NIGERIA. Il bello di Lagos

Il manager che si ritrova «sempre lieto». La vita alla St. Kizito Clinic. E Godfrey, che dice: «Se non faccio Scuola di comunità, muoio». Nella megalopoli nigeriana, dove un gruppetto di giovani cristiani annoiati ha riscoperto la fede
Luca Fiore

«Che cosa hai visto di bello a Lagos?». È una domanda trabocchetto. Si capisce dal sorriso di sfida. Là fuori c’è un corpo informe che porta nella pancia 18 milioni di abitanti. L’oceano è come se non ci fosse. I quartieri dell’alta borghesia, quella del business del petrolio, sembrano periferie in rovina, anche se nei garage riposano Porsche e Bentley. Per non parlare degli slum, da cui, passando sulla superstrada, si vede, in controluce, salire un fumo sinistro. Le spiagge di Ikorodu sono coperte da un tappeto di sacchetti e bottiglie di plastica. Boko Haram, che nel Nord a maggioranza musulmana uccide cristiani (e islamici), ha iniziato a farsi sentire anche da queste parti. La città si è riempita di profughi. E la polizia ha già sventato qualche attentato. Come rispondere con sincerità senza risultare scortesi? Basta dire la verità: «Le persone».
Gli studenti del Clu alla Unilag, l’Università di Lagos, sono seduti nella baracca che è la sede della comunità. Abraham, 21 anni, racconta che ha incontrato il movimento attraverso Tete, uno di cui a un certo punto ha pensato: «Voglio essere felice come lui». Anthony, la comunità, l’ha conosciuta perché cantava nel coro della parrocchia, Collins perché era bravo a ballare. Tutti giovani cristiani annoiati che, a un certo punto, come Florence, hanno incontrato un altro modo di vivere la fede. Con loro c’è anche Leda, che non viene da una famiglia cristiana e dice: «Avevo sempre pensato che la Chiesa fosse un posto dove ti chiedono solo soldi. Poi, un giorno, li ho sentiti parlare e mi sono detta: “Questi parlano di me”». Dolapo arriva in ritardo e si siede in silenzio. Ha il fisico statuario di un centometrista. Dallo sguardo si capisce che è successo qualcosa. Si scopre che è stato bocciato per l’ennesima volta a un esame importante. Dopo qualche canto, qualcuno riuscirà a farlo sorridere con una battuta.

Abraham, 21 anni, racconta che ha incontrato il movimento attraverso Tete, uno di cui a un certo punto ha pensato: «Voglio essere felice come lui».

Sembrano un nulla questi ragazzi rispetto alla vastità della Nigeria. Centosettanta milioni di abitanti. Laboratorio del terrorismo islamico internazionale nel cuore dell’Africa. Con un presidente, Muhammadu Buhari, eletto lo scorso maggio anche con i voti di quei cristiani che volevano fosse rispettata l’alternanza con i musulmani. Nel Sud, ricco di petrolio, dove le stragi di Boko Haram sono poco raccontate dalla stampa locale, si aggiungono le tensioni più o meno sotterranee tra le diverse etnie. Eredità della guerra del Biafra.
In autunno i ragazzi del Clu hanno organizzato una proiezione de La strada bella, il video sui 60 anni di CL. È il primo evento pubblico della comunità degli universitari dopo diversi anni. Sono stati invitati amici e professori. Ne sono arrivati trenta. Abraham non aveva capito che sarebbe stato lui a dover introdurre. Ha improvvisato, ma se l’è cavata: «Io in questa compagnia sono felice. Vorrei lo foste anche voi».
Con loro c’è spesso Barbara. Memor Domini, riminese, direttrice della ong Loving Gaze, è a Lagos dal 2005. Da alcuni anni è la responsabile della comunità nigeriana. I ragazzi la chiamano affettuosamente Babi. Vive con Alda, anche lei di Rimini, Alba di Reggio Emilia, Fiorenza di Milano e Lucia di Verona. La loro casa è l’epicentro della vita della comunità. Lo è anche per Guido, general manager di una multinazionale che costruisce infrastrutture petrolifere. Sotto di lui ha 4mila dipendenti. Tante ore di lavoro, tante gatte da pelare, un suv blindato con scorta armata per girare in città. La famiglia è rimasta ad Ancona, e lui, appena può, si invita a cena dalle Memores. «Quando lo cerco al telefono è sempre presissimo, ma è sempre lieto», racconta Barbara: «Una volta gliel’ho detto: “Guido, come fai a essere così?”. E lui: «Ma io sono felice perché ti sento”». All’ultima assemblea lo ha anche detto a tutti: «Nel mio lavoro posso fare errori che hanno conseguenze molto gravi. Ma quando succede non sono ferito nell’orgoglio, soffro per le migliaia di famiglie coinvolte. Per reggere si devono vivere le circostanze davanti a Cristo, in rapporto con Lui. Altrimenti si è schiacciati».
Anche Charles, ingegnere, ha la responsabilità di molti operai. Alla fine della Scuola di comunità, a volte, mostra sullo smartphone dei video in cui i suoi dipendenti ridono, scherzano o cantano. «Qualcuno in ufficio dice che sono stupido a trattarli bene. Sono convinti che, se faccio così, loro se ne approfitteranno. Ma come faccio a trattarli da bestie? Io sono voluto e amato. Lo so, potrebbero non capire e fregarmi. Ma voglio rischiare sulla loro libertà».



