Foto Associazione Fontana Vivace

Genova. Compagni di viaggio

I dieci anni della casa famiglia per minorenni “Fontana vivace”, dove alcune coppie di amici imparano l’apertura all’imprevisto. «E ad accogliere innanzitutto la diversità tra noi» (da "Tracce" di Luglio-Agosto)
Roberto Perrone

Ci stiamo sedendo a tavola, quando arriva la telefonata. Una volta questa era la mensa della Rsa ospitata nel parco delle suore Marcelline. La cucina è professionale, in tutti i sensi. Menù: ceci in zimino alla genovese, roast beef, insalata russa, asparagi e torta alla frutta. Tutto fatto in casa, tutto ottimo. Alle mie spalle, su un classico bassorilievo in stile ligure, c’è una parte del Canto XXXIII del Paradiso che contiene la terzina che ci interessa: «Qui sé a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra’ mortali / se’ di speranza fontana vivace».

“Fontana vivace” è il nome di questa casa, il nome scelto da e per questa amicizia, il nome più adatto per quest’opera avviata dieci anni fa dalle tre famiglie che siedono con me. Un’opera che scorre, vivace, come acqua di fonte. La telefonata ricevuta da Alessandra lo testimonia. «È una nostra ex ospite che ora vive per conto suo. Le hanno rubato il portafoglio e chiama noi per sapere come bloccare il bancomat. Per tutti quelli passati di qua, per i motivi più diversi, restiamo un punto di riferimento».

Le tre coppie che abitano la casa famiglia ''Fontana vivace''

Siamo nel cuore di Albaro, il quartiere residenziale di Genova. Tanto verde, strade che scendono al mare, silenzio, privacy. A tavola sediamo io e le tre coppie che abitano la casa: Alessandra e Marco Castagnola, Luca e Laura Orlando, Sergio e Laura Martinoia. Prima mi hanno fatto fare un giro. In una nicchia sulla bella facciata dai colori giallo e arancio, quelli dei palazzi genovesi, c’è una Madonnina. «È l’unico oggetto originale, tutto il resto è opera della nostra ristrutturazione».

Nel tour incontro un posteggio gonfio di biciclette e pattini a rotelle, un ping pong e un vuoto. «C’era il tappeto elastico, ma l’hanno sfasciato», dice Luca che afferra una pallina e la lancia oltre l’alta recinzione. Di là c’è un tennis club. I colpevoli dello sfascio mi travolgono sull’ultimo lato della casa. Un gruppo di ragazzini sta giocando, ci frullano attorno correndo. Mi sento osservato. Dal cornicione del terrazzo sopra di me un cane mi fissa. Uno dei bambini si è arrampicato sul tetto di un ripostiglio. Sergio cerca di farlo di scendere, ma lui sale più in su. «Non è ancora riuscito a domarlo», spiega Marco, sorridendo.

Nella casa ci sono cinque appartamenti, tre delle famiglie “fondatrici” e due che ospitano quasi sempre donne con figli, spesso in fuga da situazioni difficili. Durante il giro facciamo un po’ di genealogia. Laura e Luca hanno un figlio naturale, uno adottato (dall’affido iniziale) e attualmente tre in affido. Laura Martinoia, che si è laureata con una tesi sull’accoglienza, e Sergio hanno quattro figli naturali (alcuni già per conto loro) e tre in affido. Sergio: «Erano quattro fino a poche settimane fa. Una ragazza è arrivata in pieno lockdown, nel 2020, con Laura in quarantena e Marco in ospedale per il Covid. Era già stata con noi. Se n’è andata durante il secondo lockdown. Noi diciamo che è entrata con il Covid ed è uscita con il Covid, con tutti i problemi del caso». Alessandra e Marco hanno due figli adottati, già grandi. Loro non hanno “affidati” perché seguono le famiglie ospiti nei due appartamenti, attualmente una mamma italiana e una straniera entrambe con due bambini.

Sono entrati qui l’8 gennaio del 2011, ma a causa del virus non hanno potuto festeggiare il decennale. Sono accreditati come “casa famiglia per minorenni” e fanno parte delle “Dimore per l’accoglienza”. Non sono solo un punto di riferimento per famiglie e bambini in difficoltà, ma per tante altre persone che, come me, si sono sedute in questa sala ad ascoltare la loro esperienza. Una pattuglia di suore curiose, quaranta assistenti sociali lituane, gruppi di fraternità e parrocchiali, coppie che desideravano conoscere l’esperienza dell’affido. «Nella nostra sala si svolgono anche gruppi di mutuo-aiuto o formazione, e con gioia, ospitiamo gli amici nostri o dei ragazzi». Ma c’è anche chi bussa alla porta con altre richieste. Non distante c’è il Gaslini, l’ospedale pediatrico che per tante famiglie è la destinazione di un viaggio della speranza, ma che è pur sempre un ospedale, alieno per definizione, in una città lontana. «Nei loro occhi c’è la paura. Vedere una faccia amica che ti accoglie fa una grande differenza. Sono “inconvenienti” che accadono mentre tu vivi tutti i tuoi problemi personali», dice Laura Orlando, «ma se uno ci sta, ne nasce un bene». Un gruppo di universitari ha bussato con un amico spagnolo, un ragazzo disabile che voleva farsi una doccia. «È stato complicato, però alla fine ce l’abbiamo fatta».

