Là dove ci sono le «pietre vive»

Il Papa li ha chiamati così all’inizio del suo ministero. Gli uomini con cui «Dio stesso costruisce la casa». Dalla missione in terra di frontiera ai nuovi monasteri nell’Europa secolarizzata, tre storie dalla Chiesa nel mondo (da Tracce, aprile 2013)
a cura di Luca Fiore e Alessandra Stoppa

DIVYA, CONVERTITO TRA GLI SCEICCHI
«Sono nato 35 anni fa a Delhi in una famiglia sikh. Ma nella veglia di Pasqua riceverò il Battesimo, nella parrocchia di Abu Dhabi». Divya Singh abita da alcuni mesi nella capitale degli Emirati Arabi Uniti. Meno famosa di Dubai, ma non meno ricca. Da oltre un decennio è un cantiere a cielo aperto. Grattacieli e grandi opere sono sorti in tempi record, dove pochi decenni fa c’era solo deserto. Tutto merito dei petrodollari, certo, ma anche del lavoro degli stranieri che prestano la loro manodopera a basso costo. Sono soprattutto indiani, pakistani e filippini. Lavorano nei cantieri, nelle case dei ricchi emiri, fanno i taxisti e altri lavori più umili. Divya ha la fortuna di lavorare come ingegnere nell’amministrazione statale. Gli stranieri sono ormai più dell’80% della popolazione. Tra loro molti cattolici. La sola parrocchia cattolica della città conta 100mila fedeli. Quella degli Emirati Arabi è una Chiesa fatta di gente semplice. Molti non hanno i soldi per pagarsi il taxi per andare a messa tutte le settimane. Povera e per i poveri. Piacerebbe a papa Francesco.
Ogni anno, alla veglia di Pasqua, alcuni adulti ricevono il Battesimo. Sono persone che, proprio qui nelle Penisola araba, insieme al lavoro hanno incontrato Cristo. C’è la cinese che ha conosciuto il cristianesimo attraverso i colleghi filippini del duty-free dell’aeroporto. C’è il giovane cuoco malese la cui madre si era convertita all’islam, ma che ad Abu Dhabi ha voluto farsi cristiano. E poi c’è Divya, il sikh, che il cristianesimo l’ha incontrato attraverso sua moglie, Hwae Jung, artista coreana incontrata a Boston. «Ci siamo fidanzati, lei era cattolica e la domenica la accompagnavo a messa». Per un sikh è un’esperienza completamente nuova. Una scoperta: «Non è che fossi deluso dalla mia religione. Al tempio ci andavo con mia mamma. Ma c’era un grosso ostacolo: la lingua. I riti e i testi sikh sono in punjabi, la lingua del Punjab, uno Stato al Nord dell’India. Io parlo solo l’indi. Così non avevo mai capito bene il significato delle parole che si dicevano al tempio. A Boston, invece, in chiesa si parlava inglese e potevo capire tutto». Entrambe le famiglie fanno resistenza, ma alla fine devono arrendersi e Divya e Hwae Jung si sposano con il doppio rito in chiesa e nel tempio sikh.
«Dopo due anni lei mi chiese se avevo mai pensato di diventare cattolico. Mi disse che voleva che stessimo insieme anche in paradiso, ma se io non fossi diventato cristiano non sarebbe stato possibile. Disse che, se sentivo che era una cosa giusta, avrei dovuto farlo». Divya inizia a pensarci. Dopo qualche mese si trasferisce a New York a lavorare in una grande banca e contemporaneamente segue un master alla Columbia. Qui non esistono orari («lavoravo anche 90 o 100 ore la settimana») e presto non ce la fa più a tenere il ritmo. «Non avevo più tempo per niente. Fino a che non mi sono ammalato. Ero prostrato fisicamente, mentalmente ed emotivamente. È allora che ho iniziato a leggere libri di religione e pregare. E a sentirmi meglio. Certo, avevo un buon medico e mia moglie si prendeva cura di me. Ma ho visto che quei testi e il Rosario quotidiano mi rendevano più forte. Ho avuto la netta percezione che Dio, lo Spirito Santo, mi stesse aiutando».

«A casa mia». Quando arriva l’offerta di lavoro ad Abu Dhabi, Divya la prende al volo. Ritmi meno stressanti e più tempo per la famiglia. Prende subito contatto con il parroco della chiesa di San Giuseppe e inizia la catechesi per il Battesimo. «Del cristianesimo mi ha colpito che entrando in chiesa mi sentivo a casa mia. L’animo da ingegnere ama la sistematicità e l’ordine dei riti cristiani. Ma ciò che ha più contato è stato l’aiuto che ho sentito nel momento di più grande difficoltà della mia vita. Ho visto che qualcosa è cambiato. È strano essere battezzato qui, ad Abu Dhabi. Ma la comunità è davvero viva. La gente quando viene qui, tra le mille difficoltà, riscopre la propria fede».



