Astana, la capitale del Kazakistan

Kazakistan, sempre più in là

È una simpatia. Così potente che ribalta la vita di Maja. Trasforma lo sguardo di Nasgul sul padre. E le lezioni a scuola in «domande eterne». Sei giorni tra i grattacieli e la steppa, con volti della comunità di un Paese alle porte dell'Oriente
Davide Perillo

«Scusate, ma chi è Pietro? Perché parlate sempre del suo “sì”?». Ecco, alla fine quello che hai visto di continuo, in questi giorni, è tutto lì. Nella domanda che Amina, tre figli, un portamento da principessa e due occhi accesi come pochi, ha fatto a quegli amici incontrati appena sei mesi fa, e con cui si vede ogni volta che può qui ad Almaty. C’è una freschezza umana bellissima e acuta. C’è cuore che cerca, senza sovrastrutture, pregiudizi, cose già sapute. E c’è la novità che accade quando questo cuore incontra un altro modo di vivere. E lo vuole per sé.

Abbiamo parlato spesso del Kazakistan. Un Paese grande nove volte l’Italia, con 16 milioni di abitanti, un incrocio infinito di storie ed etnie (kazaki e russi, polacchi e coreani, e mongoli, tatari, uzbeki, ucraini...), un piccolo drappello di cattolici (300mila scarsi, meno del 2%) e una presenza di CL che ha festeggiato i vent’anni nel 2014 (vedi Tracce, n. 11/2014). Ma quando i racconti che arrivano da lì continuano a sorprenderti, proprio per la loro semplicità radicale; quando gli amici ti citano in serie fatti e storie che fanno vedere Cristo all’opera, bisogna andare a vedere.

Lo abbiamo fatto. Sei giorni di volti e di incontri, dai palazzoni stile soviet di Karaganda, dove in cima a una rampa di scale scassate c’è ancora il Djevjatyj Etazh, il Nono Piano, primo appartamento dei preti arrivati qui e ora sede di CL; ai 27° sottozero di Astana, la capitale tutta vetri, futuro e grattacieli; alle montagne di Almaty, milleduecento chilometri più a sud, a ridosso del Kirghizistan e, poco più in là, della Cina. Sei giorni ricchi e intensi che alla fine, ti rendi conto, puoi provare a restituire solo per flash. Senza pretese di completezza. Ce ne sarebbero tanti altri, di fatti, e li racconteremo, sul web o nei prossimi numeri. Questa è solo una caparra...

Una scuola a Karaganda

Strano inizio per un viaggio, l’aula di una scuola. Ma è lì, Complesso 38 di Karaganda, che insegna Ljuba Khon, 59 anni, prof di Letteratura russa e responsabile di CL. Oggi si parla di Dostoevskij. Due lezioni di fila, ad altrettante classi di adolescenti. Si lavora su Il contadino Marej, il racconto in cui vent’anni dopo, in carcere, il grande scrittore ricorda l’incontro con il fittavolo che lo aveva rincuorato quando si era perso nel bosco, da bambino: «Io adesso ho intorno ubriaconi, gente corrotta (...), eppure in ciascuno di loro potrebbe esserci, in fondo, quel contadino che mi ha mostrato tanta carità...». Ti aspetti la classica spiegazione da prof, e invece è un flusso continuo di domande che suscitano domande: «Secondo voi, chi è Marej per Dostoevskij? Come si sentiva lui quando scriveva? A voi è mai capitato...?». Un paragone con la vita. Che fa dire a Polina, 15 anni, e uno sguardo già adulto, che «lui parla del mistero che c’è in noi, e io non vedo l’ora di sapere le risposte a queste domande eterne». O a Julia, capelli rasati da un lato e fermacoda fucsia: «L’uomo che non ha domande non va avanti». «Hanno capito che quest’uomo ha qualcosa dentro e vogliono sapere cosa», dice Ljuba: «Forse perché è quello che hanno dentro loro».