Laura e Sergio sono sanremesi. Nel 1983 vengono a Genova per l’università. Sergio conosce Marco perché è il responsabile del Movimento Popolare dove svolge il servizio civile. Con Laura e Luca, invece, cominciano a condividere l’esperienza dell’affido e le vacanze estive. Proprio da qui parte la storia della casa. Appassionati di montagna, Sergio e Luca cercano un maso sulle Dolomiti da acquistare. Parla e riparla, Luca cambia prospettiva: e se invece trovassimo un posto dove andare a vivere vicini? Qui si inseriscono Marco e Alessandra. Sergio sentenzia: «Se entra in campo Marco la cosa si fa, garantito». Vanno a Como da Cometa (esperienza di accoglienza per minori, ndr), dove il consiglio è «prima curate la casa di carne, poi verrà anche quella di pietra». Già, prima verificate la vostra amicizia e la sua tenuta. La Provvidenza veglia e dà una mano anche per la casa di pietra. L’allora madre superiora delle Marcelline, Maria Angela, va a fare il bagno a Varigotti e incontra un amico del sestetto, Ernesto. Gli parla di questa casa per cui le suore cercano una destinazione d’uso. I sei incontrano la madre superiora e sgorga la “Fontana”. «Dobbiamo ringraziare lei e le suore. Ah, oltre a tutti i problemi tecnici», racconta Alessandra, «abbiamo dovuto affrontare l’iniziale ostilità del quartiere. Si era sparsa la voce che aprisse un ricovero per sbandati, drogati... Fosse anche stato, non ci sarebbe stato nulla di male, tutti hanno diritto a una casa». Già, ma questo è un quartiere “bene”. «Suonavano alla porta per chiederci cosa facevamo. Ora abbiamo ottimi rapporti con tutti».

Ognuno segue la casa, ma anche il suo lavoro: c’è chi è insegnante, manager delle poste, guida turistica con poco turismo che si occupa di musei, primario ospedaliero. Un’educatrice dà una mano. «Ognuno fa quest’opera con le sue attitudini». Laura Martinoia ricorda che, quando avevano cominciato, «c’era chi pensava che non avremmo resistito a lungo». E l’altra Laura aggiunge: «Infatti siamo più stupiti dalla nostra amicizia che dal successo dell’accoglienza».

Un’amicizia che è confronto e lavoro, ma soprattutto compagnia. «Alla sera cerchiamo di vederci sempre e una volta alla settimana ceniamo insieme, rispettando tempi e passioni di ciascuno: Milan, Sampdoria, Grey’s Anatomy, Amazon». Attorno a questa tavola si raccontano quello che succede nel mondo e nel loro mondo. «L’abbiamo fatto dal primo giorno e non abbiamo smesso, neanche durante il Covid. Marco, in ospedale malato, ci chiamava con il telefono sotto il casco».

La prima sera, la sera del loro arrivo, Laura e Sergio sono andati a prendere il caffè da Luca e sua moglie. È diventato un gesto quotidiano. Fanno anche le vacanze insieme. «Prendiamo un albergo in gestione, è anche un modo di proporre la nostra esperienza ad altri. All’ultima siamo arrivati a settanta persone. Fine. Oltre non possiamo andare». Tre famiglie, tre velocità. Luca: «Non ci misuriamo tra di noi, c’è chi fa di più e c’è chi fa di meno. Secondo me, ognuno di noi tiene talmente tanto a quello di cui la nostra comunione è segno che non viene mai da lamentarsi».

E questo è un miracolo: lo vedo a questa tavola. Arriva un figlio che gioca a calcio. Parliamo un po’ di pallone. Una delle ragazze in affido è con lui. Attorno alla “Fontana vivace” c’è un movimento di persone che aiutano. «Tua cognata, Gloria, con le sue marmellate fa crowdfunding», mi dice Alessandra. Marmellate buonissime, confermo. Poi mi racconta di una mamma straniera che è stata battezzata, ha preso la terza media e si è comprata una casa «con l’aiuto di amici che hanno donato solo per la fiducia in noi». Luca sorride: «Nostro figlio, quello adottato, ha commentato: “Papà, lei è stata il nostro più grande successo”».

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Siamo al caffè. Fuori è scesa la sera, i rumori si sono smorzati. «Come hai potuto vedere, durante il lockdown almeno c’era lo spazio per far sfogare i ragazzi». Diversi, ma insieme. «Ci accorgiamo sempre più, col passare degli anni, che occorre accogliere innanzi tutto la diversità tra noi. Siamo certi di essere diventati compagni di viaggio perché Dio così ha voluto come compimento della vocazione di ciascuno. Dopo il caffè, prima della buonanotte, diciamo la preghiera. Per ricordare che un Altro ci ha messi insieme e un Altro porta a compimento il destino dei nostri accolti». Che, infatti, tornano a bere a questa fonte non appena possono.