Johnny

Kansas. Una cosa positiva

Gli Shankman erano una tranquilla famiglia del Midwest. Poi l’incidente del figlio Johnny... Ma un pensiero cambia tutto: «Lui non appartiene a noi». La madre Kim racconta la loro esperienza (da Tracce, gennaio 2014)
Luca Fiore

«Sembra folle, lo so. Ma ti prego, non pensare che io sia pazza. Ho capito che Dio stava preparandoci da anni a questo momento. Ad esempio, con tutta l’insistenza di don Carrón sulla positività del reale». Kim Shankman e suo marito Don vivono ad Atchison, nello Stato del Kansas. Sono una normale famiglia del Midwest. Lei è una donna impegnata, è decano al Benedictine College dove insegna nel Dipartimento di Scienze sociali. Lui ha le giornate libere, è in pensione, e si occupa della casa e porta a spasso Bosley, il cane. Un pomeriggio di marzo la loro vita è cambiata per sempre. Difficile dimenticarlo: la sera prima c’era stata l’elezione di papa Francesco, qualche giorno dopo Johnny, il loro unico figlio, avrebbe compiuto 18 anni.
Quel pomeriggio Johnny si trova sul retro di un pick-up. Un giro per il parco della città con un gruppo di amici. A un certo punto l’auto urta qualcosa e si capovolge. Lui è catapultato fuori. «Ci chiama la polizia dicendo che è grave», racconta Kim: «Siamo corsi in ospedale. Eravamo sconvolti». Il viaggio in auto è concitato, ma i due restano in silenzio. Nella testa di lei si fa largo un pensiero. Qualche mese prima era stata al ritiro d’Avvento della Fraternità di Cl, dove aveva sentito un amico parlare della sorella malata di cancro: «Io so che lei non appartiene a me». Ascoltandolo, Kim aveva pensato: «Non potrei mai dire una cosa del genere, sarei troppo spaventata e preoccupata». Dopo qualche istante il silenzio viene rotto e Kim dice a Don: «In fondo, Johnny non appartiene a noi».
«Da quel momento è cambiato tutto. Eravamo ancora sconvolti, ma abbiamo cominciato a renderci conto che c’era Qualcuno che amava nostro figlio più di quanto noi potevamo fare. Che era lì, con lui e con noi». Trovano la forza per telefonare all’amico che era alla guida del pick-up: «Non siamo arrabbiati. Sappiamo che non è stata colpa tua. Non preoccuparti». Nel frattempo arrivano gli amici, 20 o 30 persone. Si recita il Rosario. Si attende. «In quel momento ho pensato: “È come essere in Paradiso”». Nei giorni successivi gli amici della comunità di Atchison accompagnano gli Shankman. «Siamo stati aiutati in un modo che non saprei spiegare e che non avevamo neppure chiesto».
Oggi Johnny è ricoverato in un centro di riabilitazione. Don passa la settimana occupandosi di lui, mentre Kim è al lavoro. Lei sta con loro nel weekend. I giorni sono occupati dai vari tipi di terapia: quella fisica, che lo aiuterà, forse, a tornare a camminare. Poi c’è la terapia cosiddetta occupazionale, che lo dovrebbe portare a svolgere attività quotidiane come lavarsi i denti, radersi o vestirsi da solo. E la terapia del linguaggio: oggi Johnny non parla e questo lavoro serve a trovare modi che gli permettano di comunicare e interagire con gli altri. Al ragazzo piacciono la politica e il football americano, così nel tempo libero guarda in tv i notiziari e le partite dei suoi amati Packers.

