(Foto Unsplash/Cristian Lue)

Caritativa. “Il senso religioso” letto in carcere

Storie di amicizia con alcuni detenuti a Cremona, nate condividendo un’ora del proprio tempo a partire dal lavoro di Scuola di comunità. E in qualche caso proseguite anche dopo la fine della pena
Paolo Mirri

Pubblichiamo la prima di una serie di testimonianze dedicate alla caritativa, gesto cardine per la vita e l’educazione del movimento

Nella primavera di circa 15 anni fa, insieme a don Eugenio Nembrini e ad alcuni amici, mi recai nel carcere di massima sicurezza di Padova. Lì incontrammo dei detenuti che lavoravano per una cooperativa, la cooperativa Giotto, impegnandosi in laboratori di pasticceria, assemblaggio di biciclette, bigiotteria, valigie e come call center dell’Ospedale per la prenotazione di visite ed esami. Fu una giornata entusiasmante. Nei dialoghi con alcuni dei carcerati, tra cui anche qualcuno tristemente noto alla cronaca nazionale, rimasi stupito del fatto che, anche nel buio più buio, Dio può bussare al cuore dell’uomo. Tornai a Cremona col desiderio di ripetere questa esperienza nel carcere della mia città.

Si, ma come fare? Non venendomi in mente possibilità concrete, pur avendo a che fare saltuariamente con il carcere per motivi di lavoro, non accadde nulla per anni.

Dio però alle nostre attese e richieste risponde sempre, magari non come abbiamo in mente noi, ma risponde, eccome se risponde! Un pomeriggio sentii suonare il campanello dello studio di avvocatura dove lavoro. Alla porta c’era un prete, don Roberto Musa, cappellano della Casa circondariale di Cremona. Dopo avermi descritto la situazione del carcere, mi chiese – o meglio, tramite me, che all’epoca guidavo la comunità, chiese a tutto il movimento di Cremona – la disponibilità ad aiutarlo per non far mancare una presenza cristiana all’interno di quelle mura, dove la maggioranza dei reclusi erano extracomunitari, malati psichiatrici, tossicodipendenti.

Non volevo crederci! Quello che desideravo si stava avverando! Ne parlai subito ai miei amici e poco dopo mandammo un avviso a tutta la comunità. Ci fu una bella adesione! Così, dopo due incontri preparatori, iniziammo. La nostra presenza in carcere venne articolata in più proposte – dal catechismo alla falegnameria, al teatro, a lezioni di chitarra, all’animazione della messa, alla recita del rosario, alla biblioteca – e ancora oggi prosegue, solo con il catechismo e il teatro.

Così, da circa dieci anni, insieme ad alcuni amici della nostra comunità, con la sola interruzione del covid, andiamo a fare catechismo in carcere. Io e i miei amici proponiamo ai detenuti né più né meno quello che siamo e che viviamo grazie all’esperienza del movimento, raccontando come è stato per noi l’incontro con il cristianesimo e la Chiesa, proponendo la lettura della Scuola di comunità o di qualunque testo o intervento che ci colpisce.

Tengo sempre a mente una cosa che don Giussani diceva di sé: cioè di essere come «un tubo» da cui passa l’acqua di un Altro. Se mi penso così, ho la possibilità di conoscere sempre di più quell’acqua, di gustarmi il centuplo per quello che vedo accadere grazie a quell’acqua. Sì, perché in caritativa faccio essenzialmente l’esperienza che, sempre Giussani, così descrive: «Ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una resurrezione che avviene ora. Fuori da questo ora non c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo» (A. Savorana, Vita di don Giussani, pagine 851-852).

