Marcos Pou

Marcos Pou. Sì, a tutto

Marcos Pou aveva 23 anni ed era appena entrato nel seminario di Barcellona. A un anno dalla morte è stata pubblicata la sua storia, che lui stesso aveva scritto. Una vita «normale». Ma che sta cambiando quella di tanti (da Tracce, luglio-agosto 2016)
Alessandra Stoppa

Quando ha fatto le valigie per il seminario, tutta la famiglia era felice e insieme piena di nostalgia. Anche lui lo era. Allora suo padre e sua madre gli hanno scritto questo messaggio: «Adelante Marcos, siempre!». Avanti, perché lo strappo era grande, ma la promessa infinita. Così è stato ed è. La vita di quel figlio è diventata più grande, grandissima, e il dono che lui era per loro si è offerto a tutti.
Marcos Pou è il maggiore di cinque figli di Itziar e Paco, lei insegnante, lui giornalista, di Barcellona. È entrato in seminario a 23 anni, nel giorno della Vergine di Lourdes, l’11 febbraio dell’anno scorso, ed è morto in un incidente sul suo scooter dieci giorni dopo, un sabato sera. «Dio ci ha teso una trappola», ha detto suo zio, don Yago, al funerale: «Non con la morte di Marcos, ma con la sua vita». Per iniziare a capire questa frase bisogna ascoltare e guardare i suoi genitori e fratelli, i suoi amici, leggere le testimonianze di tanti e il racconto della sua vita che lui stesso ha scritto un anno e mezzo prima di morire, e che ora è stato pubblicato online (www.marcospou.com).
Un ragazzo luminoso, un cuore semplice e virile. La sua storia sarebbe stata «noiosa e banale», dice lui, ma le cose non sono andate così. La notte del 21 febbraio ha costretto tutti a guardare cos’era già successo: qualcosa era esploso dentro quella storia normalissima, che ha avuto la potenza di cambiare la vita di tanti. Tutti quelli che, come racconta suo fratello Nicolás, «sono stati accarezzati da Dio attraverso di lui».
Ma Marcos «era ordinario». È la prima cosa che dice il papà: «Un figlio normale, che negli ultimi anni aveva tantissimi amici». Quando ha detto che sarebbe entrato in seminario «ha semplicemente svelato l’incognita», racconta suo zio. Ha svelato il segreto per cui viveva come viveva. Per cui si interessava a tutto e voleva donarsi, per cui studiava ogni giorno, «era molto obbediente», racconta la mamma, e se non lo faceva, «se non usava bene il tempo, aveva dolore», dice il suo amico Lluís. Lavava i piatti in casa o passava alcuni giorni in un lebbrosario in India: il valore per lui era identico. «Era attento alla sua esperienza, a tutto quello che accadeva fuori e dentro di lui», e lo annotava, su un diario che scriveva ogni giorno.
I Pou sono una famiglia cattolica. Paco e Itziar hanno sempre dato tutto l’affetto possibile ai loro figli e sapevano di aver insegnato loro cosa è bene e cosa è male. Finché a sedici, diciassette anni, non hanno visto nel primogenito qualcosa che invece non gli avevano trasmesso: «Una gioia strana. Io da madre ero certa che non l’avesse ricevuta da me», racconta Itziar: «Era la gioia piena della fede». Loro si sentivano dei cristiani in ricerca. «Non riuscivamo mai ad essere all’altezza del Dio che conoscevamo». Con umiltà hanno iniziato a seguire Marcos, che stava cambiando grazie alle amicizie nate al liceo Abat Oliba-Loreto, con il direttore e altri insegnanti. Così hanno incontrato CL. «Abbiamo iniziato anche noi un cammino». Nei suoi scritti Marcos fissa come uno dei doni più grandi di Dio proprio il poter fare questa strada insieme a loro, l’aver sentito sua madre dire commossa: «Non sapevo che Dio è amore».
È lui il primo a dirlo: «L’unica cosa interessante di tutta la mia vita è ciò che Cristo ha fatto con me». Nelle pagine che ha scritto seguendo il suggerimento di un amico, racconta ogni scoperta piccola o grande che ha fatto crescendo. Quella che lo stupisce di più, in fondo, è quella che le assomma tutte: «L’infinita tenerezza di Dio per me» e «la Sua immensa capacità di essere discreto». Lo dice nell’ultima testimonianza che ha fatto a un gruppo di giovani: «Dio è capace di metterti una cosa nel cuore e di permettere che tu viva come se non l’avesse messa. Dio non forza mai. Fa solo una proposta. Poi ci sono le conseguenze dell’assecondarla o no. Ma questo è un altro tema...».

