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Abbiamo seguito la visita di Julián Carrón in Kenya, dove ha incontrato gli amici di vari Paesi: Costa d’Avorio, Etiopia, Sudafrica... In posti così lontani dall’inizio storico di CL, vibra un incontro totalizzante (da Tracce, novembre 2013)
Luca Fiore

Polvere e bouganville. E tanta gente per le strade. Le arterie che alimentano il cuore della città sono ostruite da migliaia di auto innervosite. La jeep di don Alfonso Poppi, missionario della Fraternità San Carlo, avanza a fatica conquistando semaforo dopo semaforo. Nairobi, capitale del Kenya, ha quattro milioni e mezzo di abitanti e li dimostra tutti.
È una città ferita da tante ferite. Storiche, urbanistiche, umane. Ma la vitalità della sua gente la tiene in vita, nonostante le vecchie cicatrici e le nuove ustioni. L’ultima è il cratere aperto nel corpo del Westgate Mall, il centro commerciale, teatro di un attacco terroristico iniziato il 21 settembre. Quattro giorni di assedio e oltre sessanta morti. A metterlo in atto un numero imprecisato di shabab, guerriglieri somali legati ad Al Qaeda. La nostra auto si ferma davanti al cancello del Dimesse Center di Karen, l’istituto di suore dove ha luogo l’Ara, l’Assemblea responsabili dell’Africa di Comunione e Liberazione. Si fa avanti un addetto alla sicurezza. Scruta dentro l’abitacolo e sorridendo dice: «Nessuno shabab a bordo? Allora avanti...».
Cento persone da 13 Paesi. Oltre Kenya, Uganda e Nigeria, dove Cl è una presenza da molti anni, anche Angola, Burundi, Camerun, Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Madagascar, Mozambico, Sierra Leone, Sud Africa e Sud Sudan. Nel cortile del convento don Julián Carrón, polo grigia d’ordinanza, ha un sorriso e un abbraccio per tutti. È reduce dall’incontro con papa Francesco, e nell’introduzione parte da lì. «Il nostro tentativo è quello di rendere la fede sempre più nostra dentro la vita quotidiana, dentro le sfide in tutti gli ambienti in cui la vita si sviluppa. È lì che possiamo dare la nostra testimonianza, mostrare una vita più intensa e ragionevole». Siamo a migliaia di chilometri, geograficamente e culturalmente, dai luoghi dove queste parole sono state dette per la prima volta. Eppure agli orecchi di chi ascolta, kikuyu o masai, igbo o fulani, baganda o basoga, la distanza non esiste. Anche perché la provocazione lascia poco all’interpretazione: «Come si fa a vivere?», e ancora: «Se le cose vanno bene siamo contenti e se vanno male siamo tristi. Ma a che cosa serve la fede se reagiamo come tutti gli altri?».
Si capisce subito che, per la comunità di Nairobi, l’attacco al Westgate è una questione ancora aperta. Nella prima assemblea se ne parla. Maggie, ad esempio, racconta la sua paura. «Andavo al lavoro dicendo il Rosario. Non potevo non pregare. Pensavo all’orrore del terrorismo. La stessa cosa, mi dicevo, potrebbe accadere a me. Ma vedendomi così impaurita, mi scandalizzo. Sono tentata di controllare la mia reazione, appoggiarmi alle persone anziché a Cristo. Lui mi ha dimostrato che può tutto. Ma che cosa può trasformare lo scandalo di se stessi nel riconoscimento del Mistero?». «Il problema è se hai incontrato o no qualcosa che può resistere al contraccolpo dell’attacco terroristico», risponde Carrón: «Abbiamo una certezza che può reggere questo impatto? Ma la sfida è che proprio una situazione del genere può essere l’occasione per crescere nella certezza di Cristo».
