Lorenzo e Doreen

Usa. La candela di Doreen

Gli studi in Bocconi, il primo volo per gli Usa e la scoperta che «basta la fede per vivere da uomini». La storia di Lorenzo Patelli, docente all’Università di Denver. Dove la vita «riparte attaccata solo ai fatti» (da Tracce, marzo 2017)
Anna Leonardi

Il cielo di fine inverno sopra Denver promette ancora neve; d’altronde questa è la Mile High City, la città alta un miglio, che coi suoi 1.609 metri di altitudine tiene testa al vento gelido che soffia dalle Rocky Mountains. Lorenzo Patelli vive qui dal 2011, dopo un ping pong, durato anni, tra la vecchia Europa e il Nuovo Mondo. Oggi insegna alla Business school dell’Università di Denver.

Classe 1977, di Varese, bocconiano, la prima volta che è partito per gli Usa era il giugno 2004, su un volo diretto a Los Angeles. In valigia le bozze della tesi di dottorato e un visto di sei mesi. «Avevo mandato mail ai vari dipartimenti di Economia dei migliori college americani, chiedendo di poter proseguire i miei studi sulle imprese multinazionali», racconta. «Mi rispose un professore della Southern University of California che mi chiese: “Di cosa hai bisogno?”, e io: “Di una scrivania e di un telefono”. “Ok, allora ti aspettiamo”». L’ambiente lo conquista subito. «Avevo la sensazione di essere arrivato su un altro pianeta», ricorda. «Le regole del gioco erano completamente diverse, ma soprattutto si respiravano un’energia e una serietà straordinarie. L’obiettivo del singolo aveva valore, anzi, era il vero motore di ogni progetto. E poi, mi colpiva trovare ancora vivo il sentimento che la vita è bella e un grande desiderio di amicizia».

Gli amici della comunità di Denver

Lorenzo è un Memor Domini e, quando era a Los Angeles, viveva in una casa con altri tre italiani, e un cileno, che fanno la sua stessa strada. «Lavoravano tutti come pazzi, eppure non erano centrifugati dal contesto. In loro c’era una freschezza che rimaneva intatta anche dopo dieci anni di vita americana. Lì ho visto che la fede basta per vivere da uomini. E questo non faceva altro che aumentare il desiderio di trasferirmi definitivamente». E di fatto accade così: dopo una breve parentesi all’Università di Rotterdam, in Olanda, e una lunga, al Benedictine College in Kansas, nel 2011 arriva una proposta dall’Università di Denver. La decisione di spostarsi ancora, dopo anni di peregrinazioni, non è facile. In Colorado non c’è neanche una casa di Memores Domini. Ogni tentennamento è vinto da una domanda che gli pone don Carrón durante un dialogo: «Guarda che puoi resistere in un posto e non amarlo, oppure puoi andare ovunque e innamorarti veramente del luogo a cui appartieni. Tu cosa preferisci?».
È uno spartiacque. Lui che riduceva tutto a un pragmatico “vado o non vado”, capisce che la misura è un’altra. «Così ho deciso di mollare gli ormeggi in Kansas, dove c’era tutto: professione, comunità e casa. E rimettermi per mare».

Il primo compagno di viaggio è don Giussani: «Era appena uscita la sua biografia: pagina dopo pagina vedevo come tutto in lui, anche lo stesso movimento, nasceva dai semplici fatti che viveva: il confessionale, un incontro sul treno, l’obiezione di uno studente... Soprattutto, vedevo che lui da questi fatti non si staccava: li riguardava, li raccontava ad altri, fino a quando li capiva in tutta la loro profondità. E anche io, lì, non avevo qualcosa di più sofisticato. Mi alzavo al mattino e avevo la giornata».
È un secondo spartiacque. Da cui, goccia a goccia, iniziano ad accadere alcuni incontri.



Il primo è con Doreen. Cinese, 27 anni, è in America per un master. Una mattina si presenta in ufficio da Lorenzo. È alta un metro e cinquanta, ma ha carattere. «Voleva sapere se avevo un progetto in cui coinvolgerla. Così la metto in contatto con Mike, un mio studente, l’unico di CL, per dividersi il lavoro». I due non fanno quasi in tempo a conoscersi che Doreen, avendo notato dal profilo Facebook che Mike è cattolico, gliene chiede conto. Lui accenna la cosa a Lorenzo mentre sono in seggiovia, in uno dei tanti sabati passati sugli sci. «Da bravo americano, era stato reticente ad ogni tipo di spiegazione. A quel punto gli ho detto: “Invitala!”».