Andiamo in carcere una volta a settimana, il venerdì, per circa un’ora, dalle due alle tre del pomeriggio. Prima di entrare, nel parcheggio antistante, come aiuto a vivere il gesto leggiamo un pezzo del libretto Il senso della caritativa. Non andiamo nelle celle, ma attendiamo i detenuti, che scendono dalle varie sezioni, in aule poste a piano terra. A volte non scende nessuno, altre volte non siamo riusciti a leggere quanto ci eravamo prefissati, perché magari gli animi dei detenuti erano agitati per fatti di cronaca o per cose accadute in carcere.

È un aspetto quest’ultimo che mi colpisce e mi ha aiutato a non lasciarmi scivolare addosso fatti di cronaca che prima volutamente ignoravo, ma anzi a prenderli sul serio per poterli anche giudicare insieme.

Faccio un esempio. L’anno scorso abbiamo conosciuto un giovane detenuto con problemi psichiatrici che ha partecipato ad alcuni incontri dove leggevamo Il senso religioso. Un giorno – vedendo che, a causa di discussioni nate tra alcuni di loro su questioni della vita in carcere, non potevamo iniziare la lettura del testo – ha richiamato tutti invitandoli ad ascoltare quello che avremmo letto perché a suo dire sarebbe stato senz’altro più interessante di tutte quelle discussioni. Quel ragazzo veniva da noi per ascoltare qualcosa che aveva iniziato a intuire interessante per sé. E questo fatto, pur banale, ha scosso la mia routine: mi sono reso conto di quanto sia importante, per me anzitutto, essere lì con loro.

Con alcuni detenuti sono nati legami, a partire dalla proposta di vita nuova che ci ha affascinato e che noi comunichiamo loro per come siamo capaci.

Le amicizie che nascono in carcere – e che a volte continuano anche quando qualcuno di loro esce, dopo aver scontato la pena – sono proprio il segno di un Altro che opera. In carcere si mette in comune la vita, la nostra vita, ci si trova insieme a partire dalle domande del nostro cuore che cerca una risposta.

Penso a Diego: un giorno, leggendo Il senso religioso abbiamo parlato del vuoto che sentiamo, quella sete di felicità che nulla di umano può colmare. Improvvisamente è scoppiato a piangere riconoscendo per la prima volta nella sua vita che tutto quello che aveva fatto e che l’aveva portato in carcere, l’aveva fatto per provare a colmare quel vuoto.

Oppure penso a Michele, che nel frattempo è uscito ed ora è a Roma a lavorare: tutte le mattine mi manda il buongiorno. Qualche settimana fa mi ha telefonato per raccontarmi della situazione lavorativa e per chiedermi un consiglio. Alla fine della chiacchierata mi dice: «Ma se io non racconto queste cose a te, a chi le racconto? Sto sempre più capendo che forse tutto quello che mi è successo, il fatto di andare in carcere, doveva accadere, per incontrarti». Se fosse per me, o per la mia meschinità… invece ho dovuto riconoscere anche io che l’incontro è avvenuto per la Grazia di un Altro.

Penso anche a Vittorio, anche lui ormai uscito dal carcere, che un giorno chiama me e il mio amico Agazio e ci invita a mangiare sul suo camper: un pranzo da re. Diceva di una riconoscenza, di ricchezza vissuta, una sovrabbondanza, una gratitudine profonda che fa muovere così, senza calcolo.

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E poi penso al nostro amico Michele, uno dei primi detenuti incontrati e che, una volta scontata la pena, è rimasto attaccato a questa compagnia e a questa amicizia. Anche la sua storia mi fa vedere e toccare con mano che è proprio un Altro che opera! Come dice Giussani nel libretto sulla caritativa: «Noi andiamo in caritativa per imparare a vivere come Cristo». Questa è la sfida! Io vado in caritativa per vedere e per scoprire come anche lì Cristo vince, in me e in chi incontriamo.

Il bello, e ciò che mi sorprende, è che un gesto così informa, cioè dà forma, a tutta la vita. È un gesto la cui efficacia non rimane chiusa dentro il carcere, perché educa tutto di me all’unica possibilità per vivere pienamente all’altezza del mio cuore.