La Scuola di comunità di Lagos in Nigeria

Solo per vivere

Tra i tavoli di un bar nel Parmense. O su internet, durante un pomeriggio di studio in Borgogna. Oppure, ancora, in un parcheggio del quartiere musulmano di Lagos, Nigeria. Piccolo viaggio nelle Scuole di comunità (da Tracce, novembre 2016)
A. Leonardi, P. Perego, P. Ronconi e A. Stoppa

ITALIA
La compagnia del Rasty Bar

Non era nei loro progetti. «Anzi, non l’avremmo mai fatto». Ma Angela e Matteo si sono sposati. Convivevano da dieci anni, con un figlio. Poi hanno conosciuto Francesco e la moglie Federica, una coppia che abita poco distante da loro. «Fin da subito abbiamo notato il modo in cui vivevano. Erano davvero felici. Di educare i figli, di essere una famiglia, di affrontare la fatica di tutti i giorni: qualcosa di grande li rendeva diversi», racconta Angela: «Ci stavamo innamorando della loro vita. E noi, non ci bastavamo più».
La storia della compagnia del Rasty Bar, piccolo locale alla periferia di Fidenza, nasce in fondo da loro due. Angela e Matteo sono clienti abituali. E Francesco inizia a passare di lì, ogni sera dopo il lavoro, a bere qualcosa con Matteo. L’aperitivo del venerdì con le mogli diventa un appuntamento fisso, in mezzo a uomini più o meno anziani che si trascinano in eterne partite a carte, bevendo, facendo chiasso, senza lesinare bestemmie, mentre i più giovani non si staccano dalle slot. E loro quattro a raccontarsi come è andata la settimana, la vita, il lavoro, le scoperte, le cose che non tornano. «Così ci siamo ritrovati, senza pensarci, a fare Scuola di comunità».
Oggi, due anni dopo, sono una trentina, ogni venerdì sera alle sette. «Si aggiungono nuovi e vecchi amici che ci tengono desti», racconta Francesco, «e questo mi ricorda sempre che sono voluto e non ho fatto niente per meritarmelo». Hanno storie, età e caratteri diversi. «Molto diversi», precisano, perché è una diversità che amano, che illumina qualcos’altro tra di loro.
C’è chi ha vent’anni, come Leonardo, e chi più del doppio, come Fabio. Trentino, emiliano d’adozione, per anni ha accantonato il movimento: «Mi chiedeva di essere vero. Ed io non accettavo di cambiare», dice senza soppesare troppo o cercare alibi. «Fino a cinquant’anni ho continuato a lavorare, ad avere una moglie ed un figlio, ma evitando di amare. E senza esternare il mio bisogno di amore». Eppure, nel tempo, respirando l’entusiasmo della moglie che si era coinvolta con i ragazzi di GS, ha sentito il bisogno di uscire dalla sua vita, in cui c’era solo lui. «Anche il lavoro in azienda era fatto di problemi, non di persone». Inizia così a buttarsi nei rapporti, nelle cose, «ma la mia logica cercava sempre di prevalere, di andare sopra il cuore. E così non entravo mai veramente in rapporto con l’altro. Più mi sforzavo e meno i legami crescevano». C’era una domanda che non afferrava con la testa: «Qual è la differenza tra quello che faccio io e quello che accade?».
È arrivata la compagnia del Rasty Bar a rispondere. «Vedo succedere qualcosa che non determino io». Un’amicizia e intensità incalcolabili. «Allora devi chiederti perché. Cosa accade qui? Non dipende dai miei discorsi e sforzi. Ma è la presenza di Cristo, esclusivamente quella, che ci attrae». E più ciascuno si impegna con la propria vita, più c’è unità. «La Scuola di comunità è profondamente personale. Si fa sempre, non solo in quell’ora», dice: «Anzi, soprattutto fuori da lì».

