Al settore 5 della Cañada Real, Madrid

Andare dai poveri. I venerdì di Bocatas

Da vent'anni, ogni settimana, portano cibo ai tossicodipendenti della periferia più malfamata di Madrid. Hanno iniziato in tre. Ora sono decine di giovani. Che agli ultimi, ragazzini rom compresi, offrono la loro amicizia
Elena Santa María

È venerdì sera. Si accendono i fornelli nella cucina della parrocchia di Santo Tomás Apóstol, a Madrid. Alcuni volontari della parrocchia preparano la cena che di notte i bocateros porteranno a destinazione. Cominciano ad arrivare alle otto, qualcuno direttamente dall’università o dal lavoro. Saremo una trentina. Si comincia a caricare il furgoncino: cibo, vestiti, torce… Quando tutto è pronto, una fila di auto si mette in marcia verso la Cañada Real Galiana, il mercato della droga più grande d’Europa, a pochi minuti da Madrid. Lì ad aspettare, c’è un gruppo di zingarelli: non mancano mai all’appuntamento del venerdì. Si salutano abbracciandosi. «La settimana scorsa non sei venuto», dice un ragazzo gitano a uno dei bocateros, mentre un altro comincia a dire a tutti che quella mattina ha ottenuto la patente. È felicissimo.

Queste scene si ripetono un venerdì dopo l’altro dal 1996. Da quando è nata la caritativa Bocatas, che significa “panini”. A quell’epoca, infatti, tre amici, Jesús de Alba (detto Chules), Ignacio Rodríguez (detto Nachito) e Jorge Catalá, hanno cominciato a portare panini ai mendicanti della zona di Azca. Poi si sono trasferiti a Barranquillas, che prima di essere smantellato era il centro della droga della capitale, e infine qui, al settore 5 della Cañada Real, un’antica zona di passaggio delle greggi, a Valdemingómez. Ci vivono illegalmente 60mila persone. L’unica strada della cittadina, intorno alla quale sono cresciute le baracche, è un andirivieni di cundas, i “taxi della droga” che fanno il tragitto dalla rotonda di Embajadores, nel centro di Madrid, fino a Valdemingómez per 5 euro a persona. Prima di comprare la droga, qualcuno si ferma al chiosco di Bocatas.



Appena arrivati, i bocateros montano una specie di ristorante all’aperto: tre, quattro tavole allineate accanto a una chiesetta di mattoni. Stasera hanno portato pasta al pomodoro, panini, una macedonia buonissima, cioccolata e succhi di frutta. Su un altro tavolo distribuiscono i vestiti. Pian piano, arrivano i tossicodipendenti: qualcuno prende timidamente il cibo e se ne va, forse non mangia da giorni. Altri vengono solo per chiacchierare. Altri ancora arrivano per la prima volta. Anche tra i bocateros ogni venerdì c’è qualche persona nuova: alcuni universitari che seguono un professore, un compagno di lavoro, l’amico di un amico, ragazzi che cercavano un modo per essere utili e hanno trovato questo, credenti, non credenti, amici da sempre o appena incontrati.

Tutto, del resto, è nato da un’amicizia. E ventun anni dopo continua a essere il solo metodo, come spiega Chules, responsabile di Bocatas: «Integrare tossicodipendenti e giovani di etnia gitana nella vita e nell’amicizia che già viviamo, perché con questa compagnia possano inserirsi nella società. Quel che ci unisce non è un “volontariato premeditato”, ma una riconoscenza per la vita e un’amicizia che si esprime in modo potente in questo dono di sé. È questo che chiamiamo “caritativa”. A Bocatas non facciamo volontariato, anche se investiamo il nostro tempo gratis, ma veniamo per imparare ad amare in un modo che corrisponde ai nostri reali desideri. Dedicandoci a questi nostri amici, oltre all’aiuto - sempre insufficiente - che possiamo offrire loro, impariamo un modo di vivere».
Iñaki e Nacho sono due ragazzi delle Canarie che studiano a Madrid, vengono qui da qualche mese. «Io vengo perché mi fido di Iñaki che mi ha invitato», dice Nacho: «Bocatas è diventato un momento essenziale della settimana. Mi costa sempre fatica venire, ma non mi pento mai, perché vedere questi ragazzi e il loro bisogno mi ricorda il mio bisogno. Torno a prendere coscienza che la vita è una cosa seria».


«Bocatas è diventato un momento essenziale della settimana. Mi costa sempre fatica venire, ma non mi pento mai, perché vedere questi ragazzi e il loro bisogno mi ricorda il mio bisogno. Torno a prendere coscienza che la vita è una cosa seria»

Alcuni, i più nuovi, stanno dietro i tavoli e servono il cibo. Tre ragazzi sono venuti per la prima volta, con un professore. «Cercavamo un’occasione per essere utili», dice uno di loro, «e siamo qui. Aspettando di vedere cosa succede». Altri quattro amici dell’Università Francisco de Vitoria sono venuti per la seconda volta. Lavorano sorridenti e attenti a ogni cosa. «È più buona col formaggio, ne vuoi un po’?», dice Marta a chi va via di fretta. Una sua amica vigila che a nessuno manchi qualcosa. Impilano i tupperware e li offrono a quelli che vogliono il bis. I ragazzi intanto raccolgono la spazzatura. «Avevo voglia di tornare: sono molto contenta qui. Non so spiegarlo, ma mi sento a mio agio», dice Marta. E glielo si vede negli occhi.

