Miryam con la sorella Zumoruod

«Il nostro rifugio»

Riproponiamo, da "Tracce" di giugno, la storia di Myriam. Stupì il mondo perdonando gli uomini dell’Isis. Dopo tre anni, lei e la sua famiglia sono ancora profughi. Raccontano la vita nel campo. Le prove. E una decisione: restare nella loro terra, l'Iraq
Maurizio Vitali

La piccola Myriam era da pochi mesi rifugiata con la sua famiglia a Erbil, nel campo profughi di Ankawa, quando stupì il mondo con l’intervista televisiva in cui perdonava i persecutori dell’Isis per amore di Gesù. Qaraqosh, la città dove vivevano, era stata presa d’assalto - nel 2014 - e devastata dagli jihadisti, causando il massacro della popolazione (cristiana) e l’esodo di quanti riuscirono a fuggire.

Nel video di quell’intervista con Sat7, la tv cristiana del Medioriente, Myriam racconta di non essere arrabbiata con Dio per quello che è accaduto: «Lo ringrazio, perché si occupa di noi. Ci ama tutti. Non solo me, Dio ama tutti». Anche gli uomini dell’Isis: «Sono solo triste che ci hanno cacciati dalle nostre case. Perché l’hanno fatto?». Desidera tanto rivedere la sua amica Sandra, di cui in quel momento non sa più nulla: «Ci volevamo bene, ci perdonavamo sempre». «Spero tornerai presto a casa», le dice il giornalista. Miryam risponde seria: «Se Dio lo vuole. Non quello che vogliamo noi, ma quello che vuole Lui, perché Lui sa».

Ora Qaraqosh è ufficialmente liberata. Myriam e i suoi, però, sono tuttora nel campo profughi. Pochissimi sinora vi hanno fatto ritorno. Il fatto è che, sì, a ottobre dello scorso anno l’esercito iracheno è entrato in città mettendo in rotta i guerriglieri jihadisti. Ma Qaraqosh rimane molto insicura e pressoché invivibile: sui paesi attorno sventola ancora la bandiera del Daesh; terroristi e cecchini si annidano ancora tra le rovine degli edifici; luce ed acqua sono state ripristinate, o forse è meglio dire rabberciate, ma mancano del tutto i servizi essenziali, comprese scuole e ospedali.

Myriam adesso ha quasi tredici anni, frequenta la scuola a Erbil, a due-tre chilometri dal campo, molto meritoriamente tenuta in funzione dalle suore domenicane. Anche la sorellina di Myriam, Zumoruod, va nella stessa scuola. Mamma Alice e papà Waleed cercano sempre qualche lavoretto - occasionale, altro non c’è - per rastrellare qualche dinaro da aggiungere ai 10mila mensili forniti, ma ancora per poco, da World Vision International. Diecimila suona tondo, ma è l’equivalente di 8 dollari. La mamma, nell’ambito della scuola delle suore, fa qualche traduzione, ma è ben poca cosa.

La famiglia di Miryam nella casa-container a Erbil

Il cibo c’è, fornito dall’organizzazione per i rifugiati. C’è l’alloggio: un container, sì e no di sei metri quadri, in cui vivono in quattro, e sono ancora fortunati perché il più delle volte nello stesso spazio ci vivono in sei. C’è anche la tv, quando non va via l’elettricità. E una stufetta a kerosene, quelle che puzzano di aereo, con cui scaldarsi un po’ negli inverni che sono rigidi; in compenso le estati sono da 50 gradi. C’è anche la possibilità di connettersi ad internet. Ed è così che abbiamo potuto comunicare, con l’aiuto di Giacomo Fiordi, giovane amico della famiglia di Myriam, essendo lui andato più volte a trovarli di persona quando era ad Erbil come operatore di Avsi, ed avendo mantenuto regolari contatti.

Eccoli inquadrati dalla videocamera del pc. Quattro visi belli e sorridenti. In una scatola di lamiera, modestissima ma non squallida: un orologio alla parete e un mazzo di fiori rossi disegnati segnalano cura dell’ordine e gusto del bello. In mezzo a una vita dura e difficile. Myriam ha lo stesso incantevole faccino dell’intervista virale, la stessa voce dolce, gli stessi occhi profondi e buoni. La lontananza da casa e dalle amiche d’un tempo le stringe il cuore di amarezza. La sorellina le somiglia moltissimo. È contenta perché venerdì e domenica non si va a scuola, così «oggi mi riposo e gioco, i compiti li farò domani». Non sei felice di andare a scuola? «Non sempre. Spesso c’è molto baccano e a volte ci danno troppi compiti». E non giochi? «Sì, con mia sorella. Specialmente a volley».

