New York Encounter 2017

New York Encounter, la crepa da cui entra la luce

È calato il sipario da poche ore. Ma sembra tutt'altro che una pratica chiusa. La nona edizione del meeting della Grande Mela ha aperto una strada fatta di amicizia e di speranza. Ecco cosa è successo
Davide Perillo

«Un incontro fatto di incontri». I volontari sgombrano le sedie del Manhattan Pavillon, si prepara l'auditorium alla festa finale, e Angelo Sala, uno degli organizzatori del New York Encounter, racconta in cinque parole due giorni e mezzo fitti come pochi. Venticinque eventi sul palco, quattro mostre, quarantuno ospiti, 313 volontari. E un filo conduttore: la realtà. Quella che abbiamo davanti tutti i giorni, che bussa alla porta come e quando vuole, tante volte con il volto di una fatica o di un dolore, ma che ha dentro sempre una promessa di bene senza fine. "Reality Has Never Betrayed Me", la realtà non mi ha mai tradito, recita il titolo dell'edizione di quest'anno (la numero nove, nella storia della manifestazione newyorkese). È una frase - famosa - di don Giussani, ma è anche una sfida per tutti. Soprattutto oggi. «Ecco, a cose fatte possiamo dire che chi è venuto, questa sfida l'ha accettata», dice Sala: «Si sono messi in gioco, tutti. E abbiamo potuto incontrarli per davvero». Proprio come aveva augurato il Papa, che nel suo messaggio (arrivato con la firma del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato) aveva chiesto di «dare un contributo alla cultura dell'incontro, essenziale per il futuro della nostra famiglia umana».

Manhattan Pavillon, 13-15 gennaio 2017

Il via, venerdì sera, è arrivato con una testimonianza che ha toccato tutti: Richard Cabral, attore di cinema (The Counselor, A Better Life) e tv (American Crime), ma anche ex membro di una gang di Los Angeles. I primi venticinque anni della sua vita sono passati tra crack, sparatorie, carcere. Fino all'incontro che ha cambiato tutto: con padre Greg Boyle, gesuita a capo di un programma di recupero dei detenuti. «Mi ha guardato come non aveva mai fatto nessun altro», racconta Cabral commosso. Senza partire dai limiti, dagli errori. Lo sguardo di un padre. Qualcosa capace di dargli la forza di cambiare vita. Senza censure e senza sconti, «perché se sono cresciuto e posso condividere con voi la mia esperienza oggi è per quello che mi è successo». I novecento in sala applaudono, colpiti. Ma colpisce ancora di più vederlo in giro, il giorno dopo, tra gli stand del Pavillon, curioso di tutto.

Toccherà la stessa cosa a molti degli ospiti. Brian Grim, presidente della Religious Freedom and Business Foundation e già speaker all'ultimo Meeting di Rimini, non si perderà un momento della kermesse, né prima né dopo il suo intervento, in un panel che si domanda in che modo l'economia può recuperare «uno scopo veramente umano». Con lui, Joseph Kaboski, economista di Notre Dame, Paolo Carozza (giurista della stessa università e direttore del Kellogg Institute) e Carolyn Woo, presidente uscente del Catholic Relief Service (una “Caritas” americana). Si parla di sviluppo, del Papa, del gap che c'è tra la situazione reale e l'ideale richiamato da Francesco. Ma soprattutto si fanno i conti con l'esperienza personale, che affiora in risposte per niente scontate. Come quando la Woo, che negli ultimi dieci anni ha vissuto fianco a fianco con il dolore delle migliaia di persone aiutate dai progetti della sua associazione, ammette: «Sono d'accordo con quella frase di Giussani, ma non posso dire di capirla fino in fondo: in un mondo in cui c'è molta sofferenza, la domanda è più acuta».



