Quaraqosh, chiesa dell'Immacolata Concezione

Nel ground zero del Califfato

Nei villaggi "fantasma" intorno a Mosul, insieme ai cristiani cacciati dall'Isis che tornato a visitare le loro case. Passando per il monastero più antico dell'Iraq, dove qualcuno non è mai fuggito... (le altre storie su Tracce di Maggio)
Fernando De Haro

Seconda puntata (la prima la trovate su Tracce di maggio) di un reportage tra i cristiani della Piana di Ninive. Li abbiamo accompagnati durante le visite di poche ore nelle loro case, da cui sono stati costretti a fuggire nel 2014.
La possibilità di tornarci a vivere è lontana, perché il pericolo resta alto. Dopo l'offensiva dell'esercito iracheno dell'ottobre scorso, i villaggi sono stati liberati, ma il fronte è vicino e si combatte ancora.



QARAQOSH
Yohanna Towaya rovista fra i suoi libri. Dalle finestre entra un vento gelido. Forse il freddo è dentro il corpo. Forse il freddo viene dalla distruzione alla quale non ci si abitua, dalle case senza anima né vita, dal fatto che tutto è sporco, con questa polvere sinistra che lascia la guerra.
Yohanna è un nome siriano. Questo professore di Diritto commerciale, che nel tempo libero si occupava della fattoria di famiglia, a sessant’anni ricomincia a vivere per la terza volta. Fuggito da Mosul per le minacce di Al Qaeda, è scappato da Qaraqosh poche ore prima che arrivasse il Daesh. Ed è tornato a cominciare a Erbil.

Yohanna Towaya davanti alla sua casa a Qaraqosh

«Le prime cose che ho detto ai miei figli e ai miei fratelli quando siamo arrivati in Kurdistan senza un soldo, sono state che dovevamo dimenticarci del passato, che non potevamo lamentarci di ciò che avevamo perduto, che dovevamo ricominciare da capo», dice. Non si lamenta davanti a quella che era stata la sua biblioteca: prende da un mucchio un libro sull’arte cristiana della Piana di Ninive, lo pulisce e ce lo regala. Le giornate con Yohanna, che ci accompagna da diversi giorni, sono di tredici ore. Non si ferma per mangiare. Solo la domenica si ferma un’ora per assistere alla Messa.
«Sono stato negli Stati Uniti a raccontare quello che ci è accaduto. La comunità internazionale ha ragione quando definisce quello che è successo alla minoranza yazida un genocidio», spiega, «ma non si può negare che a noi è accaduto lo stesso. Le Nazioni Unite non vogliono riconoscere il nostro genocidio perché sostengono che avevamo la possibilità di rimanere nelle nostre case pagando l’imposta islamica. Ma che possibilità è questa? E poi non era affatto sicura, l’unica scelta che avevamo era convertirci all’islam».
Yohanna non si lamenta, non si arrabbia, ha una tenacia ferrea. «Non possiamo tornare nelle nostre case se non c’è sicurezza. E la battaglia che avrà luogo dopo quella di Mosul è già cominciata: i curdi vogliono restare nella Piana di Ninive, gli sciiti vogliono restare nella Piana di Ninive, e gli americani, come sempre, come nel 2003, non hanno un piano per il giorno dopo».

Il cimitero di Qaraqosh

Yohanna fa di tutto per il suo popolo, ma è molto critico verso ciò che sta succedendo nei campi dei rifugiati. «Siamo cambiati da quando siamo scappati da Qaraqosh. Quando vivevamo là, lavoravamo, studiavamo. Adesso i soldi facili che arrivano dalle Chiese e dalla comunità internazionale ci stanno facendo diventare pigri. Io l’ho detto ai Vescovi, che non devono distribuire a tutti, ma solo a quelli che hanno più bisogno. Quello che bisogna fare è trovar loro un lavoro. Siamo pagati poco, ma se non lavoriamo non abbiamo futuro. Non si possono educare i ragazzi se costruiamo un sistema di assistenza permanente».