Ecco, Ljuba è così. Ai suoi ragazzi regala Dostoevskij per amico. Ma soprattutto, dona se stessa. «Per me insegnare è dare tutto quello che ho ricevuto nella vita. Questo sguardo su di me. Ci accompagniamo così, nel cammino». È la stessa cosa che accade con gli amici del movimento, da quell’incontro con Il senso religioso che le cambiò la vita. E che prosegue nell’amicizia con Maja, la sarta che ti riceve nel suo atelier da tre metri per tre, al secondo piano di un condominio dove ogni appartamento è una microazienda e ti racconta di quando ha chiesto il Battesimo per la figlia a don Adelio Dell’Oro, ora vescovo proprio a Karaganda, e si è sentita rispondere: «Ma tu ci hai pensato per te?». «Lì ho capito che tutto quello che è successo era per prepararmi a questo incontro». O con Aljona, che vende fiori online, e ti racconta come è tornata da quegli amici conosciuti anni prima: «Avevo bisogno di imparare ad amare Polina, mia figlia, che è disabile», e te ne parla con una tenerezza infinita. O, ancora, Katia, che vedi passare un’ora del suo sabato mattina a tingere di rosso i capelli di Irina, una dei senzatetto ospiti delle Suore di Madre Teresa dove i ciellini fanno caritativa, e che ti dice: «Questi luoghi di dolore ora per me sono i posti dell’amore: ogni volta che vengo qui chiedo di imparare a vedere il volto di Cristo in quello che faccio». O Tatiana, che sempre dalle suore - era la prima volta che veniva - ha sentito Vladimir, un altro senzatetto, dire: «Noi per il mondo non siamo nessuno». Le è venuto quasi da piangere. «È terribile sentire un uomo che parla così. Ma forse possiamo aiutarli a scoprire che sono persone».


«Ragazzi, possiamo discutere ore sulla felicità. Ma mi raccontate un momento in cui siete stati felici davvero?». La domanda di Enrico arriva a metà pranzo, tra uno saslyk di montone e una fetta di khachapuri georgiano. Intorno al tavolo, con lui che adesso è in pensione ma va e viene dal Kazakistan da quando costruiva impianti per l’Eni, ci sono Ljuba, don Pier (parroco sbarcato qui da Fidenza), due amiche e sei giessini. Quindici, sedici anni, non di più. Ma Maria ti folgora, quando racconta del momento in cui si è accorta che la felicità c’è. «Ero a una fermata del bus e c’era il Buran, la tormenta. Nessuno intorno. Solo silenzio e vento e neve. Potevo decidere se stare lì, andare, tornare a casa. Pensavo al futuro, a quello che potrò fare nella vita... Avevo il cuore spalancato e il mondo lì, tutto per me». Il cuore grande come l’universo, e quell’universo che è regalato a te, ora.



Accanto c’è Nikolaj, stessa età, corpo esile e occhi grandi. Quando apre bocca, ti lascia stordito: «Sono felice quando mi sveglio la mattina e vedo che c’è tutto: braccia, mani, gambe...». È malato da tre anni. Tumore. I medici hanno detto più volte a sua madre che non c’era speranza. Lei, tenace, ha trovato il modo di farlo curare. Lui ha imparato a tessere quadri a punto croce, per aiutarla a portare a casa qualche tenge. Ma la fatica più grande è stata ritrovarsi da solo: «I miei compagni non riuscivano più a stare con me». Tutti, tranne una, Camilla. Gli siede accanto. Da quasi tre anni, ogni giorno va a casa sua per aiutarlo a studiare. La guardi, e non c’è quasi bisogno di chi ti traduca dal russo per capire quello che dice: «Non si può essere felici da soli». E capisci anche meglio la risposta che ti ha dato David, quando gli hai chiesto perché tra loro e con Ljuba sono così amici: «Perché non siamo indifferenti».

Vista dall’alto, dalla sfera dorata in cima alla Torre del Bayterek, Astana è uno spettacolo strano. Qualcosa a metà tra Parigi e Disneyland: vialoni in stile boulevard e grattacieli firmati Norman Foster, palazzi di lusso e vecchi quartieri di casette basse, a un piano. Il volto di una città che sta crescendo in fretta, perché è diventata capitale solo vent’anni fa, quando i soldi di petrolio, gas e miniere hanno preso a girare veloci. Case fino all’orizzonte, poi, di colpo, la steppa. E l’impressione potente, fisica, che l’uomo è grandissimo e al tempo stesso nulla, davanti all’infinito. Che c’è sempre un “più in là”.



Come nelle poesie italiane che Ramzia ha imparato a conoscere quindici anni fa, quando ha incontrato don Edo Canetta, il primo ciellino ad arrivare da queste parti, e ha iniziato a studiare italiano. Ora lo parla e lo insegna, all’università. E ti spiega il progetto di mettere in piedi un centro culturale dedicato all’Italia mentre Dima, il marito, avvocato di grido, fa battute a raffica tenendo in braccio Miriam, la terza figlia.