Macchine e vita. Ci sono volute settimane per arrivare qui. Dopo l’incidente Johnny è entrato ed uscito dalla sala operatoria diverse volte. Non era cosciente. Un giorno i medici, cortesemente, fanno capire che la cosa migliore sarebbe lasciare che la natura faccia il suo corso e staccare le macchine che lo tengono in vita. «No, lui è vivo ed è dove dovrebbe essere», risponde Kim: «Noi lo amiamo, ora, così com’è. E se il resto della sua vita lo passerà a letto, noi lo ameremo così fino alla fine». Il medico, preso in contropiede, replica: «Ma voi vorreste vivere in quel modo?». Kim risponde con altrettanta semplicità: «Certo che no, nessuno può desiderarlo. Ma noi non abbiamo altra scelta ora. Questa è la vita che ha. Ciò che possiamo fare in questa situazione è amarlo e stare con lui così com’è». Tempo dopo, l’assistente sociale presente al colloquio confesserà ai due genitori: «Mi avete molto colpito. Non avevo mai sentito qualcuno spiegare in modo così lineare una decisione del genere».
Kim si guarda indietro e pensa agli ultimi mesi. Non vede tanto le difficoltà o il dolore, entrambi grandi e indicibili. Ma è stupita dal cammino fatto. «Per me personalmente, ma anche per mio marito, questa esperienza è stata un’indicazione della nostra reale povertà. Noi non possiamo fare ciò che desideriamo di più al mondo: far in modo che nostro figlio stia meglio. Dobbiamo essere mendicanti. Mendicare che la misericordia di Dio ci aiuti. Sapere che questo è tutto ciò che dobbiamo e possiamo fare è un’esperienza potente di libertà. A noi non resta che amare nostro figlio com’è adesso. Il resto non viene da noi, ma da Chi lo ama più di noi». È un modo diverso di guardare Johnny. Un modo diverso di guardare a quello che gli accade. Uno dei medici dice disilluso: «Non parla, non migliorerà». «Guardarlo per quello che non riesce a fare travolgerebbe un cuore non aperto», spiega Kim: «Ma domandarsi come posso vedere nelle circostanze la positività del reale cambia il modo di guardare Johnny. Uno inizia ad accorgersi dei suoi bisogni senza preoccuparsi troppo di quale sia la cosa più giusta da fare. Ciò che gli accade non è nelle nostre mani. Certo, ci impegniamo al massimo a fare tutto il possibile perché stia bene e che riesca a vivere tutto ciò che la sua condizione gli permette. Ma lui non è quel che riesce a fare, lui è lui, per quel che è. Per questo lo amiamo».
Kim ha iniziato a raccontare le giornate di Johnny su Facebook, pubblicando foto e video di suo figlio. Tutto è nato chiedendo agli amici di pregare per i vari interventi chirurgici. Ma la gente ha iniziato a chiedere, tramite il social network, come stava. «Sono stati gli amici a domandarmi di raccontare le giornate di Johnny. Ma una volta ho scritto sul mio profilo che non c’era nessun aggiornamento che valesse la pena raccontare. A quel punto molti mi hanno scritto privatamente dicendomi che tutto vale la pena e che volevano sapere di lui. Così ho iniziato a pubblicare tutti i giorni anche piccole cose. Oggi se non scrivo la gente domanda: “Nessun aggiornamento? Come sta Johnny?”. Questo mi è molto utile perché mi ricorda che la gente gli è vicina e prega per lui».

L’aiuto più grande. Un’amicizia che non è solo online. Ma si declina anche nelle piccole cose. «A volte ho bisogno che qualcuno porti fuori il cane, oppure ho bisogno di tenere in ordine la casa perché sia io che mio marito siamo sempre fuori. Quando tutto va bene, è semplice pensare ai tuoi amici come compagni con cui fare le cose che ti piacciono. Ma quando sei in una situazione come questa è diverso, l’ho dovuto imparare, ed è stata dura. Chiedere aiuto è difficile. Ma la disponibilità dei miei amici l’ha reso più facile».
L’educazione del movimento, la preghiera e l’amicizia. Per Kim sono queste le cose che li hanno più aiutati durante questi mesi. «È stato importante anche il rapporto tra me e mio marito. Dentro le difficoltà abbiamo continuato a parlare e a ricordarci a vicenda di rimanere positivi dentro le circostanze. Non positivi nel senso di ottimisti. Non dicendo che tutto sta andando bene. Ma positivi nel senso che Cristo è presente ora e che noi lo sappiamo e vogliamo ricordarcelo». L’ultima parola di Kim è “gratitudine”: «È difficile spiegare quanta gratitudine provi. Sono grata a Dio per la bontà che ci ha mostrato, grata di aver incontrato il movimento, perché mi rendo conto che mi ha permesso di poter attraversare tutto questo. Sono stati mesi davvero importanti nella mia vita. Potenti e positivi. Quando lo dico, qualcuno pensa sia pazza. Ma non è nient’altro che la mia esperienza».