Entriamo in una piccola postazione militare e Yohanna ci presenta Jaward Habbed, il generale che comanda l’Unità di protezione della Piana di Ninive, una milizia cristiana formata da cinquecento uomini che svolge soprattutto mansioni di sicurezza, sotto la protezione dell’esercito iracheno. Il loro valore è solo di testimonianza: «Noi siamo qui per proteggere i cristiani, perché nessuno si occupa di loro». Poco può fare un pugno di uomini in una regione nella quale si sono attestate quasi tutte le potenze del Medioriente. Yohanna viene chiamato dai suoi amici musulmani, quelli che lo aiutarono a scappare una volta. Gli dicono che sono andati a comprare pacchetti di sigarette per celebrare la liberazione del loro quartiere. Sullo sfondo si sente l’eco dei combattimenti.

Ci incamminiamo verso il cimitero di Qaraqosh. Una pattuglia irachena non vuole lasciarci passare. È l’unico momento in cui Yohanna alza la voce. Alla fine ottiene di andare. Le tombe sono saccheggiate, le croci distrutte. Alcuni corpi sono stati estratti dai loculi. Yohanna si ferma davanti alla tomba di suo padre e prega per qualche minuto.
Yohanna prega; Yohanna vuole che la sua gente lavori; Yohanna non guarda al passato; Yohanna vuole un futuro. Yohanna è un cristiano forte. Yohanna è un cristiano.


BATNAYA
Sulaka ha gli occhi azzurri. Cammina tra i resti di quella che fu la sua casa. Il soggiorno è bruciato, i miliziani del Daesh lo hanno utilizzato come dormitorio. Tra le macerie c’è un grande rosario che era appeso a una parete: lo raccoglie da terra e lo bacia. Mi spiega che nessuno usciva di casa senza prima dargli un bacio. Sul letto della camera di uno dei suoi figli c’è della biancheria sporca. Non osiamo domandargli se è loro o se l’hanno lasciata quelli del Califfato. Ci mostra ciò che rimane del suo mulino e del granaio. Viene spesso da Al Qosh, dove è rifugiato con tutta la sua famiglia, qui a Batnaya, uno dei villaggi cristiani che era stato conquistato dal Daesh e che è stato liberato da poco.

Batnaya, a venti chilometri da Mosul

Siamo venti chilometri a nord di Mosul, nell’ultimo villaggio prima del fronte. Piccole bandierine rosse segnano i luoghi dove ci sono bombe ancora da disinnescare. Entrando in questa località, in cui vivevano 800 famiglie cristiane, ci invade un silenzio profondo. Da un pick-up registriamo immagini per il nostro prossimo documentario. Non riusciamo a dire una parola. La furia della guerra, la volontà di distruzione sistematica dei seguaci dell’Isis aleggia su ogni cosa, ovunque poggi lo sguardo. Quasi nessuna casa è rimasta in piedi. Molte sono ridotte a montagne di macerie. Qua e là, scritte a favore del Califfato. Le innumerevoli tracce dei proiettili sui muri semidistrutti dicono di combattimenti feroci, casa per casa, metro per metro.

La presenza dell’Isis è ancora percepibile fisicamente, malgrado il tempo passato. Un’automobile fatta esplodere davanti al portico di una casa, resti di incendi in ogni angolo. Distruzione disordinata, improvvisata. Il limpido sole invernale sembra l’unica forza di redenzione tra i ferri contorti, i detriti e una solitudine impregnata di ricordi opprimenti. Vi sono molti lancia-proiettili artigianali abbandonati in tutta fretta, e bossoli in strada. E poi i crateri delle bombe americane e i tunnel utilizzati dai terroristi come rifugi.

La statua di Maria nella chiesa di San Koriakos, A Batnaya

Batnaya è il ground zero del genocidio della Piana di Ninive. La chiesa di San Koriakos, orgoglio degli abitanti, è ancora in piedi. Le sue colonne di marmo hanno resistito all’occupazione. Ma i segni della profanazione sono visibili ovunque. Un’immagine di Maria ha le mani amputate e un proiettile nel cuore. L’abbiamo baciata prima di proseguire. Le bibbie bruciate e distrutte giacciono per terra. Nel luogo dove si trovava una delle croci che dominava la navata, decine di segni di proiettili. La bandiera nera del Califfato sventolava sull’abside. Il giorno della liberazione il parroco ha ricollocato la croce. In una delle cappelle laterali ci sono scritte contro i cristiani, in un perfetto tedesco, opera di un combattente del Daesh sicuramente arrivato dall’Europa.