Porta chiusa. A 12 anni, «senza sapere bene perché», esprime il desiderio di diventare sacerdote, ma nel tempo, racconta, «ho perso questa convinzione e questa inquietudine». Inizia a non avere più interesse per la Messa e Dio, un disincanto che poco a poco prende tutto, niente lo entusiasma davvero: «La vita si è ridotta al calcio e alle ragazze», con cui vive sempre un ultimo disagio. Un pomeriggio, che è un po’ irrequieto, va a trovare una ragazza con cui ha avuto una storia: esce da casa di lei, si gira per salutarla e la porta è già chiusa. «Lì ho avuto un’intuizione: no, io non sono fatto per trattare così e per essere trattato così». Prova spesso un vuoto che non conosce. Eppure non smette mai di credere che ci sia qualcosa di più grande: «Cercavo di entrare in rapporto con questo punto misterioso in modo sentimentale». Legge, ascolta la musica che gli dà nostalgia, si ferma davanti al silenzio del mare o ad un tramonto. Sul surf in mezzo all’acqua, guarda l’orizzonte.
Quando inizia il liceo si accorge di essere «un vecchio di 16 anni». E lì incontra quegli insegnanti che parlano dell’uomo come mai aveva sentito, parlano della felicità e «questa parola mi affascinava». La passione per il cinema condivisa con il prof di Catalano, la scoperta di Leopardi, l’amicizia con alcuni compagni con cui inizia a fare Scuola di comunità. Nella bellezza di certe amicizie, si risveglia anche il pungolo della vocazione ma, dopo averla affidata alla Vergine nel pellegrinaggio a Czestochowa, quella domanda di nuovo si addormenta. E lui torna a vivere annebbiato. Finché non va ad una vacanza del movimento a Picos de Europa. È lì che una sera, parlando semplicemente con quattro amici, gli accade una cosa eccezionale: «Mi ha invaso un silenzio enorme. Non so cos’è accaduto. Ma corrisponde totalmente a quello che io sono e che desidero. Dio, questo punto misterioso, che mai era entrato nella mia vita, è entrato».
Si iscrive alla facoltà di Fisica («mi è sempre piaciuta, perché rende evidente che c’è un’intelligenza creatrice») e il primo anno di università è segnato da un punto di dubbio: «Una distanza abissale tra quel che vivevo e la possibilità di verificare davvero la fede». Ma più forti di questo sono alcuni dialoghi e volti, in cui rivede un tratto inconfondibile: «Questo sguardo lo conosco. È lo stesso che ho visto a Picos e che mi riempie il cuore. Uno sguardo di infinita tenerezza». Questo fatto in carne e ossa si ripete più volte: «Ho toccato Cristo. È un’esperienza tanto misteriosa quanto semplice». Riconosce che è «esattamente quella dei discepoli», che tanto chiedeva a Dio di sperimentare.
Il punto più infuocato di Mistero è il legame con la ragazza di Madrid di cui si innamora, «il cuore più bello che io abbia mai incontrato». Fin dall’inizio il rapporto tra loro è immerso in un desiderio di eternità, più reale di quanto possano afferrare. Il cuore di Marcos non ha più smesso di convertirsi in questo rapporto. Soprattutto quando, per l’inquietudine pungente - «c’è come un allarme tra noi» -, con grande sacrificio e in una lotta umanissima decide di lasciarla, perché il Signore gli sta chiedendo altro. Arrendersi è un cammino. È conquistato da un fascino sempre più imponente per Gesù e per la vocazione a cui lo chiama. Segue chi vede innamorato, prova pienezza nel servire, specialmente i poveri verso cui ha una predilezione, guarda la vita di suo zio prete o di suor Maria Ruah, nel lebbrosario di Asansol, vicino a Calcutta. È a lei che un giorno chiede come si possa parlare di Gesù con tanta familiarità: «Lo sai già Marcos, preghiera e dialogo in tutto ciò che fai». Questo diventa il suo desiderio e la sua ricerca.
Nel tempo, il rapporto con l’ex fidanzata «al posto di perdersi, cresce», anche nel silenzio e nel distacco: «È un’affezione piena di vertigine». Quando entrerà in seminario, lei gli scriverà: «Quel che Dio ha messo nel tuo cuore è stato per me. Perché la ferita che mi accompagna mi fa cercare l’unica Presenza che può colmare d’affetto la mia vita. Agli occhi del mondo le nostre strade prendono cammini diversi, ma agli occhi di Dio io sarò tua per sempre e tu sarai mio per sempre. Nella storia con te ho conosciuto ciò che ho di più caro: Cristo».
Quella di Marcos è una storia di verginità, di un amore che cammina per diventare vero. Verso gli altri e anche verso di sé: «Da bambino pensavo che essere amato fosse essere riconosciuto. Ma solo affermare Cristo è affermare me stesso». Lui che da ragazzino faceva fatica a pregare («devo convincermi che esiste un Dio che mi ascolta?»), lui che lotta per non dire «Cristo» con leggerezza, piano piano conosce sempre di più il Suo volto singolare e se ne innamora: è «il suo amico del cuore», come ha scritto don Julián Carrón dopo la sua morte.