L’altro perno, attorno a cui ruota la comunità, è la St. Kizito Clinic, a Jakande, uno slum da un milione di persone. È lì che nel 1989 è iniziato tutto, quando Chiara Mezzalira ha cominciato a curare donne e bambini della baraccopoli. Con lei nacque la casa delle Memores e fu l’inizio del lavoro prima di Avsi e poi di Loving Gaze. È allora che l’ingegnere Stephen Okagbue ha conosciuto CL. Anziano capo tribù, racconta, con lo sguardo che si illumina, i suoi incontri a La Thuile con don Giussani.
Oggi la clinica è gestita dalla Loving Gaze, che si occupa anche di un altro piccolo centro sanitario nel quartiere musulmano di Idi Araba e collabora con due scuole: la St. Peter and Paul a Lekki e la St. John per i figli dei pescatori di Ikurundu. Alda è il direttore sanitario della clinica. Di recente è stata invitata a una conferenza a Idi Araba, dove era l’unica straniera e l’unica non musulmana. Nel quartiere non si vede molta gente come lei, così alla fine dell’incontro qualche mamma si è avvicinata per chiedere una foto. Sono passati pochi giorni dalle stragi di Parigi. E Alda lo sa bene: «In quel momento ho desiderato potessero accorgersi del valore della loro vita. Ho desiderato che, attraverso la fessura del burqa, potessero vedere qualcosa. Ho sentito il bisogno di guardarle davvero per quello che sono, per poter comunicare che loro sono un bene».
Roland è un ragazzone alto, con la barba e lo sguardo intenso. Ha conosciuto il movimento ai tempi dell’università. Oggi è un piccolo imprenditore e si occupa di real estate. Sa cantare. Alle vacanze con gli ugandesi fa parte del coro alpino. Di recente ha imparato, lui che non parla una parola d’italiano, La mente torna, la canzone di Mina. L’ha cantata all’inizio di un’assemblea di Scuola di comunità. «Questo canto dice che quando arriva la persona che ami tu ritrovi te stesso. È davvero l’esperienza che faccio io con Cristo. Quando riconosco Lui, io torno».
Al Nord, dopo il ritorno in Italia di suor Caterina Dolci, per ragioni di sicurezza, della comunità di CL è rimasto solo padre Peter Kamai, rettore del seminario di Jos. È quasi impossibile vedersi. Per ragioni di sicurezza e per la difficoltà dei trasporti. Lo stesso vale per Port Harcourt, centro industriale del Sud-Ovest, dove ci sono Tete, Rose e Emeka.
A settembre è arrivata a Lagos Rose Busingye, la visitor. All’incontro c’erano una quarantina di persone tra adulti e universitari. Da allora, racconta Barbara, sembra che per molti il lavoro di Scuola di comunità sia rifiorito. Fino a prima dell’estate esistevano pochi gruppi che facevano fatica a trovarsi. Il traffico, le distanze, i pochi soldi in tasca. L’ultimo anno e mezzo è stato davvero difficile. Prima l’allarme Ebola. Poi la paura per quello che sarebbe potuto capitare dopo le elezioni presidenziali, con una guerra civile dietro l’angolo. E infine l’esplosione di una delle grandi contraddizioni del maggior produttore di petrolio africano: la fuel scarsity. Capita che in città, per settimane, non ci sia benzina. Centinaia di metri di coda fuori dai distributori per un pieno che non sempre è possibile fare.
Oggi, per alcuni, trovarsi a lavorare sui libri di don Giussani è diventata un’urgenza. E così sono nati gruppi più piccoli nelle varie parti della città, in modo che sia più facile riunirsi. Uno a Lekki, uno a Ikoyi, uno alla St. Kizito, uno con Guido che si trova con un paio di persone dopo le 20.30 (la sera sarebbe pericoloso uscire di casa, ma si trova il modo di non rischiare), e altri ancora. Godfrey racconta le difficoltà sul lavoro e con la sua ragazza. «All’inizio uno pensa di essere capace, poi tutto frana. Solo dentro il rapporto con Cristo uno riesce a stare dentro le cose che capitano. Solo guardare a Lui mi libera». Tanto che una volta ha detto a Steve: «Se non faccio Scuola di comunità, muoio». E l’altro: «Anche io».