LA TRAPPA CHE COLTIVA L’EUROPA
Neanche loro sapevano spiegare bene il perché. Ragazze giovani, magari appena convertite al cattolicesimo, che volevano entrare in clausura. «La cosa che gli era chiara era che volevano vivere totalmente per il Signore», spiega madre Lucia Tartara, superiora del monastero trappista di Naší Paní nad Vltavou (Nostra Signora della Moldava), 60 chilometri a sud di Praga. «Non è che in Repubblica Ceca le vocazioni siano molte. Ma è il Signore che chiama. Queste ragazze seguivano un’intuizione, senza sapere dove le avrebbe portate. Un po’ come è capitato ad Abramo». Dalla sua fondazione nel 2007, il monastero ha accolto 11 nuove vocazioni che si sono aggiunte alle 9 fondatrici provenienti da Vitorchiano. La comunità oggi è formata da 20 sorelle, 14 nate in Repubblica Ceca. Sembra impossibile, in un Paese dove fino al 1989 era vietato entrare negli ordini religiosi e dove la maggioranza della popolazione a stento conosce i rudimenti della fede.

Il canto e la zappa. «Dopo la caduta del comunismo, una ragazza che desiderava entrare alla Trappa arrivò a Vitorchiano». La voce si sparge («In Repubblica Ceca tutti conoscono tutti, soprattutto tra i cattolici», assicura madre Lucia) e nel monastero giungono altre connazionali. Ma è il cardinale Miloslav Vlk, allora arcivescovo di Praga, a chiedere che un gruppo di loro fondi una nuova comunità nella sua Diocesi. «Arrivò da noi per caso. Fu sorpreso che ci fossero delle monache ceche. E insistette moltissimo perché andassimo da lui».
È una storia che madre Lucia racconta piena di stupore e commozione. «Eravamo cinque italiane, tre ceche e una ungherese». I primi tempi le “fondatrici” sono ospiti a Praga di un convento di francescane. Per due volte capita che ragazze bussino e chiedano di conoscere le monache trappiste. «In quel periodo non potevamo neanche mostrare la vita nel monastero. Poi, quando ci trasferimmo, ci videro pregare, cantare l’Ufficio delle Ore e lavorare.?La loro decisione ne fu rafforzata».
Il monastero è costruito sopra le colline che sovrastano la Moldava. La gente, soprattutto d’estate, si ferma, attratta dalla bellezza. Molti non possono neanche immaginare chi siano quelle donne: «Dopo averci sentite pregare i Salmi, tanti ci chiedono cosa siano quelle “belle poesie” che cantiamo. C’è tanta ignoranza della religione, ma non ci sono tutti i pregiudizi che ci sono in Italia. E questo spesso è un vantaggio». La gente si ferma. Ritorna. Chiede un consiglio, una preghiera. La foresteria accoglie trenta ospiti ed è quasi sempre piena. Vengono persone singole o gruppi. Per fare silenzio e pregare. «Qualcuno ci chiede di tenere esposto il Santissimo anche di notte». La fede dei cattolici cechi è profonda, ma risente degli anni passati in clandestinità. «Il rischio è che resti disincarnata. Il cristianesimo non è solo qualcosa di spirituale. Deve incidere nella vita», conclude madre Lucia: «Noi desideriamo mostrare loro che la fede c’entra con la vita di ogni giorno, è fatta di carne e sangue. Il lavoro, ad esempio: sul piano culturale il comunismo gli ha tolto ogni nobiltà. Oltre all’agricoltura e all’apicoltura, dipingiamo icone, cuciniamo biscotti. Sentiamo come sfida educativa, come ai tempi di san Benedetto, anche il compito di richiamare l’importanza cristiana del lavoro. È importante che chi viene ci senta cantare nel coro, ma è fondamentale che ci vedano anche zappare nell’orto».