Due appuntamenti. Questa passione era esplosa nell’amicizia con don José Miguel García, che un anno e mezzo fa ha visto quel “figlio” diventargli improvvisamente padre. «Ho cominciato ad accompagnare Marcos, come tante cose grandi nella vita, per caso». Se pur in un’intensa vita sacerdotale, «avevo molto forte la domanda: “Signore, cosa vuoi ora da me?”», racconta García. E accompagnare Marcos è stata la risposta. «Una grazia immensa: vedere l’intervento così potente del Signore nella sua vita e lui così semplice e disponibile». Negli ultimi anni guarda sbocciare la sua paternità verso tanti, soprattutto nella responsabilità che gli è affidata degli universitari di CL di Barcellona: «Non era solo una sua umanità, era il cuore misericordioso del Signore che batteva nel suo».
Marcos accompagna García nel servizio pastorale e lo osserva spesso pregare, domandando di «dipendere come dipende lui». Nella quotidianità si lascia educare da due cose in particolare, ogni settimana: la caritativa dalle suore di Madre Teresa e l’adorazione del Santissimo al Santuario sulla collina del Tibidabo. García lo immaginava grande prete in una città «bisognosa di Gesù» come Barcellona. «Quando è morto, ho lottato nelle lacrime per mesi anche con questa domanda. Ma vedo che Dio sta agendo di più con la sua vita ora. In me, in tanti. Persone lontane dalla Chiesa si sono avvicinate a Dio e non pochi giovani hanno iniziato un cammino di consacrazione». La vita di Marcos «è un frutto chiarissimo del carisma di Giussani e insegna a tutti che il Signore compie cose grandi in chi si apre alla Sua chiamata. Lo può fare in me, in te, in chiunque. Marcos era normalissimo, e con tutti i suoi limiti e mancanze. Ma ha detto sì».

Doccia gelata. Anche i suoi genitori continuano a lasciarsi educare: «Marcos mi insegna un modo nuovo di trattare tutto», racconta la mamma: «Noi diciamo di amare, ma in realtà cerchiamo di afferrare l’altro per saperci amati. Con Marcos non posso esigere né afferrare, e imparo a voler bene senza pretesa». Il dolore a volte è un abisso, niente risolve il cuore, ma la notte in cui è morto lei ha iniziato un dialogo con Dio, dicendo «sì, Signore, sì a tutto» e chiedendo aiuto. Dice certa: «Marcos vive. È un’esperienza che facciamo». Nell’intimità del cuore e in tanti fatti, perché la morte non può generare vita. «Avere un figlio in Cielo è una vocazione», spiega il papà: «Un regalo doloroso, ma un regalo. Non è possibile non vedere quello che sta fiorendo intorno a noi».
Un seminarista li invita alla sua ordinazione, loro stupiti gli chiedono perché: «Al funerale vi guardavo: com’è possibile vivere la morte così? Che fede avete? La desidero per me». Un altro compagno di seminario, che prima di conoscere Marcos studiava da solo, non vuole perdere l’intensità vista con lui, così condivide timoroso questo desiderio con altri seminaristi e nasce tra loro il Gruppo San Marcos, per accompagnarsi nel quotidiano. Un ragazzo che fa l’università di Nicolás, e che ha sempre schernito la Chiesa, legge le testimonianze su suo fratello e lo cerca: «Mi avete avvicinato a Dio. Sono passato davanti a una chiesa e sono entrato», gli dice piangendo: «Io non mi ero mai inginocchiato. Mai. All’improvviso mi sento incompleto di qualcosa che non so cos’è. Ma so che è la cosa più grande che mi è mai capitata».
«La gente dice che la morte è negativa, ma io non posso vederla così», spiega a 10 anni uno dei due fratellini gemelli di Marcos, Matteo e Juan, che lui adorava e chiamava “Minions!”. «Quando mi chiedevano se credo in Dio, dicevo sì, senza pensarci», racconta il piccolo Juan: «Ora, invece, ci credo». Natàlia, la terzogenita, ha guardato come il fratello Nicolás viveva il dolore, fino a chiedergli perché: «È la fede», gli ha detto lui. «Per questa risposta ho iniziato il cammino nel movimento», racconta lei oggi: «Io ho sempre cercato un amore per sempre, infinito. Ma fuori dalla Chiesa. Con Nicolás e la morte di Marcos ho scoperto che c’è un luogo che mi promette che quello che cerco esiste». I loro genitori hanno visto morire anche un altro figlio, Gonzalo, a soli due giorni dalla nascita: «Il rapporto misterioso con lui e Marcos ci insegna che i figli non sono nostri: non perché potrebbero morire domani, ma perché potevano non essere nati. Tutto è dono».
Anche il cuore sacerdotale che aveva Marcos. Ben prima di diventare prete. L’impatto in seminario era stata una doccia gelata in una stanza gelata. «Cristo mi diceva: “Ma non desideravi darmi la vita? E questo non fa parte della forma che ti è data per darmela?”. E l’ho vissuto con gusto!». Lo aveva scritto a padre Mauro Lepori, abate generale dei Cistercensi, che da allora si lascia accompagnare dal sì di questo ragazzo: «Mi fa avere con ogni circostanza un rapporto che ne trasforma il senso. Mi converte». Perché Marcos acconsentiva sempre, ogni occasione era buona per amare di più Cristo, per uno scatto di libertà verso la meta, che tanto desiderava: «Voglio vedere il volto del Signore».