«ZACCHEO SONO IO»

Hanno alle spalle furti, omicidi e violenze. Ma, alla Casa della Virgen de Caacupé, in Paraguay, tra l’Angelus al mattino e i lavori nell’orto quindici ragazzi imparano a «non avere paura del proprio male» (da Tracce luglio-agosto 2011)
Fabrizio Rossi

Forse Osvaldo non l’aveva mai guardato così quel poster. L’abbraccio di un padre al figlio in ginocchio. Eppure è sempre stato lì, alla parete. Nella sala dove mangiano, studiano, guardano le partite. Anche il nome del pittore, un olandese, chi se lo ricorda. Stasera, però, è scoppiato a piangere come un bambino, dopo aver visto che cosa significa essere figlio. E che quello è lo stesso gesto del suo amico Pedro, che un’ora fa l’ha sorpreso a rubare nella sua stanza. Ma, anziché arrabbiarsi, l’ha abbracciato. E gli ha detto: «Non avere paura del tuo male: io sono con te».
Lo conoscono da vicino, il male, alla Casa Virgen de Caacupé. Una villetta di mattoni immersa in quattro ettari di frutteti, orti e campi da calcio a Itauguá, trenta chilometri a est di Asunción. Al cancello ti viene incontro Feliciano, berretto verde e scarponcini. José tiene a bada il cane. Victor saluta mentre dà una spuntata all’erba del vialetto. Sono alcuni dei 15 ragazzi ospiti della Casa, quasi tutti tra i 14 e i 18 anni. Arrivano dal Centro educativo di Itauguá, l’unico carcere per minori nel Paese. Hanno alle spalle storie di furti, omicidi e violenze, e di certo non avrebbero mai immaginato di vivere, un giorno, in un luogo intitolato alla protettrice del Paraguay. Tanto meno, in una villetta senza sbarre e il cancello sempre aperto. Alcuni, in realtà, non avrebbero neanche sperato di dormire in un letto, abituati a passare le giornate in strada e le notti sotto le pensiline dei bus. Per non parlare del periodo in carcere, abbandonati a se stessi in celle sovraffollate dove l’unica legge è quella del più forte.
Invece, in vite che, così giovani, sembravano già sconfitte, è entrato qualcosa. Un imprevisto. L’incontro con Pedro Samaniego, che nel 1999 ha aperto questa Casa per accogliere chi, scontata la condanna, non sapeva dove sbattere la testa. O chi, per un accordo con il Ministero della Giustizia, viene mandato lì come pena alternativa, di solito per due anni.

In gioco. Pedro è un ragioniere paraguaiano di 49 anni. Nel 1994, con altri amici, una domenica sì e una no ha iniziato ad andare in carcere per passare il pomeriggio coi ragazzi. Una caritativa che va avanti ancora oggi: «Tra una chiacchierata e un canto, condividiamo del tempo coi detenuti», racconta Pedro. Molti non ci stanno, ma con altri nasce un rapporto. Così, a qualcuno viene proposto di scontare la pena alla Casa Virgen de Caacupé. Dove quello che viene condiviso non è più un pomeriggio, ma ogni istante: «L’ospitalità è la carità più difficile, perché devi metterti in gioco dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina». Per Pedro è letteralmente così, dato che quella è davvero casa sua. Non timbra il cartellino: ci vive. E a tutti propone la stessa esperienza che fa lui.
A partire dagli orari: sveglia alle 6.30. Angelus insieme e colazione. Poi, i lavori. Alle 12.30, Angelus e pranzo. Quindi un’oretta di svago. Al pomeriggio, lezione con il maestro Ugo, che porterà i ragazzi alla licenza elementare. Merenda e ancora lezione. Un’ora di silenzio, per leggere o studiare. Angelus e cena. Alle 22, con una preghiera si chiude la giornata. Una regola che ricalca quella dei Memores Domini, la compagnia di laici che scelgono di dare la vita a Cristo, cui appartiene Pedro. Nessuno di questi momenti è imposto: «Eppure, quando per esempio Pedro va a messa, molti vogliono seguirlo», racconta Giuseppe, che ora nel Modenese organizza corsi di formazione professionale. Dal 2000 al 2002 ha aiutato Pedro a guidare la Casa e in agosto tornerà a trovarlo. Non ha mai dimenticato l’augurio che gli aveva fatto uno dei ragazzi (per lettera, perché «non osavo dirti che desidero il meglio per te, quindi ti scrivo»): «Porta in cuore la casa e la regola, per ricordarti sempre di noi».
Perché, nel tempo, cresce un’amicizia. Come testimonia Abel, 19 anni: «Io di questo avevo bisogno: di un gruppo di amici che mi staccasse dal buco nero in cui ero». O Angel, 17 anni, un rosario di corda al polso: «Possiamo sbagliare come tutti. Ma qui ho trovato una compagnia che mi aiuta a risollevarmi e a riprendere di nuovo». Ben altro dai rapporti che vivevano dietro le sbarre: «Lì avevo dei finti amici», racconta Cristian, 16 anni. «Qui ho dei fratelli». Per questo, che si tratti di apparecchiare la tavola o lavare i vestiti, si fa tutto sempre in due: «Così ci si aiuta», spiega Enrique, 17 anni. E il lavoro non manca. Ci sono le bestie da seguire: galline, struzzi, oche, mucche, pony... Le arnie per il miele e un laghetto per allevare i pesci. L’orto, curato da una squadretta di quattro ragazzi capitanati da Quique (16 anni, bermuda e fionda al collo: «Così il cane impara a non calpestare le verdure»). Il vivaio e il giardino con siepi e orchidee, dove c’erano solo rovi. Il frutteto, che produce mandarini, arance e acerola, un lontano parente della ciliegia. E la falegnameria, coi macchinari fatti arrivare dalla Brianza da Giovanna Tagliabue, in Paraguay dal 1987, che con Pedro ha condiviso tutti i passi di questa storia (v. Tracce, n. 6/2009). Qui nascono mobili di tutti i tipi. Come i cento banchi per l’istituto che Cesal, la ong partner di Avsi, ha appena costruito di fianco alla Casa: intitolato a “Don Luigi Giussani”, da marzo ospita corsi per idraulici, meccanici, elettricisti e falegnami.
Ma il vero lavoro, a Itauguá, è seminare: «Cioè indicare a questi giovani che c’è un punto di speranza», dice Pedro. «Poi solo Dio sa come sarà la loro strada». Del resto, fin da subito gli è stato chiaro che questa non era opera delle sue mani.

