Miami

Miami. Invito a casa

Lavora con gli anziani da vent’anni. Da sei, li visita a domicilio nel melting pot di Miami, tra sobborghi ed attici. Enrico Grugnetti, infermiere, racconta l’avventura che inizia quando bussa alla porta dei pazienti (da Tracce, dicembre 2014)
Alessandra Stoppa

Quando bussa alla porta tutto quello che sa è: nome, età, sesso. Ogni volta è un’incognita oltre le vetrate di un attico sull’Oceano, in un appartamento nei sobborghi o dietro le zanzariere delle casette di legno stile country, in mezzo al verde paludoso. È Miami. Un melting pot culturale nel clima di una giornata di primavera che dura sei mesi l’anno, ed è qui che l’infermiere Enrico Grugnetti, 46 anni, sardo, visita per mestiere gli anziani malati a domicilio.
Ha lasciato il segno all’ultima MedConference di New York, a metà ottobre, raccontando, davanti a medici, infermieri e studenti da tutta l’America e da varie parti del mondo, le prove e la bellezza del suo lavoro, la sorpresa di quando «clicchi», come dice lui, di quando stabilisci un rapporto con i pazienti, e la compagnia che loro diventano per la sua vita. «Gli anziani sono sorprendenti», ha esordito. Lavora con loro da vent’anni, prima in un dipartimento di Chirurgia cardiaca, poi in un centro d’assistenza e ora andando nelle case. Incontra il vecchietto di Haiti che parla solo creolo, i latinos, gli afro-americani che credono più ai riti magici che alla medicina o l’ex ragazzo dell’Alabama a cui gli stranieri non vanno giù. «La persona è una. Non solo il paziente, anche io», ha detto a New York: «Quando incontro una persona, incontro una persona. Ci vorrebbe davvero uno sforzo tremendo per separarla dal suo problema medico». E per separare il suo lavoro da se stesso.

Enrico Grugnetti

Bisogno di Mozart. Juan è un vero gentleman, cubano, come tanti qui, scappati subito dopo la rivoluzione o arrivati negli Stati Uniti da poco. Sta seduto in silenzio, in un angolo della sua casa a Miami Beach, mentre Enrico ascolta la badante fare l’elenco dei problemi e, dopo di lei, la moglie, stanca e schiacciata. Chiedono più servizi, non riescono a star dietro a quell’uomo di cui ormai vedono solo il Parkinson e l’anca rotta. Enrico visita Juan, fa la valutazione medica, dà l’indicazione delle cure. E intanto lo conosce, scopre che era un giornalista, critico di musica lirica. «Qual è la sua opera preferita?», gli chiede. «Le nozze di Figaro». È anche la sua passione. Si guardano e si mettono a cantare insieme Non più andrai farfallone amoroso, a memoria, dall’inizio alla fine. «In quel momento, tutto è cambiato. Tutto si è sciolto. Eravamo sempre noi quattro, in quella stanza, ma non c’era più l’ansia delle cose. C’era l’accorgersi della possibilità che qualcosa entri nella vita, la sorprenda e la abbracci. E questa cosa non la facciamo noi, arriva». La moglie smette di lamentarsi e accompagna Enrico alla porta: «Venga ancora. Torni a cantare con lui. È questo ciò di cui ha bisogno».
Incontri come questo possono fare simpatia. Invece hanno la forza di trasformare la vita di Enrico e la sua professione. I pazienti gli sbattono in faccia tutto il loro bisogno, con i corpi e gli animi fragili. Hanno malattie gravi, a volte croniche, instabili. Vengono ricoverati spesso e lui li prende in carico una volta dimessi: «Accompagno questo passaggio, cerco di capire le necessità, di aiutarli ad accettare la perdita dell’autonomia, che fa molto soffrire, e di creare le migliori condizioni per rimanere a casa, che è il posto dove vogliono stare». Ogni giorno ne visita cinque o sei, attualmente ne segue circa quaranta. Di solito sono i familiari a fare tutto: preparano da mangiare, li assistono, li lavano, si occupano delle medicine. «Guardare, ascoltare ed educare i parenti è parte essenziale del mio lavoro». Alcuni pazienti invece vivono soli, Enrico è l’unica persona che li va a trovare, e molti sono poveri: sono quasi sempre gli americani “doc”, intrisi di cultura africana, o quelli che vivono nel sobborgo nord-ovest di Hialeah, che è 100% cubana.
Tutti gli anziani hanno una storia da raccontare. E saprebbero raccontarla identica decine di volte. Friedrich era ebreo, novant’anni: la sua storia era la sua vita. Rocambolesca e drammatica. Enrico non si è mai stancato di sentirsela ripetere. Austriaco, scappato dal nazismo ancora ragazzo, aveva combattuto in guerra ed era finito in America dove dal nulla aveva tirato su un’azienda e fatto i soldi. «Un uomo intelligentissimo, che ogni giorno preparava le medicine per sé e per la moglie, diabetica». Una mattina le scambia e lo trovano a terra, per strada, in crisi ipoglicemica. «La prima volta che l’ho visitato era quasi sera. Mi ricordo che volevo rimandare quell’ultimo paziente per andare a casa, poi mi sono detto: “Dai, vado, faccio veloce”. Sono rimasto con lui per ore». Era scontroso, irascibile, per niente sentimentale, un tipo tosto che non si lasciava aiutare. Enrico è andato a casa sua una volta la settimana per tre anni. Un giorno, Friedrich gli dice: «Tu sei il mio amico». «Per me è stato un colpo. Chi sono io per essere entrato così nella vita straordinaria di quest’uomo? Lui stava esprimendo una cosa che non avevo mai pensato chiaramente: il rapporto con chiunque può essere un’amicizia vera, intima, per la vita». Friedrich è morto due anni fa e lui lo pensa spesso: «Non come una cosa successa, ma perché è il caro compagno che Dio mi ha dato nel viaggio della vita».

