Paul Harding

Paul Harding. «Lì fuori c’è Qualcosa di perfetto»

«Siamo limitati a quello che possiamo vedere e toccare. Ma proprio questo ci dice che nell’universo c’è di più...». Dal baseball alla teologia faccia a faccia con Paul Harding che al primo romanzo ha vinto il Pulitzer (da Tracce, settembre 2012)
Luca Fiore

Paul Harding è uscito dal gruppo. Erano i Cold Water Flat e Paul suonava la batteria. Negli anni Novanta incisero un paio di dischi e andarono in tournée per gli Stati Uniti e per l’Europa. Poi Harding ha chiuso con il rock e ha deciso di diventare quello che avrebbe sempre voluto essere: uno scrittore. Si iscrisse a un corso di scrittura creativa a New York. Poi diventò a sua volta insegnante di scrittura ad Harvard e all’Università dell’Iowa. Il romanzo dal cassetto lo tirò fuori nel 2009. I grandi editori lo snobbarono e a pubblicarlo fu una piccola casa editrice. Tinkers (L’ultimo inverno, Neri Pozza, 2011) fu un successo che gli valse il Premio Pulitzer 2010 per la letteratura. Il libro racconta la vicenda di George Washington Crosby, un riparatore di orologi, un tinker, appunto, il quale, sul letto di morte, ripercorre la storia della propria vita e del difficile rapporto con il padre Howard, malato di epilessia. Quando racconta di come nascono le sue storie, Harding dice che è come se avesse un’apparizione della versione perfetta del racconto. «È un po’ l’idea platonica. E la scrittura è il tentativo di dare corpo a questa sorta di opera d’arte perfetta. Ma è un processo che non funziona mai. Il risultato è imperfetto. Ma credo sia proprio l’imperfezione del risultato a far tremare e sussultare il cuore del lettore». Ecco, l’imperfezione. È strano che con uno degli scrittori più in vista d’America si finisca a parare proprio lì.

Questo rapporto con la perfezione è qualcosa che riguarda solo l’arte o anche la vita?
Probabilmente riguarda anche la vita. Certo la mia maniera di esprimermi è la scrittura, che è la cosa di cui riesco a parlare meglio. Ma nello sport americano, nel baseball ad esempio, si parla di perfect game, la “partita perfetta”. A ogni ambito della vita corrisponde un’idea di perfezione. Non è un’esclusiva dell’arte.

Leggendo il suo libro e sentendola parlare sembra che lei abbia molta fiducia nelle cose così come sono. È strano, perché oggi domina la paura e l’incertezza per quel che può accadere. Da cosa nasce questa fiducia?
Io sono influenzato molto dalla teologia. È strano perché non sono nato in un contesto religioso. Però penso che la teologia sia una sorta di forma narrativa di filosofia. In particolare quella giudeo-cristiana. La teologia si pone il problema della trascendenza e del suo rapporto con le cose immanenti. A me interessa, innanzitutto, il problema dell’immanenza e l’idea che siamo chiamati ad essere consapevoli della vita che facciamo. Penso che non ci sia tentazione più grande per l’uomo che guardare da un’altra parte, fuori dalla vita come è. Sì, la vita è dura e vorremmo che andasse meglio. A costo di fuggire le cose che ci capitano. Ma il principio estetico che perseguo è quello di andare dentro alle cose, sempre più a fondo.

Non le sembra un processo opposto a quello teologico?
Certo, è una sorta di paradosso. Dio è trascendente, ma il modo che usa per dimostrare la sua trascendenza è quello di diventare immanente. Che poi è l’idea di fondo del cristianesimo. È l’idea per cui noi siamo immanenti e trascendenti allo stesso tempo. E in noi c’è una sorta di dialettica che ci fa oscillare tra i due poli. Ma ciascun polo non ha significato fuori dalla relazione con l’altro.

Il New York Times ha scritto che lei è un appassionato lettore di Karl Barth. Come un ex batterista rock arriva a leggere un autore del genere?
Be’, leggevo dei libri anche quando suonavo la batteria... Le due cose non si escludono (ride; ndr). Ma per questo bisogna risalire alla mia amicizia con Marilynne Robinson (Premio Pulitzer 2005; ndr), la mia prima insegnante di scrittura creativa. Lei è profondamente religiosa. Più la conoscevo e più l’ammiravo. Allora le ho chiesto quale fosse la sorgente della sua ispirazione. Lei mi ha fatto capire che era la religione. Così ho cominciato a leggere libri di teologia. All’inizio era un modo per conoscere meglio Marilynne. Ma poi la cosa mi ha preso davvero. Ha un fascino senza fine.

Perché?
Penso che la Bibbia, il Vecchio Testamento in particolare, sia come un romanzo. Penso anche che la miglior teologia si legga come si legge un racconto. Questo non per sminuire la Bibbia, ma per riconoscere la natura sacra della narrativa. Così la teologia o la cosmologia sono un modo narrativo di interrogarsi su che cosa significhi essere nell’universo. Io non leggo la Bibbia in senso letterale. Però penso dica cose vere. Allo stesso modo in cui penso che Moby Dick dica la verità al cuore. In letteratura i grandi romanzi non hanno bisogno di riportare la “verità fattuale” per essere veri. Io leggo la Bibbia come una raccolta di poesia e racconti. È un grande modello per l’economia della narrazione, nel senso di compressione e raffinatezza della scrittura. Penso che le storie della Bibbia siano tra le più profonde indagini della condizione umana.