La prima occasione è un ritiro di Quaresima. Doreen ci va: non ha parametri, non ha riferimenti culturali. È lontana anni luce da quello di cui si parla. Di Gesù aveva sentito parlare per la prima volta da una famiglia protestante di cui era stata ospite. Alla fine dell’incontro, Mike le si avvicina, e lei dice: «Ho capito l’argomento: è “vivere”». Passano pochi giorni e Doreen si ripresenta nello studio di Lorenzo. «Prof, ma com’è che siete così amici lei, Mike, e quelle due studentesse di Scienze politiche?». «Condividiamo una cosa che ci è accaduta. Il grande incontro della nostra vita». E mentre le parla, si gira verso la lavagna e disegna il grafico che usava don Giussani per descrivere l’Incarnazione: tante frecce che salgono verso la “x” in alto e una sola che corre verso il basso. Doreen si siede e guarda quella “x”. Lorenzo la invita a una vacanza studio.
Durante quel weekend, i ragazzi guardano insieme il video con la testimonianza di Elvira Parravicini, la neonatologa che a New York dirige un reparto di “comfort care” per i neonati terminali. Doreen quella sera non riesce ad andare a dormire. «Non avevo mai pensato alla vita in questi termini. Al valore infinito che ognuno di noi ha», dice agli amici che le chiedono della Cina e della piaga dell’aborto. «Quella sera mi sono accorto di come la fede introduce un modo nuovo di vedere le cose», spiega Lorenzo, «questo viene prima dell’essere d’accordo sui grandi temi. Lei lì non è arrivata a capire tutte le ragioni per cui l’aborto è sbagliato, ma ha cominciato a sorprendersi del fatto che la realtà è di più di quello che verrebbe da fare istintivamente con essa».



L’amicizia tra i due cresce con questo passo. Spinta dal continuo bisogno di Doreen di capire quello che vede. Come quando alcuni Memores di Los Angeles vengono a trovare Lorenzo: «Non avevo spiegato a Doreen la mia vocazione, mi sembrava ancora troppo complicato per lei». La invitano a una gita in montagna. Il giorno dopo Lorenzo tenta di chiarirle la situazione, ma lei gli dice: «Ieri vi ho guardati per tutto il giorno. Ho capito perché vivete così. È perché siete felici». Da quel momento, Doreen desidera diventare cristiana. Riceve il Battesimo durante la notte di Pasqua 2016. Lorenzo è il padrino. Lei, come tutti gli altri catecumeni, tiene tra le mani una candela accesa che ha voluto decorare con le frecce e la “x” che Lorenzo le aveva disegnato sulla lavagna.
Nei cinque anni trascorsi a Denver c’è un altro incontro fondamentale. È l’autunno 2013 quando riceve una telefonata dalla segreteria di CL di New York. Gli segnalano che in un carcere a poche ore da Denver un uomo aveva chiesto di poter ricevere la rivista Tracce. Si chiama Jim, ha 45 anni ed è in carcere da 20. Lorenzo si organizza con alcuni amici per andarlo a trovare. «Ci sono voluti mesi prima di riuscirci. C’era tanta burocrazia, essendo un carcere di media sicurezza», racconta Lorenzo. Così dopo un po’ di scartoffie e tre ore di macchina, arriva il momento del primo incontro. «Varcato l’ingresso, abbiamo subito capito che nulla sarebbe andato come ce lo immaginavamo. Non potevamo portare con noi nulla: niente libri, niente riviste, niente foto. E poi anche l’abbigliamento era sbagliato: no i sandali, no le canottiere, no i colori verde e arancione, perché uguali ai colori delle divise dei detenuti». I quattro risalgono in macchina e cercano un negozio per comprarsi dei vestiti nuovi. Alla fine resta solo poco tempo per stare con Jim. Ma lui li travolge con la sua storia: il reato, la detenzione, il ritorno alla fede, il master in Teologia preso per corrispondenza e i gruppi di aiuto che ha iniziato a tenere per gli altri carcerati. «Pensavamo di andare a trovare qualcuno che avesse bisogno del nostro aiuto e invece abbiamo visto un uomo vivo, tenuto in piedi dalla fede», ricorda Lorenzo.

