La speranza non si può rapire

«Non devo chiedermi: perché a me? Ma: a che scopo mi accade questo?». È la domanda che ha accompagnato Germán García Velutini, banchiere di Caracas, durante gli undici mesi del suo rapimento (da Tracce, giugno 2015)
Alejandro Marius

La crisi che attraversa il Venezuela, in un modo o nell’altro, ci tocca tutti: sia a livello economico, con la grande penuria di rifornimenti e l’alto tasso di inflazione e svalutazione, sia a livello sociale, con quasi 25.000 morti violente nel solo 2014. Ciò che si diffonde sempre più, fra la popolazione, è l’assenza di speranza, che è come il fondale su cui si intrecciano campagne di propaganda politicizzate, retorica e suoni di sirene. In momenti come questo, non c’è nulla di più incisivo di un’esperienza, del poter ascoltare persone che comunicano certezze e danno ragione del senso della loro vita e della loro speranza.
La prima impressione che si ha incontrando Germán García Velutini non è di trovarsi di fronte a un uomo che ha fatto carriera in campo finanziario - e in una delle banche più solide del Venezuela -, ma di essere inondati dalla pace del suo sguardo e del suo sorriso pieno di speranza. Sembrerebbe una contraddizione, dato che è un uomo che dopo aver vissuto l’esperienza di una bella famiglia allietata da tre figli, quindici anni fa ha perso la moglie e nel 2009 è stato sequestrato per undici mesi. Certamente in Velutini, a differenza di molti venezuelani in questa crisi, non prevale il lamento, ma la gratitudine verso Dio per quello che gli è stato dato di vivere.
«Per quasi un anno sono stato isolato dalla mia famiglia e dagli amici. Non ho parlato con nessuno: silenzio totale. Non ho visto nessun volto umano. Solo in pochissime occasioni, delle persone incappucciate entravano nella cella di circa un metro per due dove mi tenevano prigioniero. Uno spazio totalmente chiuso, privo di luce naturale, con un ventilatore, un condotto di aerazione e un caldo che al pomeriggio diventava soffocante. Le condizioni, di cibo e igiene, erano davvero difficili... Ma quello che era più duro e umiliante era sentirsi come merce, in un contesto di violenza che non fa distinzione di schieramento politico o di classe sociale».
Così Velutini descrive con poche parole quegli undici mesi trascorsi nel silenzio. Solo il mutamento di colore di una lampadina segnava la differenza fra la notte e il giorno. Non poteva scambiar parola con nessuno, perché i carcerieri comunicavano solo attraverso dei foglietti. «In un sequestro, il controllo è continuo: la vittima perde completamente il controllo sulla sua vita e le sue azioni, la famiglia è alla mercé dei voleri e dei capricci dei rapitori, che possono fare tutto quello che vogliono». In mezzo a tutta l’incertezza su quanto sarebbe accaduto, alle condizioni estreme e all’angoscia per la famiglia, che non poteva avere sue notizie, Dio si è manifestato in maniera concreta.
Dopo molte richieste, i sequestratori gli concedono una Bibbia, che lo accompagnerà nel suo cammino di ascesi interiore. A partire da quel momento, la parola di Dio diventa la chiave di tutta la scoperta del senso della sua vita e della circostanza che sta attraversando. «Ancora una volta rendo grazie a Dio, che attraverso chi mi ha rapito mi ha messo a confronto con la Sua parola, facile a leggersi e a comprendersi. E sono grato anche ai sequestratori. Non avrei mai immaginato, in quel momento, la meraviglia che sarebbe stata per me passare quei mesi ascoltando Nostro Signore».
In una situazione estrema come quella, ma in fondo anche in ciò che ciascuno di noi vive quando le cose non vanno come vorremmo, sorge in maniera evidente la necessità di scoprire il senso della vita. Come disse Viktor Frankl (neurologo austriaco che fu prigioniero ad Auschwitz e Dachau, ndr.): «Niente al mondo aiuta a sopravvivere, anche nelle condizioni peggiori, come la coscienza che la vita ha un senso».
«Nostro Padre sa di cosa abbiamo bisogno! E la maggior parte delle volte si rivela non essere quello di cui noi pensiamo di aver bisogno», scrive Velutini nel libro che racconta il suo rapimento (Dios en mi secuestro): «Crediamo di aver bisogno di molte cose, ma riflettendo attentamente, in quelle occasioni di rapporto più pieno con Dio Padre e la nostra Madre amatissima, capiamo che quello che pensavamo fosse fondamentale per la nostra vita non lo è. Sarà per questo che non ci è stato concesso quello che abbiamo chiesto? Di che cosa ho davvero bisogno?».
Così, nella solitudine immensa della prigionia, nasce il frutto di una Grazia. «Mi trovo ricolmato di una certezza: la mia vita solitaria, senza scambiar parola con nessun essere umano, ha un senso. Non devo domandarmi: “Perché a me? Perché la mia famiglia sta soffrendo?”. Piuttosto la domanda è: “A che scopo mi accade questo? A che scopo la mia famiglia sta soffrendo?”. Scopro allora che lo “scopo” nella vita sta nel “servire” il nostro prossimo, e sapere che la nostra preghiera raggiunge tutti».