Un bambino zingaro, di una decina d’anni, si avvicina ad Ana e Lucía: vuole il telefonino per insegnargli un nuovo gioco. Senza esitare, glielo danno. «Siamo amici. È molto semplice», spiega Lucía: «Ci hanno invitato a casa loro, che è là (la indica), e sono venuti a casa nostra. È un rapporto normale». Ana aggiunge: «Io ho cominciato a venire perché provavo invidia per quello che mi raccontavano di Bocatas». Alla conversazione si uniscono due ragazzi zingari. Uno di loro, Antonio, mi guarda: «Tu chi sei? Non sei mai venuta, vero?». Poi aggiunge: «Se sei amica di quelli di Bocatas, sei amica mia, anche se non ti conosco».



Il rapporto con i ragazzi gitani è cominciato cinque anni fa. «È una delle cose più belle di Bocatas», racconta Chules: «Gli zingari e i tossicodipendenti non si mescolavano tra loro e all’inizio i gitani non ci volevano, erano violenti. Ma non abbiamo ceduto. Poi è successo che i più giovani tra noi, Lucía, Jaime, Cabello… hanno cominciato a parlare con loro e, poco a poco, sono diventati amici. Ora tutti i venerdì sono qui insieme, zingari e tossicodipendenti, come la cosa più naturale del mondo».

Poco distante Joaquín e Marco, volontari da molti anni, stanno parlando di Miguel, che grazie all’incontro con loro ha smesso con la droga e sta ricominciando a vivere. Mi mostrano dal cellulare una foto: «Questo è Miguel». La guardano in silenzio. «È una foto importante», mi spiega Joaquín: «Sono lui e suo figlio, e tutti e due sorridono. Non lo vedeva da anni. Significa che ha ricostruito la sua vita, e che è contento…». I gioielli della corona. Quelli di Bocatas chiamano così le persone uscite dalla droga. Sono il loro più grande tesoro. C’è Sandokan, che li ha conosciuti a Barranquillas, dove andava a bucarsi, e ha deciso di rinunciare all’eroina. È stato il primo, ma l’elenco si sta allungando: Magdalena, il Juli, Sebas, il Meji, Harry Potter… Li hanno aiutati a trovare un lavoro dignitoso, a cercare casa (o li hanno accolti nella propria), li hanno accompagnati dal medico, a scuola guida, a riprendere i contatti con le famiglie. Vanno insieme in montagna, a cena, in vacanza, festeggiano il Natale, i compleanni. «Il metodo è solo questo», dice Chules: «Condividere con loro la vita, le necessità, i desideri, le difficoltà, e offrire la nostra amicizia, perché, sentendosi accompagnati, possano rifarsi una vita sana e recuperino la speranza e la voglia di vivere».

Passione per l’uomo”. È il motto di Bocatas che campeggia nel sito, dove si legge: «È semplice! Passione per l’uomo; non passione per le sue attitudini, l’intelligenza e il successo. Che grande regalo è essere amati semplicemente per il fatto di essere uomini, e non per quello che fai o che non fai più! Chi non desidera essere amato così? In un mondo in cui sei valutato solo per i tuoi successi e capacità, e sei condannato per i tuoi limiti ed errori, si è introdotta una novità. E per noi questo è più evidente a Bocatas: un luogo in cui nessuno deve fingere. Il drogato non deve smettere di essere un drogato. Il gitano non deve smettere di essere gitano. E io non devo mettere da parte la mia pochezza».

«Una delle cose più spettacolari è vedere come i tossicodipendenti si avvicinano a noi, grati, quando preghiamo con loro. Riconoscono di avere questo bisogno di infinito, che è mille volte più potente della droga»

A metà della distribuzione del cibo, tutto si ferma: si recita l’Angelus. «Per riconoscere Cristo e seguirlo non è richiesta nessuna condizione», come dice Chules: «Solo per il fatto di essere uomini, ogni cellula e atomo del nostro corpo ha sete e desiderio del Tutto. Dio agisce e si serve della nostra carne per manifestarsi anche nell’inferno di un sobborgo di periferia dove si vende droga. Una delle cose più spettacolari è vedere come i tossicodipendenti si avvicinano a noi, grati, quando preghiamo con loro. Riconoscono di avere questo bisogno di infinito, che è mille volte più potente della droga».



Dopo aver servito il cibo per due ore, chiacchierando con i più grandi e giocando con i piccoli, tutti si mettono in circolo, per riflettere sul perché fanno quel che fanno, un venerdì dopo l’altro, e metterlo nelle mani del Signore. Prima di andare via, raccolgono tutto con la stessa cura con cui lo hanno disposto - non si getta nulla di ciò che avanza -, caricano il furgoncino, spengono i fuochi e si danno l’arrivederci alla settimana seguente.

In macchina, uno degli universitari racconta di essersi avvicinato a una ragazza per abbracciarla, ma uno zingaro non ha capito il suo gesto e ha cominciato a insultarlo. «Ci sono rimasto male, perché è un mio amico e non mi aveva mai trattato così. Non voglio fare a botte con lui…». Nachito, che guida, lo ascolta con tenerezza. La sera finisce con una cena insieme al Burger King.

Tornati a casa, arriva un messaggio di Chules: «È meraviglioso che la risposta al dilemma umano, alla fatica, al desiderio e alla sofferenza, all’affetto, alla società o alla politica… si sia presentata al mondo in una forma marginale, passando così inavvertita nel mondo di oggi, “passando attraverso uno dei tanti”». Questo è Bocatas.