Anche don Alfonso, parroco di Saint Joseph a Nairobi, parla dei fatti del centro commerciale partendo dalla giornata di digiuno per la Siria. Lui che da un anno, da quando gli shabab hanno colpito una chiesa protestante della città, vede i propri fedeli entrare a messa passando dai metal detector. «Ci siamo uniti, non senza un’iniziale fatica, alla preghiera per la pace in Siria. Abbiamo detto una messa e fatto un’ora di adorazione davanti al Santissimo. La mia resistenza è sparita e una presenza si è fatta avanti nella densità di quel silenzio. Non era appena la presenza sacramentale, ma mi dicevo: siamo una cosa sola con il Papa, i siriani e tutto il mondo. Poi, pochi giorni dopo, la Siria ce la siamo trovati in casa. E abbiamo trattenuto il respiro e ci siamo chiesti: ma che cosa sta succedendo? Il Presidente ha indetto tre giorni di lutto nazionale. “Ma quale lutto?”, ci siamo detti: “Noi siamo cristiani, per noi saranno tre giorni di preghiera, perché Cristo abbracci noi e questo Paese”». Joakim, responsabile per il Kenya, tornerà sulla questione due giorni dopo, dando il la all’intervento di Carrón alla Giornata di inizio di Nairobi, chiedendo in una situazione così: “Come nasce una presenza?”.

Fuori dai denti. Al termine della prima assemblea dell’Ara, un ragazzo di Kampala abbraccia Carrón sollevandolo per la vita e canta: «Oje vita, oje vita mia...». Poi gli altri ugandesi del coro degli alpini si stringono intorno a lui e intonano un energico E col cifolo del vapore.
Enrico viene da Luanda, Angola, dove si è trasferito per lavoro. Racconta che con altri due colleghi ha iniziato a incontrarsi a fare Scuola di comunità nella nunziatura. Invita anche il nunzio, il quale qualche tempo dopo dice a Enrico: «Ho saputo che c’è un altro gruppo che si trova a leggere il vostro stesso libro». Sono tre portoghesi di Cl che si uniscono agli italiani. «Il Signore continua a stupirci», dice Enrico: «La nostra comunità è raddoppiata in un sol colpo». Maria e Giacomo lavorano per Avsi in due diversi villaggi del Sud Sudan. Lei sorridendo dice: «Il mio non è segnato neanche su Google Maps». Giacomo, abituato alla vitalità delle comunità del Clu in Italia, si trova ora dall’altra parte del mondo. Da solo. Usa altre parole, ma anche lui chiede: come si fa a vivere?
Apre la seconda assemblea Maria, arrivata in Kenya dalla Svizzera: «Sono certa che il Signore sta rispondendo alla domanda della mia umanità. È una bellezza inaspettata. Ma la domanda resta drammatica e qualche volta mi trovo a desiderare una manifestazione della risposta diversa rispetto a quella che mi viene dalla compagnia. È mancanza di fede?». «No, è una questione di tempo», risponde Carrón: «Il Signore risponde quando vuole Lui. Noi siamo certi di essere in buone mani. La certezza è nel rapporto con Lui e questo ci permette di attendere che Lui risponda».
Don Gabriele, anche lui della San Carlo, segue gli universitari di Nairobi. «Tutto è iniziato con un’email a Carras in cui mi lamentavo di come Simon seguiva il Clu. Carras mi ha risposto che l’unico modo di ripartire era vivere un’amicizia con i ragazzi. Allora sono andato da Joakim (il responsabile di Cl in Kenya; ndr) a chiedergli che togliesse Simon dalla guida del Clu. Ma mi ha risposto: “No, andiamo a cena con lui e ne parliamo”». «Vedete?», irrompe Carrón: «Riceviamo un’email e la riduciamo ai nostri pensieri. A meno che non ci sia qualcuno che non riduce la sfida. Qualcuno di irriducibile». «Ci siamo incontrati io, Simon e Joakim e ci siamo detti le cose fuori dai denti», continua don Gabriele: «Joakim mi ha proposto di accompagnare Simon nella responsabilità del Clu. Non potevo immaginare che saremmo diventati amici davvero e poi tutto ciò che sarebbe nato». Quello di cui parla, Carrón l’aveva visto il giorno prima all’assemblea tenuta con il Clu. Cinquanta ragazzi presi dal movimento, capaci di domande e testimonianze che nulla hanno da invidiare alle storiche comunità italiane.