La telefonata. Mentre loro si incontrano, i figli giocano nel bar. La prima volta che Valentina è venuta, si è portata dietro Gioele: sei anni. Mentre tornano a casa, le dice: «Mamma, questi sono i miei amici e io voglio stare con loro». Lei è infermiera ed è arrivata qui attraverso Carla, che conosce da sempre. È stata zitta tutta la sera, alla fine è riuscita solo a dire: «È vent’anni che attendevo la telefonata di Carla».
Poi c’è Antonella, che quando studiava Architettura passava ogni giorno davanti ai banchetti dei ragazzi del Clu. «Ricordo ancora i loro volti dopo quindici anni». Non faceva caso a quello che proponevano, non le interessava, ma provava gusto a incrociare i loro sguardi: «Li sfidavo. Erano sempre così uniti e sereni. E volevo vedere se erano ancora felici come il giorno prima. Mi dicevo: ma avranno anche loro dei problemi, delle malinconie?!». Oggi è qui al Rasty Bar, dopo che l’anno scorso sua sorella l’ha invitata alla veglia di preghiera per le vittime degli attentati di Parigi. «Fuori dalla chiesa ho ritrovato, ancora, quegli sguardi». Da quel giorno non è mancata a un incontro.
Il venerdì sera magari si arriva stanchi o con il desiderio piccolo, ma Sara racconta di uscire da lì con domande che si porta dentro per tutta la settimana: «Cambiano il mio modo di guardare tutto quello che vivo». Le cose che leggono o che si raccontano «sono degli allarmi che suonano durante la giornata», aggiunge Chiara, che dopo la nascita delle figlie aveva trascurato la Scuola di comunità: «Qui sono costretta a fare un cammino. Un lavoro su di me. Ora tengo di più a me stessa, guardo cosa succede nella mia vita se do credito a Giussani e Carrón. E vedo che mi interessa sempre di più una cosa: che questo Tu si faccia vedere». Un’altra ragazza mette il cuore sul tavolo: «Mi sono drogata per anni. Con voi ho scoperto che non serviva spendere una lira per essere felice».
E la gente del bar? «All’inizio stavamo in un angolo, e loro come se niente fosse», dice Fabio: «Poi hanno iniziato a lasciare i tavoli liberi per noi, ad avere attenzioni. Quelli più curiosi guardano, ascoltano. Tutti sanno cosa facciamo e che il nostro ritrovarci inizia sempre con una preghiera». Nel frattempo è cambiata anche la gestione. E la storia continua. «In uno dei posti più impensabili. Un bar», dice Angela: «Ma io posso dire che in quel bar il Signore ha cambiato la mia vita».

FRANCIA
Colpo di fulmine

A Digione, nella Francia centrale, tra vigneti e abbazie, non si era mai vista una Scuola di comunità. Fino a due anni fa, quando Olivier, un professore di Economia, conosce per caso la figura di don Luigi Giussani. «Era il giugno 2014 e stavo preparando un corso di Business ethics. Mentre facevo delle ricerche in rete su personaggi legati al cattolicesimo italiano, ho scoperto l’esistenza di questo sacerdote e del movimento di CL». Mette da parte il corso, e per l’intera giornata legge tutto ciò che trova in francese. È un vero coup de foudre. Nei giorni seguenti scrive alla segreteria della comunità per chiedere informazioni: «Per me era un po’ come lanciare un messaggio in una bottiglia nel grande mare della rete. Invece mi hanno risposto Isabel e Silvio da Parigi, che mi consigliavano di partire da alcuni testi: Il rischio educativo e i tre volumi del PerCorso». Forse la Scuola di comunità è nata in quel momento, nello scambio di sms tra Olivier e Silvio, che per tutte le vacanze estive si sono messaggiati domande e riflessioni.
Qualche mese dopo, i due si incontrano a Parigi, in un ristorante indiano: «In un istante ho visto quello che avevo letto nei libri», racconta Olivier. «E ho capito che di un’amicizia così non avrei più potuto fare a meno». Appena salito sul treno verso Digione, sente affiorare una nostalgia: «Mi aveva raccontato di questo momento chiamato Scuola di comunità, ma Lione e Parigi erano troppo distanti da raggiungere. Gli ho scritto subito chiedendo un aiuto. E lui mi ha detto: “Ma perché non inizi tu, a Digione?”».
È poco prima di Natale, quando Olivier invia una mail a una decina di amici e colleghi. In allegato, il testo di Julián Carrón della Giornata di inizio anno. «Se vi interessa, mi piacerebbe raccontarvi cosa ho scoperto pochi mesi fa». All’appuntamento si presentano in cinque. Guardano insieme il video sul movimento La strada bella. Olivier racconta dei nuovi amici a Parigi, di don Giussani e propone di trovarsi regolarmente a leggere insieme un suo testo. Dei cinque presenti, tre sono realmente interessati. Sono Philippe, Pierre ed Eric. Da lì in poi, ogni venerdì sera si incontrano in una sala che il Vescovo della città mette a loro disposizione.

