Una persona disabile sulla spiaggia attrezzata di Punta Marina Terme (Ravenna)

La croce di legno in riva al mare

Uno stabilimento balneare per disabili gravi sul litorale ravennate. Nato dalla storia di Dario e Debora e di tanti amici. Ma anche dalla Sla e dalla morte di lui. Il racconto
Giovanni Bucchi

«È la solitudine la vera malattia da curare nelle persone con diagnosi terminale. Per questo tutti noi abbiamo un grande compito: quello di alleggerire il carico di questi malati e delle loro famiglie, sostenendoli nel percorso». Un carico che sarebbe impossibile sopportare da soli e che invece, se condiviso, può diventare un giogo più dolce e leggero. Non solo, persino «una possibilità in più per scoprire che la persona non è mai definita dalla sua malattia, nemmeno se gravissima e terminale, perché ha dentro un desiderio di vita che va coltivato». Debora Donati lo sa bene. Molto bene. A lei, 47 anni di Faenza (Ravenna) con tre figlie adolescenti (o quasi), piace usare questa metafora. «Quella di una grande croce di legno, una croce pesantissima che nessuno può sostenere da solo, figurarsi sollevarla. Ma se sotto questa croce arrivano altre persone, ecco che diventa molto più leggera. Per cinque anni», racconta, «io e la mia famiglia ci siamo solamente appoggiati a questa croce perché altri la portavano con noi e per noi. Erano e sono i nostri amici, che continuano a sostenerci anche oggi in questo cammino». Che imprevedibilmente è diventato un modo per aiutare altri malati. In riva al mare.

Quei cinque anni di cui parla Debora sono gli anni della malattia di suo marito Dario Alvisi. Nel febbraio 2013 arriva «la diagnosi feroce»: sclerosi laterale amiotrofica. «Una malattia terminale o inguaribile non è una malattia incurabile, perché è la persona nel suo insieme che dev’essere curata. Per questo noi sin dal primo momento abbiamo voluto sostenere quel desiderio di vita che Dario non ha mai perso», ricorda oggi Debora. Un desiderio zampillante, una sovrabbondanza di bene vissuta in famiglia e con gli amici, capace di contagiare tantissime persone. Già nel settembre 2013, appena otto mesi dopo la “sentenza” emanata in un ospedale di Milano, Dario si ritrova immobilizzato a letto. Bisognoso di aiuto per qualsiasi cosa, in tutto e per tutto dipendente dagli altri. Lui che amava lo sport e la montagna, lui che nel lavoro (era amministratore di un’importante cooperativa di ristorazione) stava macinando successi, lui che poteva “vantare” una bella famiglia, tanti amici. «Andava tutto bene, sembrava tutto perfetto, poi quel leggero zoppicare di Dario su un piede, un sintomo apparentemente banale che invece si trasforma in ben altro», ricorda Debora.

Dario Alvisi

Eppure quella «diagnosi feroce» porta in sé i semi della speranza. Non è una condanna, come spesso si è portati a credere: «Quando è stata diagnosticata la Sla a Dario, ero ospite in una casa famiglia a Milano. Mi ricorderò sempre che in quei giorni, per me difficilissimi, una signora mi regalò la coroncina della Divina Misericordia tanto cara a Giovanni Paolo II, il Papa con il quale siamo cresciuti come coppia. Mi disse che mi avrebbe accompagnato; non so perché, ma mi sentii subito sollevata. Da quel giorno, non ci siamo più fermati».

«Non ci siamo più fermati», significa che per Dario e Debora (e per le loro figlie Caterina, Carolina e Camilla) da quel giorno è iniziata una nuova vita «che continua ancora oggi che Dario non è più qui con noi», continua Debora. «Lui ha sempre manifestato un grande desiderio di vita, voleva vivere soprattutto per stare al fianco delle sue figlie tutto il tempo che gli veniva concesso. Ha sofferto molto, in alcuni momenti moltissimo, perché questa malattia è implacabile, ma ha sempre affrontato tutto con il sostegno di famiglia e amici, e il contributo fondamentale di medici, infermieri e operatori sanitari».

Il 9 marzo 2013, meno di un mese dopo la «diagnosi feroce», Dario e Debora si sposano. «Siamo credenti e praticanti», spiega lei, «ma forse non coglievamo il senso di quel sacramento perché lo riducevamo solo alla festa, agli invitati, alle bomboniere… Quando invece quel giorno in chiesa, con le nostre figlie, i testimoni e solo i parenti più stretti, ho pronunciato quel “nella salute e nella malattia”, ho capito perché Qualcuno aveva permesso che aspettassi così tanto tempo per sposarmi. Per capire il vero senso di quel sacramento».

«Negli anni della malattia Dario è sempre stato il nostro centro di gravità. Proprio per questo, avevamo il cruccio di non poter soddisfare un suo grande desiderio: una vacanza insieme al mare». In Romagna all’epoca non c’erano strutture disponibili ad accogliere malati come Dario. Così quel desiderio di vita, di vita piena fatta anche di bei momenti, porta questa famiglia nell’estate 2017 («dopo un incredibile viaggio di 800 chilometri») sulle spiagge di San Foca di Melendugno, in Salento, nello stabilimento balneare “Terrazza tutti al mare!” attrezzato per disabili gravi dall’associazione “Io Posso”. «Tornati da quella bellissima esperienza, ci siamo chiesti: perché non fare qualcosa di simile anche in Romagna? Perché non permettere anche a Dario e alle persone come lui di trascorrere un po’ di tempo qui in riviera?», racconta Debora.

Il resto è l’incredibile storia degli ultimi anni, quella dell’associazione “Insieme a te” di Faenza, fondata nel 2017 e tuttora presieduta da Debora, che nel 2018 ha aperto a Punta Marina Terme, sul litorale ravennate, uno stabilimento balneare dedicato alle persone con gravi disabilità. Dalle prime 6 postazioni, oggi ne conta 18 con la possibilità di ospitare fino a 400 persone, con 7 appartamenti gestiti per le famiglie. Proprio nelle ultime settimane, con la posa della prima pietra da parte della ministra per la Disabilità Alessandra Locatelli, è partito il progetto “Il mare insieme a te-La spiaggia dei valori” sostenuto dalla Regione Emilia Romagna grazie a uno stanziamento della presidenza del Consiglio dei ministri-ministero per la Disabilità, per rendere ancora più accogliente e inclusivo questo luogo di vacanze così speciale.

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Alcune date puntellano questa storia e aiutano a darne un senso ancora più compiuto. «Il 30 marzo 2018 veniamo contattati dagli uffici della Regione: ci comunicano l’approvazione del progetto e che per quell’estate avremmo potuto costruire la spiaggia. Era Venerdì Santo, le condizioni di Dario peggioravano a vista d’occhio. Per sua volontà viene dimesso dall’ospedale dove era ricoverato. Voleva trascorrere gli ultimi giorni a casa». Ed è lì, accompagnato dalla moglie e dalle figlie, che Dario si spegne il 2 aprile 2018, Lunedì dell’Angelo, anniversario della morte di San Giovanni Paolo II. «Da allora», conclude Debora, «non ci siamo più fermati e oggi trovo il senso a tutto quello che ci è successo: c’è un disegno più grande pensato per noi come un dono speciale, un disegno che ogni giorno va accolto come un grande miracolo. Ed è questa passione per la vita la grande eredità che ci ha lasciato Dario e che vogliamo portare a tutti. Questa spiaggia, che Dario nemmeno ha visto, è uno strumento per poter dire ai malati che incontriamo che sì, vale la pena vivere perché non siamo soli e abbiamo un valore che supera qualsiasi malattia».