Iniziano a scriversi e altri amici della comunità di Denver si organizzano per andarlo a trovare. In carcere tutto questo movimento inizia a destare curiosità. Dopo la rituale visita del sabato pomeriggio, una guardia, accompagnando i visitatori fuori dal parlatoio, borbotta: «Ma come diavolo è possibile che esistano dei giovani così buoni!».
Ma la sorpresa più grande è per Jim stesso. È cambiato ancora, da quando ha questi amici di Denver. Una sera deve rientrare in cella, e, come prevede la liturgia del carcere, è tenuto a ripetere al citofono una frase di rito: il suo nome e la richiesta di entrare in “casa”. Perché la cella lì si chiama “home”. Anche se, in tutto il penitenziario, non c’è mai stato un carcerato che abbia accettato di chiamarla così. «Jim, però, quella sera lasciò tutti ammutoliti», racconta Lorenzo. «Ma ha detto agli agenti: “Mi chiamo Jim e vado in casa”». E il motivo ce lo ha spiegato in una lettera: «Perché la libertà è sentirsi a casa in ogni circostanza».
Jim sei mesi fa è uscito di prigione, ha ottenuto i domiciliari. Ora sta a casa di sua madre, a qualche minuto di macchina da Lorenzo. «Andiamo a trovarlo spesso. Quando ci ha scritto che usciva, sono stato assalito dall’ansia. Pensavo che avremmo dovuto iniziare ad aiutarlo col lavoro, coi soldi, con tutto. Ma, come è accaduto durante il nostro primo incontro, è stato chiaro che il punto non è risolverci i problemi, ma continuare a essere uno per l’altro la possibilità che il Mistero ci leghi a Lui. E questo lo ha detto Jim nella lettera scritta prima di uscire: “Ciò di cui ho più bisogno me lo avete già dato, e cioè la coscienza che c’è qualcuno che mi aspetta fuori; so che sono voluto bene”».



La possibilità di voler bene è qualcosa che ha una radice lontana nella vita di Lorenzo. Risale ai tempi dell’università. All’epoca era fidanzato con una ragazza di Varese. Scappava da Milano il venerdì pomeriggio e rientrava, immalinconito, il lunedì mattina. «Per i cinque giorni che rimanevo in università, tenevo le distanze». Poi una sera del suo terzo anno, mentre rientrava in appartamento, accadde qualcosa che lasciò un segno. «I miei compagni dormivano tutti. La casa era immersa nel buio. Solo un mio amico era sveglio, era in un angolo della sala a studiare. Mi salutò con un sorriso e mi disse, indicando le stanze dei miei amici: “Ma perché loro, che interessano così tanto a Cristo, a te non interessano?”» Lì per lì la cosa lo ferì, poi cominciò a sembrargli una provocazione interessante, ma comunque troppo ideale. «Nel corso degli anni mi sono accorto che quella frase era qualcosa che aveva cominciato a starmi addosso, mi interrogava. Mi chiamava nelle cose che facevo».

Oggi, anche se il Natale è passato da un pezzo, è la frase di san Bernardo del Volantone di Natale di CL, «Volle venire colui che si poteva accontentare di aiutarci», a fare da apripista per tutto ciò che accade nelle giornate di Lorenzo. Poche settimane fa, una mail di uno studente del primo anno, Steve, gli chiedeva di posticipare la consegna di un compito: doveva tornare a casa, in Arizona, dal padre malato terminale. «Gli ho risposto: “Steve, non ti preoccupare, fai quello che la vita ti chiede. Prego per tuo papà e risentiamoci”. Lui mi ha risposto subito: «“Le sue parole significano più di quanto lei creda”. E aveva ragione! Perché io non so veramente come posso essere utile alle persone che incontro. Non posso avere una strategia». E di questo Steve si accorge, perché dopo il funerale del padre, la prima porta a cui bussa è quella di Lorenzo: «Gli ho detto una cosa sola: di venire sempre a lezione. Anche se era giù, anche se non era preparato. Perché sia io che lui per vivere abbiamo bisogno della realtà. Cioè uno dell’altro. È lì che accade tutto».
Proprio come indica la “x” sulla candela di Doreen. Lei oggi chiede spesso agli amici: «Ma se tornerò in Cina, basterà la memoria di quello che ho vissuto?». Lorenzo la prima volta ha temporeggiato, la seconda le ha detto: «No, non ti basterà. Dio non cambia metodo. Verrà a cercarti ancora dentro una storia particolare».