Dentro un cammino. «Olivier mi incuriosiva», racconta Philippe, 42 anni. «Ma più di tutto c’era una frase che avevo letto che non mi usciva dalla testa: “Non sono quando non ci sei”. Sono tornato perché volevo capire cosa quelle parole dicevano a me». Philippe, in quel periodo, è nel pieno della separazione da sua moglie, dopo vent’anni di matrimonio. Stava affrontando una grande sofferenza, la sua e quella dei suoi quattro figli, di cui il più piccolo aveva solo un anno. «La Scuola di comunità non è coincisa con un aiuto preciso da parte loro. Ma ho cominciato a stare meglio. Ed era strano: mi tornava la voglia di vivere anche se questi amici non facevano niente di particolare per me. Semplicemente c’erano. E sentivo che in me c’era qualcosa che cresceva: era il tornare a voler bene a me attraverso gli occhi di don Giussani».
Anche i suoi compagni di viaggio, Pierre ed Eric, a cui presto si aggiungerà Sarah, vivono momenti difficili: «Non c’era uno di noi che avesse la vita a posto: insieme abbiamo vissuto licenziamenti, disoccupazione, solitudini affettive, disagi dei figli. Eravamo una Scuola di comunità di infortunati, ma non ci sentivamo più vittime. Finalmente eravamo dentro un cammino».
Tutto il 2015 è segnato dalla fedeltà a quel gesto. Qualcuno di loro riesce a partecipare agli Esercizi spirituali e alla vacanze estive. E quando Olivier, alla fine dell’anno, viene trasferito e lascia la Borgogna, nessuno di loro è sfiorato dall’idea che la Scuola di comunità non si faccia più. «Mi sono preso la responsabilità di seguire il gruppetto, a cui intanto si era aggiunta anche Catherine», racconta Philippe. «Ho detto “sì”, anche se non sono capace e nonostante una vita familiare così problematica. Perché la Scuola di comunità è l’unico modo che ho di tenere insieme tutti pezzi di me stesso. Qualcosa di impossibile ai nostri sforzi».
Oggi al piccolo gruppo di Digione si sono aggiunti anche Sabine e Régis. Silvio, da Parigi, va a trovarli appena possibile. «Abbiamo letto il brano degli Esercizi dove Giussani racconta il “sì” di Pietro. Sono bastate poche righe e poi Régis, 70 anni, un’azienda fallita e cinque infarti nell’ultimo anno, dice: “Anche a noi, alle nostre vite scalcagnate, Gesù parla così”».