Sì, questo è quello che colpisce non solo degli universitari, ma di tutta la realtà del movimento africana. Un’intensità di esperienza che spiazza il pregiudizio di chi pensa che, in fondo, fuori dai luoghi storici, il movimento esista in una versione light. Le difficoltà sono tante. Ma la vibrazione per l’incontro fatto è palpabile. Le fatiche? Don Emil, del Camerun, racconta del proprio fratello minore approdato, qualche anno fa, sulle coste di Lampedusa dopo un viaggio della speranza. Mireille, che lavora a Yaoundé con i ragazzi di strada, dice che, seconda di otto figli, è l’unica tra i suoi fratelli a non essere emigrata e aggiunge: «Se non avessi incontrato Cl, anche io avrei lasciato il Camerun».

La mosca e l’elefante. «Il movimento ci educa a guardare quello che capita tra noi, cioè a vedere quello che il Mistero fa», dice Rose introducendo le tre testimonianze: «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica “guarda qui!”. Ma quando guardiamo alla nostra vita senza lo sguardo della fede, una mosca appare grande come un elefante...». Parlano suor Elena, Eveline e Roland. La prima abita nella nuova casa di Nairobi delle Missionarie di San Carlo Borromeo (la prima fuori dall’Italia). Non parla delle cose che fa (insegna arte alla Urafiki Carovana School), ma di sé e di come il proprio rapporto con Gesù si sta approfondendo attraverso l’unità con le proprie consorelle. «Questa unità è la cosa più significativa che mi sia successa nella vita», dice. Eveline fa la cassiera in un supermercato di Abidjan, in Costa d’Avorio. Racconta del suo incontro con il movimento e dell’amicizia con Mireille. «Nel rapporto con lei ho imparato a volermi bene. Non avevo mai pensato che Cristo potesse amarmi più di quanto io stessa non possa fare». Roland, invece, è nigeriano, abita a Lagos e frequenta l’università. «Stavo per lasciare gli studi», dice: «Ma dentro l’amicizia con i ragazzi del movimento ho deciso di continuare. Con loro sto vivendo qualcosa di diverso, è la cosa più bella della mia vita. Non sono più solo amici, ma fratelli». Tra questi “fratelli” ci sono anche gli amici del coro degli “alpini di Kampala”. Rose ci tiene a sottolineare: «Ha chiamato “fratelli” amici non nigeriani. Un nigeriano non lo farebbe mai, solo i compatrioti possono essere “fratelli”: è davvero un miracolo».
La sera Michele Faldi introduce il video delle prove della Moldava di Bedrich Smetana diretta da Ferenc Fricsay. Duecento occhi puntati sui gesti del direttore che, invitando gli orchestrali ad immedesimarsi con la propria esperienza, offre la via per la giusta esecuzione. Quasi nessuno ha mai visto il fiume che attraversa Praga, eppure la musica, facendosi immagine, commuove. E commuove vedere Fricsay commuoversi.
Alla fine Carrón introdurrà un altro filmato: «Tutti desideriamo che le nostre comunità diventino come questa orchestra. Il valore di ciascuno può contribuire all’orchestra. Ma per diventare un’orchestra, per diventare una vera comunità, occorre un direttore. Solo seguendo il direttore le nostre comunità potranno diventare come un’orchestra». Sullo schermo appaiono le immagini del video preparato per la presentazione di Vita di don Giussani: «Ringraziamoci vicendevolmente della carità accogliente con cui oggi abbiamo pregato, camminato e vissuto insieme». È Giussani che parla al pellegrinaggio a Lourdes del 1992, ma è come se parlasse ai cento dell’Ara di Nairobi: «E tale carità diventi l’ideale di ogni giornata».