Germán García Velutini

Quei foglietti. Con il passare dei giorni, comincia un dialogo “epistolare” con i carcerieri: insieme alla meditazione della Bibbia, Velutini comincia a comunicare loro la propria esperienza. «Ritirano sempre i fogli. E io penso che qualcosa di buono stanno ricevendo anche loro, che il loro modo di guardare la vita potrà cambiare. Anche oggi penso lo stesso. Sono certo che ai miei carcerieri arriva qualcosa e che, vedendo l’esempio di dignità che cerco di mostrare loro con il mio atteggiamento e questi scritti, qualcosa in loro è cambiato o sta cambiando». È talmente vero che, dopo qualche mese, cominciano a trattarlo male, togliendogli alcuni privilegi e la possibilità di leggere: forse perché percepiscono che si è messo in moto in loro un processo di sensibilizzazione, anche attraverso quei messaggi, o forse per sottoporlo ad una maggiore pressione e poter dare segnali più forti alla famiglia, per negoziare.
Velutini è stato educato al cristianesimo sin da piccolo, ma confessa che questo ancora oggi non gli basta a spiegare fino in fondo la sua esperienza. «La speranza e la fede mi sono servite, ma non so come le avevo. Mi sono state date. Mi sono state donate». Ed è sicuro che, anche se la fede, la speranza e l’amore sono un dono di Dio, dobbiamo viverle in prima persona, coltivarle e attribuir loro un senso. «In dicembre tornano a darmi la Bibbia, e in più mi consegnano un’immagine di san Michele Arcangelo. Questo fatto, dopo tre mesi di regime duro, mi convince che i sequestratori sono figli di Dio e che non sta a me giudicarli».
Al momento della liberazione, sono i sequestratori ad allungargli un messaggio, nel quale è scritto: «Nessuna vendetta o persecuzione». Allora lui chiede loro la Bibbia e fa leggere il testo di Matteo 5,45: «Ma io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano». Dopo averlo letto, uno dei sequestratori gli pone una mano sulla spalla e lo abbraccia. Oggi Velutini dice di averli perdonati, di non serbare loro rancore né di essersi messo sulle loro tracce, anche se, nello stesso tempo, in maniera molto umana, dice che non sa cosa vivrebbe se un giorno se li trovasse di fronte. Riconosce che queste persone non sono un rifiuto umano, hanno un cuore e dei sentimenti, pur dentro a tutto il male fatto a lui e alla sua famiglia.
Questo è l’atteggiamento di un uomo che vuole proseguire il cammino, di una persona che non è definita dall’odio e dal rancore, ma dall’amore. È a partire dal perdono che si arriva ad una vera giustizia, a non alimentare la violenza e un “occhio per occhio” che ci lascia ciechi. E il pensiero va soprattutto ai prigionieri politici e agli studenti che in questo Paese vengono privati della libertà. Come ne usciranno? Quali adulti incontreranno per poter ricominciare la loro vita? È una sfida che riguarda tutti noi, come società: cercare una giustizia che nasce dal perdono e dalla misericordia, come disse Giovanni Paolo II dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono».
Poco tempo dopo la sua liberazione, un amico gli propone di dar vita a una fondazione per aiutare i familiari e le vittime di sequestri. Velutini ci pensa bene, poi sceglie di no, per diversi motivi. Innanzitutto, perché crede che la vera possibilità di evitare casi come il suo stia nell’educare i bambini e i giovani del Paese, e questo lo fa già Fe y Alegría (una ong presente in America Centrale e Sudamerica fondata e guidata dai Gesuiti, ndr.) e quindi non c’è motivo di creare qualcosa di nuovo, se ci si può appoggiare su qualcosa che già esiste. Poi, aggiunge: «A che serve avere il mio quarto d’ora di gloria e trasformarmi in un personaggio alla ribalta, quando ciò che occorre qui è che ognuno assuma il suo lavoro e la sua responsabilità con serietà?».

Il destino che non si sceglie. Così, solo due settimane dopo la sua liberazione, è tornato al lavoro nel suo ufficio e continua a vivere in Venezuela facendo il suo dovere e testimoniando quello che ha vissuto. «Davanti a questa valanga che ci investe, alla quale pensiamo di non essere in grado di resistere, né tanto meno di vincerla, noi venezuelani siamo accomunati dalla falsa consolazione che ci sarà qualcuno che ci aiuterà a superare questo problema: un familiare, un amico, uno sconosciuto qualunque, un Paese straniero o un’organizzazione nazionale, o in molti casi il leader politico di turno». Quello che dobbiamo ancora capire, invece, è che assumendo ciascuno la propria responsabilità e lavorando insieme si possono risolvere i problemi e far progredire la famiglia, la comunità, la città, il Paese. «In un mondo, in un Paese come il Venezuela, e specialmente in una città come Caracas che soffre una grande violenza, non disprezziamo nessuno. Sappiamo che Nostro Signore ci protegge dal “male”, ci garantisce che è sempre nei nostri cuori. Accettiamo “il destino che non si sceglie”, non abbiamo paura nelle strade e nelle preoccupazioni della vita. Dedichiamo la nostra vita ad amare e servire».
Abbiamo incontrato un uomo di fede, che ci invita a far sì che l’amore sia il criterio per vivere ogni rapporto. In un Paese in cui molti camminano a testa bassa, la sua esperienza è una dimostrazione che la speranza di una persona, e quindi di tutto un Paese, non si può rapire.