NIGERIA
Il quaderno di Nyemike

Domenica, primo pomeriggio. Quarantadue gradi, nel parcheggio della clinica del quartiere musulmano di Idi Araba, a Lagos, Nigeria. Col rumore della città, tra minareti e traffico, Godfrey, 32 anni, se ne sta in un angolo, con un libro in mano. Davanti a lui Steve, tre anni più giovane, due figli e un buon lavoro in una grande azienda, che però lo blinda con turni e orari strani sette giorni su sette. Così hanno trovato questo buco di tempo per fare Scuola di comunità, e, se non si riesce, ci si organizza per una sera in un locale, davanti a una birra. È stato Steve a chiedere all’amico di vedersi, perché al momento “ufficiale” della comunità non riusciva più ad andare. «Io muoio senza Scuola di comunità. Qui recupero me stesso», ha detto Steve, commosso, a un’assemblea.
«Il movimento in Nigeria c’è dalla fine degli anni Ottanta. Siamo una piccola comunità, oggi poco meno di cinquanta persone, universitari, giovani lavoratori e qualcuno di più “vecchio”, in una città con più di venti milioni di abitanti», racconta Barbara, una Memor Domini italiana a Lagos da oltre dieci anni e responsabile della comunità di CL. «Circa tre anni fa è venuta l’amica Rose dall’Uganda per fare un’assemblea con noi. Tutti sono rimasti colpiti da come parlava della Scuola di comunità. Di quanto fosse importante per vivere». L’effetto è stato che hanno iniziato a nascere dei gruppetti. Tra gli universitari, per esempio; ma anche quello di Steve e Godfrey, o di chi lavora alla ong Loving Gaze, con una quindicina di persone.
«Anche io, l’anno dopo, ho iniziato un nuovo gruppetto con alcuni», racconta ancora Barbara: «Ero stata con Roland, un giovane lavoratore, all’Assemblea internazionale di CL in Italia. Lui era un po’ “giù”. Parlando con Rose, lei mi ha detto: “Fai la Scuola di comunità con lui, vedrai che starà meglio”». Tornati a Lagos, il gruppetto parte, con l’aggiunta di Charles e David, 28 e 29 anni: «Mi sono accorta da subito che quello che era nato come aiuto per Roland, che pure stava meglio, iniziava a essere vitale per me. Uno capocantiere, l’altro agente immobiliare, il terzo responsabile dell’ufficio acquisti in una ditta... Tiravano fuori domande concrete, che riguardavano i dettagli di quello che vivevano ogni giorno, mettendo alla prova tutto ciò che leggevamo».
Un gruppo affiatato. «Sì, ma non basta che sia così. Il cuore è un altro», spiega Barbara: «Nel tempo il gruppo è cambiato. Roland è stato trasferito ad Abuja, anche Charles rischiava di essere mandato da un’altra parte. Ma io avevo bisogno di continuare quell’esperienza. Così ho chiesto a Godfrey di venire. E poi a Ruben, un amico che tempo fa si era trasferito a Port Harcourt e ora era tornato a Lagos».
«La Scuola di comunità mi fa respirare», dice Godfrey. Soprattutto in un momento storico come quello che vive la Nigeria. Con una crisi economica che morde, legata a quella petrolifera, il lavoro incerto, Boko Haram. La gente se ne va. E c’è una mentalità diffusa per cui vali in base al successo che ottieni. Godfrey doveva sposarsi, era già tutto pronto, anche la casa. Ma poi ha lasciato la sua ragazza: «Ho intuito che lo avrebbe fatto per sistemarsi. Io le volevo bene, lei, invece, non quanto me ne vogliono gli amici del movimento, con cui ho fatto esperienza di cosa vuol dire essere amato totalmente. Posso vivere per meno di questo?». Anche Nyemike fa fatica. Ha problemi al lavoro, non lo pagano da mesi. Alla Scuola di comunità si è parlato tanto di misericordia. Allora ha iniziato a tenere un quaderno, per appuntarsi «ogni momento in cui Gesù è all’opera, in cui vedo la sua misericordia in atto, in cui mi vuole bene». Ed elenca le annotazioni agli amici: il primo giorno due volte, il secondo tre. Poi una casella senza note. Perché ci sta anche l’umanità, la distrazione. «Ma quello che Lui fa vince su qualunque cosa».