Anche nel pomeriggio di sabato si parla di dolore, di guerra e di una umanità da difendere. Monsignor Giampietro Dal Toso, ex segretario di Cor Unum e ora segretario delegato del nuovissimo Dicastero per la Promozione integrale dello Sviluppo umano (appena nato in Vaticano), racconta di cosa vuol dire in certi contesti restare «ancorati a una Presenza». Per indicare il ruolo dei cristiani nel Medioriente martoriato parte, a sorpresa, da Miriam, la bambina irachena che era dovuta fuggire di colpo dalla sua Qaraqosh, in Iraq, eppure aveva perdonato i persecutori dell'Isis. «Questa situazione è feroce», osserva Dal Toso: «Ma per la Chiesa può essere l'occasione di capire di più la sua natura. Quando tutto crolla, bisogna tornare all'essenziale».

L'essenziale emerso anche nelle testimonianze di Dan Jusino, fondatore di Emerge - programma di recupero per i detenuti -, che sarebbe dovuto essere sul palco assieme a Steven McDonald, il poliziotto rimasto paralizzato dopo una sparatoria, trent'anni fa. Steven, invece, è morto tre giorni prima dell'Encounter. Non ha potuto raccontare perché aver perdonato il suo assalitore gli ha permesso di vivere un'esistenza piena di grazia, anche sulla sedia a rotelle. Ma è stato anche lui una presenza, in sala. E non solo nei momenti in cui lo si è ricordato.



Altri incontro di peso, al sabato, il bel dialogo tra Michael Waldstein, teologo dell'Ave Maria University (e amico da tempo della comunità ciellina americana) e un John Waters in gran forma. Hanno discusso proprio di quella frase di Giussani, assieme a José Medina, responsabile di CL negli States. È davvero così, anche in un contesto in cui ci ritroviamo tutti spiazzati, smarriti «come se vivessimo sempre altrove»? E cosa permette di allargare lo sguardo, di riconoscere la positività della realtà?

La stessa domanda che, intanto, interpellava chi, al quinto piano del palazzone sulla 18ª, visitava la mostra “I see what you see, but I see more (con le opere di sei fotografi, tra cui Tony Vaccaro e Giovanni Chiaramonte), le esposizioni sui Santi americani o sulla pedagogia di don Giussani. O chi si imbatteva in un'altra mostra, originale e potente. Il titolo è il verso di una canzone di Leonard Cohen: “There's a Crack in Everything. That's How the Light Gets In”, c'è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce. Tre schermi in una sala a mostrare il video di venticinque minuti, distillato da quaranta interviste in cui altrettante persone comuni hanno raccontato la loro vita, il momento in cui si è fatta strada questa grazia, anche attraverso il dolore.



Sabato pomeriggio era già tutto pieno. Incontri, abbracci, stand. Gente che affollava l'auditorium per assistere all'incontro tra Timothy Dolan, Cardinale Arcivescovo di New York, il gesuita Matt Malone e Claire Vouk, studentessa di college che ha raccontato come i Santi americani, su cui ha studiato, le sono diventati amici. O che si accomodava per assistere al concerto con musiche di Chris Vath (altro bel capitolo, gli spettacoli). Si è parlato anche di cibo, di lavoro (con una testimonianza di Alejandro Marius, imprenditore sociale venezuelano), del percorso sorprendente che ha portato Tom Colucci, ex pompiere, a entrare in seminario dopo l'11 settembre, e di Flannery O'Connor, riletta da Greg Wolfe.

Ma il grosso è arrivato ieri, ultimo giorno, dopo la messa celebrata dal cardinale Sean O'Malley, Arcivescovo di Boston e altro grande amico dell'Encounter. La mattina si parla prima di anziani, poi di scienza (ad alto livello, con l'astrofisico Luca Matone, che ha raccontato la caccia alle onde gravitazionali, e Polly Matzinger, che ha rivoluzionato gli studi sul sistema immunitario). Al pomeriggio, un'anteprima assoluta: la presentazione di Disarming Beauty, traduzione inglese de La bellezza disarmata, che uscirà a maggio.