Dare un nome. Un giorno va da Luís. È la seconda volta che lo visita, e in casa c’è anche la figlia con la nipotina di tre anni, Mia. Enrico prova pressione, temperatura, ausculta cuore e polmoni, poi parla alla figlia della situazione. Intanto Mia si avvicina e gli dà la sua bambola. Vuole che visiti anche lei. Enrico, un metro e novanta, si piega e si mette ad auscultare con cura il cuoricino di pezza, il polso, la pancia. «La tua bambola sta benissimo!». Mia è felice. «Quando me ne stavo andando, l’ho salutata con la mano dalla porta, ma lei è corsa da me e mi ha abbracciato le ginocchia». Potrebbe essere niente più che un episodio carino, ma in lui è accaduto qualcos’altro. Gli è passata davanti tutta la sua vita. «In quel momento mi sono reso conto che tutto quello che mi era successo, tutto, mi aveva portato lì, con quelle persone, per riconoscere con loro che c’è solo il presente e che nel presente c’è una misura eterna». Per nessun calcolo statistico le avrebbe incontrate: è cresciuto a Portoscuso, nel Sulcis, in provincia di Cagliari, da piccolo guardava le cartine geografiche e si chiedeva se avrebbe mai visto Roma; da sei anni vive in Florida e fa l’infermiere “per caso”, perché un’amica gli ha detto: «Vado a provare il test. Vuoi venire?», e lui, che aveva abbandonato la scuola, l’ha seguita. «Posso dire che le persone che incontro sono parte della mia vita, perché mi rendo conto che il Destino è presente e ci mette insieme». Non sa perché è avvenuto in quel momento e non in un altro, «ma so che se sono disponibile è una possibilità che c’è sempre, sempre. È semplice».
Cresce in lui il desiderio di poter vivere così ogni giorno: «Non avere l’ansia di arrivare e mettere a posto le cose, ma lasciarmi sorprendere dalla vita che accade e ha un respiro infinito. Lo sperimento nella semplicità di un incontro umano, attraverso la fragilità mia e dell’altro. E questo è Gesù che viene». Enrico non avrebbe mai immaginato di potergli dare un nome: «Se non avessi incontrato Cristo, la vertigine di accorgermi che la persona che ho davanti c’è rimarrebbe solo un pensiero confuso. Invece è lo sguardo che ha Gesù sulle cose. Io posso vivere senza la coscienza profonda della realtà, ma questi fatti mi svelano la sua vera natura: la realtà è il Mistero che accade e ci tocca».
Il rapporto tra medico e paziente è delicato. «Se non sei sostenuto, non riesci a stare di fronte al dramma. Soprattutto qui, dove la pressione del sistema è molto forte e per tutelarsi ci si limita alle direttive di cura. Ma non basta dire: queste sono le medicine da prendere». Anche se annuiscono, i pazienti non le prendono, in particolare se anziani, ancor più se soli. Emma, una signora cubana, quando ha iniziato a fidarsi di lui, ha tirato fuori da sotto il tavolo una borsetta dove teneva nascosti i farmaci: ne prendeva 4 sui 20 prescritti. «Si spaventano degli effetti collaterali, altri non credono alla medicina o fanno confusione e può essere pericoloso. Se vai lì solo a ripetere che devono curarsi, non hai fatto nulla». Invece entrare in rapporto ha conseguenze pratiche eccezionali, gli ha permesso di accorgersi di problemi che ai medici erano sfuggiti. «È un mestiere che richiede intelligenza, conoscenza e affezione. Questi aspetti non sono divisi. Anzi, io scopro cosa posso fare e quando lo posso fare solo nel rapporto». Anche là dove per conquistare la fiducia del paziente deve prima conquistare l’affetto del suo cane. Oppure là dove gli sembra di fallire. Come con quel pover’uomo, malato terminale, a cui la famiglia dava peperoncino in polvere, secondo un’antica tradizione caraibica. Non si erano accorti che gli andava nei polmoni. «Ma non hanno voluto farsi aiutare ed io non ho trovato la pazienza, le parole e lo sguardo che servivano. Ho smesso di andare, perché per loro ero un problema più che un aiuto». L’unica cosa che ha potuto fargli è stato il bagno: quell’uomo aveva male ovunque lo toccavi e nessuno se la sentiva di lavarlo. «Dio fatto uomo è un infermiere», ha detto papa Francesco di recente: «Dio si coinvolge, si avvicina alle nostre ferite e le guarisce con le sue mani. È un lavoro di Gesù, personale. Dio non ci salva soltanto per un decreto, una legge; ci salva con tenerezza, ci salva con carezze, ci salva con la sua vita, per noi».

Sì o no. Enrico ha iniziato a scoprirlo con il suo primo paziente a domicilio: don Giussani. Lo ha curato, insieme ad altri, per tre anni, in cui ha imparato ad essere disponibile, a non obiettare alla realtà. «Per lui tutto era rapporto con il Mistero, anche le cose a cui io mi ribello e dico: questo no, questa cosa è da aggiustare, tutto bello ma non questo... Per lui ogni cosa era data e vederlo era partecipare dello sguardo che è di Cristo, che rende nuovo tutto». Non parla di una mistica, ma di conoscere le cose per come stanno veramente. Quando è lì, in casa dei suoi pazienti, e il loro bisogno lo cambia. «L’altro ha due occhi che mi guardano e mi chiedono: ci sei? Non è una cosa che calcolo. E magari non ci sono. Ma la realtà m’invita ad esserci, e posso dire sì o no. Il mio desiderio più grande è accettare l’invito».