Casa loro è il centro del movimento, qui. Non ci sono opere, strutture, neanche sacerdoti di CL. Solo un’amicizia potentissima. Così potente da incontrare di continuo gente nuova. O da attirare di nuovo chi aveva incrociato il movimento anni fa, e poi per motivi vari si era staccato. Come Leila, che lavora in una think tank dove studia Cina e Medioriente, e adesso è di nuovo qui, a cena assieme ad altre ventisette persone a raccontarsi semplicemente la vita, il lavoro, la scoperta di sé e del mondo. E a fine serata abbraccia Enrico con una frase che ti spacca il cuore: «Ogni mattina devo decidere tra il vivere e il non vivere. Per questo sono qui».



Anche Maulen ha incontrato «gli italiani» undici anni fa, «attraverso la faccia di don Eugenio Nembrini». È musulmano, come Adilbeck, Jas e tanti altri. «Ma non importano le differenze di religione o di cultura. Mi interessa la persona. Loro sono i miei amici. E io sono ricco nell’anima, perché ci sono loro. Qui sono a casa mia». Lui, come i nuovi arrivati. Gulzhan, l’insegnante di flamenco di Ramzia, che una sera ha incontrato la sua allieva per strada. «Che ci fai da queste parti?». «Sono venuta a trovare un’amica per invitarla alle vacanze». «E cosa sono queste vacanze?». Alla fine ci è andata anche lei, e stasera è qui a raccontarti che il flamenco ha dentro «il grido dell’uomo, perché si balla quello che si ha dentro». O come Saltanat, manager del Teatro dell’Opera, che a fine serata saluta e risaluta e dopo un po’ la ritrovi ancora lì perché, confessa a Ramzia, «da qui non riesco più ad andare via». A casa, Madina - musulmana anche lei - si sente chiedere dal marito: «Ma cosa è stata questa cena? Hai una faccia bellissima...». E lei: «Stasera si è parlato di me».

Stava già facendo le valigie. Non c’era lavoro ad Almaty, neanche dopo tutti i sacrifici fatti per studiare. «Ero pronta a tornare a casa, quando una donna che abitava nel mio stesso pensionato mi ha detto: prova ad andare al Centro, magari ti aiutano». Il Centro si chiama Alfa & Omega, ed è nato tredici anni fa per dare una mano ai ragazzi difficili e alle loro famiglie. Nasgul porta il curriculum. E Silvia Galbiati, Memor Domini e direttrice, invece di aiutarla a cercare lavoro, la assume. «Era il 18 maggio del 2005, lo ricordo ancora. Chissà dove sarei ora, se avessi chiuso quella valigia». Invece è qui, a fare da perno in una realtà che oggi aiuta i profughi afghani, organizza laboratori di panetteria e sartoria, fa studiare i ragazzi, forma operatori sociali... «I primi giorni non capivo niente. Vedevo Silvia, il mio capo, che a pranzo si alzava per servirmi a tavola. O che sul lavoro chiedeva il mio parere, invece di dirmi “fai questo”. Per me erano cose mai viste, un altro mondo. Ma mi ci trovavo bene». Come nell’amicizia che nasce man mano con altri, italiani e no. E con don Eugenio, «che una volta mi guarda fisso negli occhi, sorride e mi fa: “Ti voglio bene”. Sono rimasta senza parole. Era come se me lo dicesse mio padre».



È una parola difficile da dire, per lei. Suo padre se n’era andato da casa quindici anni prima, dopo la nascita del quarto figlio. Stava con un’altra donna, mentre la mamma di Nasgul si era ammalata. Immaginatevi la faccia di Silvia quando, dopo qualche mese, lei si presenta al lavoro e le fa: «Volevo dirti una cosa. Noi siamo qui tutto il giorno, aiutiamo questo e quest’altro. Ho pensato: e mio padre? Insomma, ieri sera ho parlato con i miei fratelli: abbiamo deciso di riportarlo a casa». Perché? «Ho visto come mi trattate. Ho capito che Dio è in ogni persona. E ho iniziato a pensare: ma se lui è così, forse è perché nessuno lo ha mai guardato in un altro modo. Appena nato, i suoi genitori lo hanno affidato a un’altra coppia: qui capita spesso. Non ha avuto una famiglia sua, è cresciuto con una ferita dentro... Come fai a voler bene, se non sei amato?». Una rivoluzione. Secoli di tradizioni e differenze culturali - e anni di dolore, in quella casa -, abbracciati da un incontro. Ribaltati da una storia particolare. «L’ho scelto, questo sguardo. Perché ho capito che solo così potevo ricostruire il rapporto con lui».