Bitrus è nato a Jalingo, nel Nord a maggioranza musulmana. Il movimento l’ha conosciuto anni fa grazie a suor Caterina. Scappato da Boko Haram, è approdato a Lagos dove lavora come custode nella St. John School di Ikorodu. «CL ha davvero cambiato il mio modo di vivere. Ho imparato a vedere che Cristo è presente, anche adesso. Lui è qui, anche quando le cose vanno male. È lui il centro. Quando invece penso di essere io il centro, le cose si complicano».
Lo slum di Jakande è nato venticinque anni fa, quando qui si sono stabilite le centinaia di migliaia di persone sfrattate dal quartiere Marocco, che il Governo aveva sgomberato per una riqualificazione edilizia. Oggi un bianco che passi tra le baracche scattando fotografie è visto con sospetto: potrebbe essere un agente del Governo che raccoglie informazioni per una nuova speculazione. È in questo contesto di degrado che lavorano i medici e gli operatori della St. Kizito. L’idea che ispira la clinica, che fornisce un servizio di medicina di base, è l’educazione alla salute. Ma l’educazione è anche quella da offrire agli operatori stessi. Non si parla solo di buone pratiche (di cui la clinica è un ottimo esempio), ma della scoperta di un modo nuovo di guardare e di guardarsi.



Qui vale la pena raccontare due storie: quella di Joy e quella di Elvis. Joy arriva alla St. Kizito come impiegata alle pulizie. È giovanissima e scappa da un villaggio dell’entroterra, dove la famiglia le aveva combinato un matrimonio con un vecchio signore. Attraverso i colleghi conosce la comunità di CL e inizia a frequentarla. «Il movimento è diventato la mia vita. Mi ha fatto diventare quella che sono. Mi ha insegnato a vedere le cose in modo più profondo». Oggi ha trentacinque anni ed è una madre single con una bambina piccola: «Senza questi amici sarebbe stata ancora più dura. Da una donna africana ci si aspetta che si sposi presto, non che abbia figli fuori dal matrimonio. Ma tra gli amici del movimento non c’è stato nessuno che mi abbia giudicata. Mi sono sentita voluta bene. Oggi posso voler bene a mia figlia grazie a quell’amore che ho ricevuto io. Sono una madre felice. Sono felice».

«Lavorando per la Loving Gaze ho scoperto che per fare quello che faccio devo considerare il valore delle persone che incontro. Ma per farlo ho dovuto capire che un valore ce l’avevo anche io»

Elvis, invece, fino a pochi mesi fa faceva le pulizie in un cantiere edile. Viene segnalato alla Loving Gaze per un lavoro di assistente sociale alla St. Kizito. Lui abita a Jakande, nello slum. Sua moglie ha una piccola merceria in una capanna di legno costruita ai bordi di un fosso maleodorante. È protestante, frequenta la Chiesa Apostolica. Gira per le baracche del suo quartiere per andare a trovare i bambini incontrati ai corsi di nutrizione. «Lavorando per la Loving Gaze ho scoperto che per fare quello che faccio devo considerare il valore delle persone che incontro. Ma per farlo ho dovuto capire che un valore ce l’avevo anche io. Sono nato in una famiglia difficile. Mi picchiavano. Quello che facevo non andava mai bene. Sono cresciuto pensando di non valere nulla. Mi detestavo. Qui, invece, mi hanno fatto scoprire chi sono e che cosa sono chiamato a fare nella vita: io ho un valore! Questo ha davvero trasformato la mia vita».