuta così laicamente è una sfida. Per questo dico di non farla. Non per la festa in sé, ma non c’è bisogno di “formalizzare” questo gesto. Sei tu, con la tua fede e la tua vocazione alla verginità».

«Tutte le volte rimango sorpreso di come Cristo riempie affettivamente la vita di queste persone», dice don Michele. «Le raggiunge proprio nel loro accento particolare. E dentro la San Giuseppe scoprono una familiarità inaspettata, un’amicizia impensabile. Cosa ha fatto la Madonna dopo l’annuncio dell’Angelo? È andata da Elisabetta, per condividere quello che le era accaduto». Valgono le parole di Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».