Cosa intende quando dice «vero per il cuore»?
È ciò che non deve essere fattuale per essere vero. Penso che troppo spesso la gente confonda la realtà fattuale con la verità. Guerra e pace può non raccontare fatti reali, ma quel che dice è vero: io vi riconosco la mia esperienza umana. Risuona con me. “Suona” vero. E lo stesso accade con Moby Dick e tutti i miei romanzi preferiti.

«Howard tirò su una crosta di patata con la forchetta. Quindi infilzò due fagiolini e un pezzo di prosciutto. Si portò il cibo alla bocca, ma si bloccò prima di addentarlo. I muscoli delle mascelle si afflosciarono. Ansimò e cominciò a sbattere le palpebre». Che cosa cerca quando insegue questa precisione nel raccontare le cose?
La precisione e l’esattezza sono a mio parere le virtù della scrittura. Ma quello che capita a me è che più a fondo arrivo ai dettagli, attraverso la precisione e l’esattezza, più raggiungo un punto per cui le cose si capovolgono e mostrano il loro volto trascendente. Mi accorgo che quando le descrizioni arrivano al massimo grado di esattezza, spalancano un regno di metafore e di simboli. Penetrare a fondo nell’immanenza porta ad accorgersi del trascendente.

Lei insegna scrittura creativa. A parte le tecniche del mestiere, come si può trasmettere il desiderio di perfezione di cui parla?
È difficile. Gli insegnanti da cui ho imparato di più sono quelli che mi hanno aiutato a modellare la vita della mente. I migliori insegnanti di scrittura non trasmettono cosa guardare, ma come guardare. Si può insegnare solo per esempi. Io posso mostrare ai miei studenti quanto sono appassionato e qual è il risultato di questa mia passione.

Oggi molti romanzi americani raccontano la storia di un padre che muore. Penso a Le Correzioni di Jonathan Franzen, Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, La strada di McCarthy. Anche il suo, in un certo modo. È solo una coincidenza?
Probabilmente è una coincidenza. Ma d’altra parte ogni generazione di scrittori finisce per confrontarsi con i temi eterni della letteratura: perdi tuo padre, ti sposi, hai un figlio... I grandi passaggi della vita umana. In realtà a me non capita di pensare a un tema su cui devo scrivere. Il mio non è un libro “sui padri”. Ho scritto un libro su personaggi precisi. E quando l’ho finito e l’ho riletto, mi sono accorto che c’erano dentro certi temi. Non scrivo per temi. Sono i personaggi che comandano.

Che rapporto ha avuto con suo padre?
Ho avuto un gran rapporto con mio padre! Pochi giorni fa sono stato con lui a pescare insieme a mio fratello e ai miei figli. Nel caso di questo libro, però, tutto è nato piuttosto dal fascino per la vita di mio nonno. Lui era stato abbandonato dal padre quando aveva 12 anni. Allora ho pensato come deve essere venir abbandonati dal proprio padre e contemporaneamente come dev’essere abbandonare la propria famiglia. Ho ricostruito e dato corpo a quelli che erano dei miti familiari. Ma di fatto è stato un puro atto creativo.

Tornando alla questione dell’imperfezione. Lei parlava di una sorta di visione platonica. Eppure il suo interesse per le cose, per l’immanenza, non è molto platonico...
Più che a Platone penso a Kant, che parla di noumeno e fenomeno. Ha presente? Il noumeno è l’intuizione che nelle cose c’è di più, c’è qualcosa di perfetto al quale noi, che siamo fatti di carne e sangue, non abbiamo accesso. Noi abbiamo accesso solo al fenomeno, a quello che si vede. È questo che intendo per immanenza: noi siamo limitati a ciò che possiamo percepire con la nostra esperienza. Ma la nostra esperienza ci dice anche che nell’universo c’è di più rispetto a quello che possiamo vedere e toccare. C’è sempre l’idea che lì fuori ci sia qualcosa di perfetto.

Kant dice che il noumeno non si può conoscere. Eppure leggendo il suo romanzo, a volte, si ha l’impressione che non sia proprio così...
No, giorno dopo giorno, istante per istante, faccio l’esperienza di trovarmi alla presenza di un grande significato ultimo al quale, però, io non ho accesso. Sento come se fossi immerso in questo significato, che è più grande di me. Ma questo significato non è accessibile, anche se io non smetto di cercarlo. Quando scrivo non smetto di cercare di afferrare il noumeno, l’idea perfetta, per portarlo nel mondo sensibile. Ma so che fallirò. L’opera d’arte è bella proprio perché riproduce il desiderio umano per il noumeno, per la perfezione, alla quale non si potrà mai arrivare. Ma non c’è ragione per smettere di cercarla.