O il bus o il pranzo. All’ultimo appuntamento c’era anche una donna con un neonato al seno. «La moglie di Christopher. Fa il contadino. Sono stati via qualche mese, al paese di lei, perché è andata dalla sua famiglia per il parto», racconta Barbara. Tornati, lui aveva il desiderio di ricominciare la Scuola di comunità. Alla prima occasione. Che arriva puntuale. «Non possiamo», gli ha risposto la moglie: «Ho detto che saremmo andati da quella zia con il piccolo. Vai tu». «No, andiamo alla Scuola. E vieni anche tu. Perché tutto questo, il nostro matrimonio, la nostra vita, non esisterebbe via da lì. Perfino il bambino, alla fine, sarebbe solo una bocca da sfamare e causa di mille preoccupazioni. E invece lì possiamo viverlo come un dono».
Alcuni fanno più di due ore di viaggio sui pulmini scassati del trasporto pubblico per andare alle assemblee. «Abbiamo fatto anche il pellegrinaggio giubilare. Ho pensato che potevamo organizzare noi un bus. Ma era un costo da affrontare. Così quelli del Clu, che sono venuti in 17, non avevano quasi più soldi per il pranzo. Si sono comprati una baguette e se la sono divisa», racconta Barbara. «Li vedi crescere, ma questo accade solo davanti a qualcosa che veramente può cambiare la vita. Per questo l’altro giorno ho raccontato, alla riunione degli universitari, quello che ha cambiato la mia».
Barbara aveva notato un ragazzo nuovo, Tony. «Cupo, con uno sguardo perso. “Cosa ho io da comunicargli?”, mi sono chiesta». Davanti ai ragazzi Barbara racconta del suo incontro, di quella volta in cui sentì parlare don Giussani. E delle parole che trattenne del suo discorso: «Perché tu sia felice!». «Desideravo questo per lui», dice ancora. Pochi giorni dopo Abraham, responsabile degli universitari, la chiama: «Ho parlato con Tony. Dice che vorrebbe venire all’assemblea della Fraternità. Segnati il nome: Tony Abdullah... Ah, è musulmano».

GRECIA
Per chi si vive?

«Essenziale? Di più. La Scuola di comunità è vitale». Non sono le parole di Rosaria a dare carne a questa frase, ma tutta la sua storia. Italiana, trasferita a Larissa, nel cuore della Grecia, nel 1997, ventiquattro ore dopo il matrimonio con Nicola, medico greco conosciuto ai tempi dell’università a Napoli. Casalinga, con due figli, oggi in famiglia fanno i conti con la crisi, sempre più dura: «Tanti se ne vanno, i negozi chiudono, la disoccupazione cresce. Ci sono anche le migliaia di profughi. Un tunnel buio. E non si vede l’uscita». Solo altre tasse in arrivo.
A fare la Scuola di comunità, in parrocchia tutte le settimane, sono rimasti una dozzina. Qualche greco ortodosso e poi altri, rumeni, albanesi. «È un paragone continuo con le fatiche che viviamo», spiega Rosaria. Proprio come all’inizio, quando è arrivata a Larissa.
«Ho incontrato il movimento alla fine degli anni Ottanta a Napoli, tra una lezione di Magistero e l’altra. Era un periodo difficilissimo, come un deserto, avevo una sete enorme. Ed è iniziata l’avventura della vita. Rimanevo inquieta, ma c’era un luogo, un cammino». Con Nicola inizia a frequentare i nuovi amici. «Ero sempre con qualcuno, sempre in prima linea. Quando c’era da vendere la nostra rivista, ero la numero uno. Magari neppure la leggevo».