«Portaci ovunque». Innanzitutto perché non l’ha voluta: «Avevo altri progetti. Ma, andando a trovare quei ragazzi in carcere, è nata un’amicizia che non potevo immaginare». Al punto che, una volta liberati, hanno continuato a cercarla: «Venivano in sede, partecipavano ai nostri incontri. E poi mi chiedevano un passaggio: “Dove?” “Ovunque”, rispondevano, perché non avevano un tetto». Pedro li lasciava in un parco e tornava a casa. E ogni volta piangeva: «Chiedevano un’amicizia totale. Non bastava qualche ora insieme». Così, dopo intere serate a litigare con Dio («“Cosa vuoi da me?”, gli urlavo»), si è fatta strada un’intuizione e, nel giro di pochi mesi, è nato un appartamento per loro. In affitto, vicino all’abitazione di Pedro: «Li andavo a trovare uscito dall’ufficio. Dopo due anni, però, ho capito che non cercavano solo un letto o un lavoro, ma qualcuno che li accompagnasse nella vita». Saputa la cosa, lo stesso don Giussani si entusiasmò: «Mi ha incoraggiato, togliendomi ogni dubbio». E, visto che alla comunità del movimento era stato donato un terreno a Itauguá, ecco l’idea: costruirvi una casa, dove Pedro si sarebbe trasferito coi primi ragazzi. Il 1° novembre 1999 veniva inaugurata ufficialmente la Casa Virgen de Caacupé, che - tra ex detenuti, giovani in attesa di giudizio o già condannati - fino ad oggi ha ospitato 110 persone.
Qui chi era rifiutato da tutti scopre di avere un valore: «Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è sapere chi siamo», dice Gaston, 17 anni. O Abel, che si chiedeva se anche lui sarebbe potuto cambiare, e oggi racconta: «Se ti lasci abbracciare, questa vita ti trasforma. Come l’acqua che scava la roccia». Non a caso, quando è stato assunto in una ditta di isolanti, il capo gli ha detto: «Non ho mai trovato nessuno come te: magari lavorassero tutti così...».

Il braccio destro. O Feliciano, che a 16 anni aveva già conosciuto la violenza e l’abbandono, finendo dietro le sbarre. Ora, a 27 anni, è il braccio destro di Pedro. Tanto che, nonostante abbia finito il percorso alla Casa, è voluto tornare per dare una mano: «Non perché non avessi il lavoro», spiega. «Per qualche mese ho guidato i camion. Ma mi mancava un’amicizia: ho bisogno di questa famiglia». Anche Gustavo, 23 anni, rischiava di finire in brutti giri. Ma, anziché spaventarlo, il suo limite è stato ciò che l’ha fatto tornare da quei volti, che l’avevano aiutato sette anni prima. Ed ha bussato chiedendo: «Datemi qualunque mestiere: voglio solo guardarvi». Perché niente va scartato: «Perfino l’errore è un’occasione per un rapporto», spiega Pedro. «È un’avventura stupenda».
Certo, in un Paese come il Paraguay sembra una goccia nel mare. Davanti a queste quindici facce ti viene da pensare alle migliaia di disperati, in carcere o per la strada. Sembrerebbe quasi un’ingiustizia: perché ad alcuni viene offerto questo incontro e ad altri no? «Guarda che non siamo noi a salvarli», risponde Pedro: «Pensa a Gesù con Zaccheo. Non l’ha chiamato perché era migliore, ma perché l’ha preferito. Quanti altri Zacchei avrebbe potuto chiamare? Ha scelto lui». È quel che sta scoprendo lo stesso Pedro: «All’inizio mi muovevo per il bisogno degli altri. Mentre sono io il primo a non essere a posto. Anche io ho bisogno di essere perdonato, amato, abbracciato: Zaccheo sono io».