Non è stato facile. «All’inizio mia madre neanche voleva sedersi a tavola con lui. Mentre io ero fiera di me. Mi dicevo: “Sei brava, lo hai perdonato”. Non era così. Ero come un vulcano: il magma, la lava dentro, bruciava e ogni tanto scoppiava. Ho capito che il perdono lo devi decidere di nuovo, ogni giorno. Chiedevo a Dio la pazienza. Mi sono accorta che non te la dà di colpo, ma ti regala i fatti che te la fanno imparare». Ora suo padre passa la giornata ad assistere la moglie. «Ho scoperto che è una persona interessantissima, legge molto». Ha voluto conoscere gli amici italiani. E anche se ha tante domande su quella figlia ancora non sposata («una tragedia, per la nostra cultura: qui se a 22-23 anni non hai marito, sei già vecchia...»), la guarda con altri occhi. Perché sa che non è sola.



Anche Amina ha trovato una compagnia che non si aspettava. La vita era piena: famiglia ricca, tre figli piccoli, la passione per la moda e il ristorante vegano da mandare avanti. «Ma cercavo. Cercavo tanto». La risposta è arrivata nel modo più inatteso. E ha il volto di Mimmo, italiano trapiantato in Kazakistan per lavorare proprio nel fashion. Storia bellissima anche la sua, meriterebbe un articolo a parte: aveva lasciato il movimento quindici anni fa, è tornato per un invito a una Giornata d’inizio («tremavo andandoci, sentivo che quel giorno mi avrebbe obbligato a cambiare»), vive tutto fino in fondo, anche la caritativa nella casa delle Suore di Madre Teresa (sono pure ad Almaty). Fatto sta che quando Amina chiede di incontrarlo per questioni di lavoro, si trova davanti una sorpresa: «Va bene, ma domattina no, perché vado dalle suore». Lei si fa raccontare, lui spiega che tutti i mercoledì va a cucinare per i senzatetto. E Amina, di botto, si rende conto che «era tanto tempo che cercavo una cosa così, una profondità. Gli ho chiesto: posso venire anche io?». La mattina dopo, alle sei, sono in macchina verso la casa delle suore. Poi Amina conosce gli amici di Mimmo: don Livio, Silvia, Lucia...

Insomma, subito dopo si ritrova lì, a fare Scuola di comunità. A dare una mano al Centro. E a ringraziare per quell’incontro che, dice, «mi ha aperto porte a cui bussavo da tanto. Io sono una che inizia molte cose e poi lascia perdere, cerca altro. Anni fa volevo studiare italiano, per esempio, ma non ce l’ho fatta: la famiglia, il lavoro, il desiderio di aiutare gli altri... Qui i fili si riuniscono, tutti. Stare con voi mi aiuta a vivere». Per esempio, con i figli. «Il più grande ha 13 anni, età difficile. Ma ho iniziato a guardarlo con altri occhi». Dice proprio così, letterale. E spiega: «Se prima era normale che stesse da solo in camera sua, adesso apro la porta e gli dico: guardiamo un film insieme? Questo l’ho imparato con voi. Ai ragazzi racconto tutto: quello che vivo gli apre la mente. L’altro giorno, mio figlio era con me a pelare patate per le suore...».



È cambiato anche altro. Lo sguardo sul dolore. «La figlia di amici ha la sindrome di Down. I suoi la amano molto, ma avevano quasi paura a portarla in giro. Io non sapevo come aiutarli. Poi ho visto come trattano i ragazzi al Centro: li fanno studiare, lavorare. Li portano alla luce. Ora dico ai miei amici: guardate che con bambini così bisogna lavorare, sono molto di più di quel che ci immaginiamo...».

E tuo marito? È kazako e musulmano, come te: che dice di questo? «Lascia fare. Sa che quello che vivo non è contro di lui o la famiglia, anzi. Solo ogni tanto mi chiede di non fare proprio tutto». È successo anche l’altro giorno. Amina voleva andare a Scuola di comunità, lui le ha chiesto di restare a casa, lei lo ha scritto agli amici in un sms. Risposta di Silvia: «Certo, stai lì, vedrai che puoi vivere la stessa pienezza». A sera, Amina le scrive: «È andata proprio così: ho detto sì e non ho perso niente». Come Pietro.