La lettera di Teresa. Appena arrivata in Grecia, tutto è cambiato: «Ero sola. Ho passato settimane in cui l’unica faccia che vedevo era quella di mio marito. E poco pure quella, tanto lavorava. Io che avevo bisogno di stare sempre con la gente...». Arrivano i figli, le giornate diventano ancora più dure. «C’era la depressione. E non dormivo di notte. Tutto il giorno tra casa, pannolini, pappe...». Anche le telefonate con gli amici lasciati in Italia, con la promessa di sentirsi spesso, diminuiscono. «Non uscivo, non mi curavo più. E che idea si sarebbe fatta di me la gente? La moglie del medico...».
L’unica compagnia era Tracce. «Lo aspettavo, lo divoravo. I miei amici erano gli sconosciuti che firmavano le lettere. E poi c’erano le storie, le parole di don Giussani». Rosaria ricorda una lettera: «L’aveva scritta Teresa, una Memor Domini che viveva negli Stati Uniti. Raccontava del suo lavoro, dell’esclusione da un progetto che l’aveva buttata giù. “Ma tu per chi vivi?”, le aveva chiesto Giussani». Fu la scintilla: «Ho iniziato a fare Scuola di comunità, tutti i giorni. Era una luce. Per esempio, la parola “libertà”. Per me era l’idea di poter fare qualcosa di diverso, di uscire da quella gabbia. Invece per don Giussani potevo essere libera lì. E poi, come parlava della tristezza...». Lei cercava di censurarla, magari passando ore al telefono con qualcuno. E poi ha letto in Si può vivere così? della tristezza “buona”: «Era la mancanza dell’amato! Era la possibilità di accorgersi di Gesù. Diventava un’occasione privilegiata».
La Scuola era «un volto, una mano, non appena un libro. Una lente che rimetteva a fuoco tutte le cose liberandomi dai pensieri e dalle mie idee sulla realtà». Non era immaginazione.
È qui che iniziano ad arrivare nuovi amici, nel quartiere e in parrocchia. C’è una base Nato a Larissa. Un gruppo di ufficiali italiani andava alla messa in parrocchia e aveva iniziato a partecipare al coro in cui c’era anche Rosaria. Una sera, durante una cena in pizzeria, i militari parlano di nostalgia. «Ho detto loro che anche a me mancava l’Italia. Che avevo lasciato molti amici, ma che quello che avevo incontrato a Napoli lo vivevo anche in Grecia». Pochi giorni e un gruppetto di soldati si ritrova seduto nel salotto di Rosaria, alle prese con Il senso religioso. «Finita la missione sono partiti. Ma ne sono arrivati altri, e io non volevo averci a che fare. Avevo sofferto quando i primi erano andati via. Solo che quelli avevano dato il mio indirizzo ai nuovi. Alla fine mi sono arresa».
In poco tempo a “quelli della Nato” si aggiungono amici della parrocchia e del quartiere. «Il Signore non mi ha mai lasciato sola. Loro sono come delle barche che arrivano al porto, attraccano per un po’ e poi vanno via. Negli ultimi tempi con alcuni si era creata un’amicizia grande, ma per la crisi se ne sono andati anche loro».
Serve un “sì” ogni giorno, dice ancora Rosaria: «A volte ho pensato che se fossi stata a Milano, più vicina a Carrón... Invece, la libertà che ho iniziato a vivere in questi anni mi ha dato la possibilità di amare tutto, circostanze e volti. Ma puoi amare solo quando sei amato tu. La Scuola mi ha fatto scoprire questo. E che nulla è necessario tranne me».
«A fine estate mi ha chiamato uno di quei militari di quindici anni fa. È diventato generale. “Se sono contento? Certo”, mi ha detto: “Ma ho nostalgia per i nostri incontri. Per quello che veniva fuori. Tutto sacrificato per seguire la carriera. Ma ora...”».