Sulaka parla in aramaico. I suoi occhi azzurri appaiono tranquilli in mezzo alla desolazione. Vuole tornare, anche se quattro dei suoi quindici figli sono emigrati in Germania. Ma lui vuole restare. Quando cala il sole rientriamo ad Al Qosh, il villaggio vicino dove è rifugiato. Ha affittato una casa di due piani. Ci invita a cena. E i suoi ci servono come prìncipi. Tutta la famiglia si riunisce. Non c’è tristezza sui loro volti. L’ospitalità è sproporzionata, sacramentale. Sul tavolo hanno messo più di venti portate, e non vogliono che ce ne andiamo senza avere assaggiato tutto.
Sulaka mi domanda, attraverso l’amico che fa da interprete, che cosa me ne pare di quello che ho visto a Batnaya. Gli rispondo che ho la sensazione di essere stato in un inferno, che fortunatamente è rimasto vuoto. E rimango con la voglia di dirgli che lui e i suoi sapranno trasformarlo in un luogo di vita. Uno che accoglie così lo straniero, che gli dà da mangiare in questo modo, che gli apre così la sua casa è colui che potrà ricostruire, ricominciare, far sì che il male non sia irrevocabile. Gli occhi azzurri di Sulaka brillano quando ci salutiamo. Ci spiega che in aramaico il suo nome significa Assunzione.

Uno che accoglie così lo straniero, che gli apre così la sua casa, è colui che potrà ricostruire, far sì che il male non sia irrevocabile

MAR MATTAI
Il Vescovo Yousif Ibrahim non è molto alto. Porta la veste e il copricapo dei monaci orientali. Durante le prime due ore della nostra conversazione sembra distante, sta a lungo in silenzio. Cambia dopo che abbiamo mangiato delle deliziose cipolle fresche dell’orto del monastero insieme a un po’ di stufato. Apre un pacchetto di sigarette, ne accende più d’una e si appassiona parlando di calcio e di politica.
Questo ingegnere che un giorno scelse la solitudine è monaco nel monastero più antico dell’Iraq. La sua fondazione risale al IV secolo. Mattai (Matteo), il fondatore, veniva dalla Persia e si stabilì con un gruppo di eremiti in cima a una montagna di roccia chiara, sul limitare della Piana di Ninive. Mattai incontrò per caso un membro della famiglia reale dell’epoca, che si convertì. Il re giustiziò il convertito, ma alla fine a palazzo finirono per far ricorso a Mattai e alle sue doti di medico. Dal re in giù, tutti accolsero la nuova fede che era giunta loro attraverso gli eremiti che scavavano le loro dimore nella roccia.

Il Vescovo Yousif Ibrahim

Dal IV secolo in poi, i pellegrini sono venuti in questo luogo santo, che è stato anche luogo di accoglienza per i rifugiati durante la persecuzione del Daesh. Dopo le prime vittorie del nuovo Califfato, i monaci accolsero decine di famiglie. Ma quando il fronte si spostò e i terroristi si assestarono a quattro chilometri da Mar Mattai, tutti fuggirono. Tutti, meno i monaci. Misero in salvo i loro archivi e si prepararono al peggio. Questa volta il peggio non è arrivato, come invece era successo altre volte.
Nella sua storia, il monastero ha subito attacchi di curdi, persiani, mongoli e molti altri. Yousif Ibrahim ci mostra i resti di un antico muro di difesa, e l’altura da cui gli assalitori lanciavano grandi pietre. Dietro la terrazza del monastero, che è come scavato nella roccia, si stende una seconda fila di montagne, e dietro di esse Mosul. Sino a non molto tempo fa, si poteva sentire l’eco dei combattimenti.

Sono le quattro del pomeriggio. Suona la campana. È l’invito alla preghiera. Due monaci, solo due monaci lì dove ce n’erano centinaia, pregano in aramaico in tono retto. Gli altri tre che fanno parte della comunità non sono arrivati in tempo. L’incenso sale verso una cupola del X secolo scavata nella roccia, è quel poco di antico che le successive riforme hanno conservato. Chissà se questa sarà l’ultima persecuzione dopo quattordici secoli.
I due monaci sono i testimoni di una fedeltà e di una lunga tradizione che può essere sul punto di estinguersi. Mentre ci salutiamo, il Vescovo Yousif Ibrahim sta trafficando per perfezionare l’installazione della rete wi-fi. Ci spiega che in questo momento è meglio seguire il Barcellona che il Real Madrid.