A parlarne, Julián Carrón, Presidente della Fraternità di CL (e autore del libro), e Joseph Weiler, giurista di fama, ebreo, newyorkese e ospite fisso del Meeting di Rimini, che per arrivare in tempo si è fatto ventidue ore di volo da Singapore. E che parte spiegando perché, dopo un 2016 terribile tra crisi dell'Europa, terrorismo e caos migratorio, «la prima impressione è che questo libro sia un balsamo per l'anima», qualcosa arrivato «esattamente al momento giusto». Va al punto, Weiler. Spiega perché la raccolta di Carrón «ha due pubblici: si rivolge ai cristiani, ponendo la domanda sulla fede, su quale sia la sua importanza oggi, e al tempo stesso è missionario, parla della relazione con gli altri, indica qualcosa che va oltre il cristianesimo».

Carrón replica raccontando del libro, di come sia nato proprio per rispondere alle sfide del momento, per verificare «se questa crisi può essere un'opportunità per tutti e se la fede, quello in cui credo, può accettare la sfida sulla piazza pubblica o riguarda solo il mio intimo. Il cristianesimo ha ancora qualcosa da offrire o no?».



Si parla del terrorismo, del vuoto che trovano i giovani immigrati in Europa e che lascia spazio alla violenza. Weiler incalza sul ruolo della responsabilità personale, perché «sembra sia tutta colpa della società, ma non è così. E Carrón risponde abbracciando l'argomento: «Un padre, per essere tale, deve offrire al figlio un'ipotesi di vita. Noi veniamo al mondo senza istruzioni sulla vita, sul suo valore. Dobbiamo scoprirlo man mano, riceverlo». Altrimenti «siamo condannati a vivere di reazioni, mentre serve un'ipotesi di lavoro».

Spuntano altri temi: l'Europa secolarizzata, il parallelo con l'Impero romano («dove il cristianesimo è fiorito non per delle teorie, ma per la novità di vita che i cristiani portavano, per il modo in cui affrontavano le sfide di tutti», dice Carrón), la testimonianza, i valori, la famiglia. Weiler chiede se sia vero o no che CL abbia preso le distanze da politica e potere, e Carrón replica che il punto «è che concezione avere del potere: se serve alla società o a te stesso». Poi tocca all'educazione, alla scuola, alla libertà... Fino all'ultima provocazione: «Cosa vuol dire per te una presenza?», chiede Weiler. E la guida di CL risponde citando la liturgia di Natale, «l'invisibile che si è fatto visibile. Solo un incontro nel presente può far cogliere cosa sia il cristianesimo. Dall'inizio, da Giovanni e Andrea».



Tempo di svuotare la sala ed è già ora di riempirla di nuovo per il gran finale. Con Riro Maniscalco, presidente dell'Encounter, a moderare un dibattito sul sogno americano tra due giornalisti di peso assoluto: Rusty Reno, direttore di First Things ed ex docente di teologia ed etica, e David Brooks, editorialista del New York Times, volto della tv, saggista e docente a Yale. È un dialogo che spazia dalla bellezza alla «debolezza psicologica»; dalla «distrazione continua» a cui sembriamo condannati (Reno) alla paura che attanaglia soprattutto i giovani («che a vent'anni investono poco in amicizia e troppo su altre cose», osserva Brooks, e anche per questo restano fragili); dalla grazia alla libertà («non mi aspettavo di sentirne parlare così tanto in un raduno di cattolici», ammette Brooks); dalla «mancanza di solidarietà» come uno dei guai più seri dell'oggi (Reno) alla necessità di recuperare un «significato alla vita comune» (Brooks). Si sorride molto e qualcuno sobbalza sulla sedia, quando l'editorialista del NYTimes, dopo aver constatato che «ci sono pochi posti dove si parla delle cose che contano davvero», rende omaggio a modo suo alla platea di questa realtà appena conosciuta, ma che evidentemente lo ha colpito proprio perché di queste cose, qui, si parla: «Chissà, magari alla società americana servirebbe un partito di cristiani democratici...», dice ridendo. Ma è chiaro che non si riferisce solo alla politica.

«È l'ultima tappa dell'Encounter, ma è un inizio», osserva Maniscalco chiudendo la serata. Ha ragione. È l'inizio di un rapporto, di un'amicizia. Di un pezzo di cammino da fare insieme, con chi è venuto qui e vuole proseguire quello che si è vissuto in questi giorni: «Un incontro fatto di incontri», nel cuore di Manhattan.