ROGER, JEAN ED IO COME IL CENTURIONE
In questi giorni è arrivato il caldo. Il lavoro nei campi si ferma. È il periodo dell’anno in cui c’è più tempo per la comunità, che vive nonostante i quarantasei gradi, le lunghe distanze a piedi e un cristianesimo ai primi passi.
Sono quattro anni che padre Luca Dal Bo, del Pime, è in Africa, nel Sud del Ciad. Quand’era bambino, a Sambughè, piccolo centro vicino a Treviso, ogni tanto faceva ritorno un missionario. Lo ascoltava per ore raccontare del Brasile. «Mi sembrava impossibile che ci fosse qualcuno che non conosceva Gesù». Lui che era cresciuto al ritmo semplice della preghiera, la messa domenicale, l’affidarsi di sua madre al Signore e l’amore grande del nonno per la nonna. «Mi dicevano sempre: “Ringraziamo Dio per tutto, senza di Lui non sapremmo neppure respirare”». Oggi vive a Fianga, con uomini che non conoscevano la fede. «E io la conosco attraverso di loro». Va in fretta a sé: «Sono in missione per stare con Gesù. Questi anni sono stati la grande occasione che Dio mi ha dato per approfondire la mia fede».
Ogni volta a messa sente come un invito le parole della consacrazione: «Prendi il Corpo e il Sangue... la tua vita!», pensa. «E fai come Me, in ricordo di Me. Ecco, donarsi, lasciarsi spezzare, sorseggiare, in nome di Gesù». Dice che il suo cuore si surriscalda ancora davanti a certe brutture della cultura tradizionale. Come le iniziazioni tribali: molti cristiani del villaggio sono partiti per partecipare. «Alcuni, però, no, sono rimasti fedeli al Battesimo ricevuto:?sono stati a casa, continuando a venire in parrocchia. È stata dura, perché gli “iniziati” erano molto aggressivi. Ma loro, fedeli. E nel vederli chi aveva abbandonato il cammino dietro a Gesù ha chiesto di tornare». Una chiesa che vive, soffre, testimonia, e resta in piedi anche se cade. «Cade con Gesù, per rialzarsi», dice. «Il coraggio lo si trova solo se si è innamorati. E a chi è innamorato viene scusato tutto». 
Desidera per sé questo coraggio, «di posare il capo come Giovanni sul petto di Cristo, perché ci si sente amati anche se ancora non si sa amare veramente». E «tutto il resto» - le sue giornate e le responsabilità, la parrocchia, le comunità della savana, i progetti di pozzi e granai, il rapporto con i musulmani - «sono solo espressioni dello stare con Lui».

«Fumata bianca!». È la missione di sempre, come l’ha chiamata papa Francesco in uno dei suoi primi discorsi: «Portare Gesù Cristo all’uomo». Luca lo sta imparando: «Dio fa il dono della fede a chi si lascia sedurre da Lui». Pensa a Jean Louis. Ormai anziano, faceva cinque chilometri a piedi con il messale in mano, per venire qui. «La sera in cui è morto, l’ho salutato e non rispondeva, ma quando gli ho chiesto se voleva l’Olio Santo mi ha guardato e sorriso, ha ripreso tutte le forze e si è messo seduto, a pregare». Poi si è coricato sereno e ha chiuso gli occhi. «Lui mi ha cambiato, mi ha evangelizzato. Il modo in cui è morto ha annunciato Cristo a tutti. Come il centurione, ho potuto dire: il Signore è qui». E lo ha ridetto, guardando le facce dei quaranta preti della sua diocesi, quando a un tratto, all’incontro con il Vescovo, uno con la radio attaccata all’orecchio ha urlato: «Fumata bianca!». Si sono stipati davanti a una vecchia tv. «Non dimentico quei volti carichi di attesa, e quel silenzio, per non perderci niente di lui. Eravamo lì, lontani nel mondo, appiccicati, al caldo, ma così desiderosi del Papa».
Dal cortile arriva un urlo: «Luca balloon!». È il richiamo di ogni giorno. Roger, sei anni, viene in missione con i suoi amichetti per giocare a pallone. È orfano e vive in una capanna con la nonna. Un giorno, arriva e gli dice: «Luca, scarpe!». Ai piedi ha solo metà ciabatta. «Gli ho detto: “Tu lavori e io ti pago le scarpe”. Mi ha fatto un gran sorriso e si è messo a raccogliere le foglie della missione». Ha lavorato duro un’ora e mezza. «Mi si spezzava il cuore a vederlo spingere la carriola più grande di lui, ma l’ho lasciato fare, perché era felice». Roger ha invitato i suoi amichetti alla Via Crucis. «Anche se non capisce cosa sia, vede che lo facciamo e quindi sa che è una cosa grande». Stare con Gesù. «Un po’ alla volta, sta diventando la cosa più importante per me», dice padre Luca: «Quella che riempie la vita».