CROAZIA
È Dio che è fedele

Una è di Korcula, l’isola più a sud della Dalmazia, all’altezza di Medjugorje. L’altra è di Dubrovnik ma vive a Friburgo, Svizzera. Una, mamma di cinque figli; l’altra, medico ormai in pensione, e nonna di tre nipoti. In comune Ivana e Marija hanno una telefonata periodica via Skype: la loro Scuola di comunità.
La loro storia inizia ad Albenga, dove Ivana, di madre italiana, si trasferisce dalla Croazia per fare il liceo. E dove il prof di religione Carlo e la moglie Marisa hanno un qualcosa in più. «Venivo dalla tradizione cristiana del mio Paese, ma me ne sarei stancata presto. Loro mi dicevano che la fede non è un’aggiunta alla vita, ma ciò che ti fa vivere la vita». Ivana inizia a frequentare i giessini. E anche quando d’estate torna qualche settimana in Croazia, cerca quella compagnia. Durante una vacanza della comunità croata con don Gaetano Tortella, di Verona, incontra Marija. Poteva essere sua madre, come età...
Un altro spostamento è dietro l’angolo: Ivana si iscrive all’università di Spalato, Matematica. Il bisogno di rapporti veri urge, ma a Spalato non c’è nessun altro del movimento. C’è una piccola comunità del Clu a Zagabria. Oggi per fare Spalato-Zagabria ci si mettono minimo 4 ore e mezzo di macchina. Quindici anni fa, anche il doppio, «ma ogni tanto andavo a trovarli. Stavamo insieme, facevamo le gite, la Scuola di comunità», senza perdere i contatti con Marija e gli amici liguri: «Don Pino di Chiavari mi diceva ogni volta: “Sii fedele a un punto che ti fa vedere l’essenziale delle cose”». Fedele...
Ivana torna a Korcula, si sposa e arriva il primo figlio. Poi il secondo. «Marija mi chiamava: “Se vuoi facciamo Scuola di comunità noi due, via Skype”. Ma coi figli..., troppo da fare». Cinque anni fa, qualcosa comincia a non andare. Una tristezza, un senso di inadeguatezza che fa dire a Ivana solo «non ce la faccio». Esplode la depressione. Lì sulla sua isola, quegli amici che la tengono viva non ci sono. Sua madre è un grande aiuto, ma molti conoscenti non riescono più a stare con lei e il marito fa fatica a capire che quelli della moglie non sono “capricci”. Poi c’è Marija, che intuisce la gravità della situazione. Le telefonate dalla Svizzera si fanno frequenti: «Le dicevo: “Marija, non riesco a stare coi bambini, a lavare i piatti, a pregare”», racconta Ivana: «E lei: “Affrontiamo la malattia insieme, e se serve, anche le cure e l’ospedale”».

«Cominciamo?». Ivana combatte. Piano piano si riprende la vita. Marija non si stanca di seguirla, anche se da lontano. Quell’estate è a La Thuile, per l’Assemblea responsabili del movimento. Il cellulare squilla. È Ivana. «Iniziamo a fare Scuola di comunità?». «E così abbiamo iniziato», racconta Marija. E l’appuntamento è ogni settimana. «Partiamo dal testo, e arriviamo sempre alla vita», continua: «Una che ha cinque figli non perde tempo in cose inutili: lei mi aiuta a non stare sulle nuvole delle parole, a scendere nell’esperienza, nella fatica coi figli e coi nipoti». Le due donne lo sanno bene: «Siamo accomunate dal fatto che Dio è fedele attraverso l’altra».
Oggi Ivana guarda quei lunghi mesi di depressione e «non capisco ancora perché mi sia successo, ma posso dire che Dio non mi ha mai lasciato sola. La malattia mi ha fatto capire che c’è Uno che può fare nuove tutte le cose, che niente è mio. Ho capito che non ho il diritto di pretendere che mio marito mi capisca, chissà di quante cose ha bisogno che io non vedo...». Per anni «mi sono arrabbiata, ho pianto. Sembrava parlassimo due lingue diverse. Oggi lo ringrazio che, nonostante tutto, sia ancora al mio fianco». Ma Ivana sa bene che «non potrei dire queste cose senza quella telefonata che si ripete da quattro anni. È il lavoro sulla Scuola di comunità che non permette alle mie urlate coi bambini di schiacciarmi, ma mi fa amare ancora».
Ogni volta, prima dell’appuntamento con Marija, «devo vincere anche la mia pigrizia». Ma a Ivana tornano alla mente quelle parole di don Gaetano, una volta che andò a trovarla sulla sua isola: «Quando il Signore ti prende, non ti lascia più».