A scuola, a un paio di chilometri dal campo.
È contenta perché venerdì e domenica non si va a scuola, così «oggi mi riposo e gioco, i compiti li farò domani». Non sei felice di andare a scuola? «Non sempre. Spesso c’è molto baccano e a volte ci danno troppi compiti»

Alice ha il vigore amoroso di una mamma nel pieno dei suoi quarant’anni. Waleed è un impasto di tenerezza e determinazione. A sessant’anni, prova stanchezza per «questa situazione in cui siamo senza soldi e senza lavoro», s’incendia di indignazione quando pensa ai non pochi furbi corrotti che «hanno speculato sull’aiuto ai cristiani per far soldi», ma gode come un ragazzino degli incontri e delle vere amicizie. Non sono puri spiriti, queste persone, né gente da immaginetta, occhi al cielo e collo reclinato. Sono gente di fibra forte, ciascuno con il suo temperamento, pregi e umani limiti, cui le asperità della vita hanno raschiato la pelle e l’anima, e i dolori esaurito le lacrime. Nel cuore di Dio, in nessun altro luogo, è il loro vero rifugio. Si affidano a lui in tutto. Nulla gli ha sbriciolato la fede né deturpato il sorriso.

La pallavolo è il gioco preferito di Myriam. Nel campo profughi c’è qualche spazio attrezzato per praticarla. «Ringrazio il Signore tutti i giorni perché non ha permesso che ci uccidessero e ci dà di che vivere grazie alle persone che ci aiutano. Adesso abbiamo anche la luce e l’acqua corrente, e così stiamo meglio». Come sono le tue giornate? «Mi alzo, dico le preghiere, vado a scuola: di solito mi portano con la macchina e spesso torno con la mia mamma che fa dei piccoli lavori a scuola. Poi gioco con mia sorella, leggo, studio e faccio i compiti... Vado alla messa tutte le volte che c’è (in Quaresima tutti i giorni, ndr.) e prendo il pane di Gesù».

Il dialogo via internet con Tracce

E la tua amica del cuore, Sandra, l’hai più ritrovata? «Sì, l’ho vista una volta in televisione, e poi qualche volta l’ho sentita al cellulare. Adesso so che è in Francia (la sua famiglia è emigrata e vive nei pressi di Strasburgo, ndr.) e non è facile metterci in contatto. L’ultima volta è stato due mesi fa. Ciò mi dà molto dispiacere».

Alice ci mostra sorridendo la pizza che sta mettendo in tavola. Non sembra male, la pizza. Anche se avrebbe preferito cucinare come sa fare lei briani o dolma, i suoi piatti iracheni preferiti. È contenta di aver potuto fare qualche traduzione - «grazie a Dio» - anche se questa è l’ultima settimana di lavoro. Speri di poter tornare presto a Qaraqosh? «Desidero con tutto il cuore tornare a casa nostra, ma non è possibile soprattutto perché c’è troppo pericolo, e vivo con la paura nel cuore per le nostre figlie. Qui Myriam e Zumoruod possono andare a scuola ed essere al sicuro, e per me come madre questa è la cosa più importante». Molti altri esuli sono andati via dal campo. «Sì, ma quasi nessuno per tornare a Qaraqosh: sono emigrati all’estero. In ogni caso qui siamo sempre in 5-6mila persone, perché quando un container viene lasciato libero, subito arriva qualche famiglia sfollata a Erbil in rifugi di fortuna invivibili o in alloggi che costano tantissimo». E come sono le relazioni con i vostri compagni di campo? «Molti provengono come noi da Qaraqosh e con loro è più facile incontrarsi, comunicare, condividere i problemi. Con famiglie di altri posti i rapporti sono meno stretti. In generale, andiamo abbastanza d’accordo, qualche volta capita di litigare. Poi però ci ritroviamo a messa insieme, riuniti da Gesù che ci vuole tutti fratelli. Anche la Prima Comunione cui molti dei nostri figli si stanno preparando è una grazia per tutti noi. Le famiglie stanno condividendo il cammino di avvicinamento e celebreranno il Sacramento insieme».

Durante l'intervista con Sat7, la tv cristiana del Medioriente, tre anni fa
«Desidero con tutto il cuore tornare a casa nostra, ma non è possibile soprattutto perché c’è troppo pericolo, e vivo con la paura nel cuore per le nostre figlie. Qui Myriam e Zumoruod possono andare a scuola ed essere al sicuro, e per me come madre questa è la cosa più importante»

Waleed è alle prese con il problema di ottenere i passaporti per essere libero di decidere se emigrare. «Ho preparato tutti i documenti, domani presento la domanda e poi... dobbiamo pregare il Signore che tutto vada a buon fine». L’Italia sarebbe meta di un viaggio e di incontri, non la terra dove ricominciare una vita. Waleed non sa se e quando potrà rientrare a Qaraqosh, ma di sicuro vuole rimanere in Iraq. Nella sua città vorrebbe tornarci per un sopralluogo, non appena avrà il permesso necessario delle autorità, a dare un’occhiata alla casa, che «è in piedi, non è stata bombardata, ma saccheggiata di tutto». Andare all’estero, è escluso. Dopo la “famosa” intervista di Myriam, Waleed è stato contattato da mezzo mondo per decine di interviste ed ha ricevuto altrettante offerte per sistemarsi negli Usa, in Canada, Austria, Francia. Non ha mai raccolto: sta attaccato alla sua terra e alla sua storia; e sente di dover obbedire a Dio che, attraverso quelle interviste, «mi ha indicato il compito di raccontare la reale situazione della mia gente perseguitata».

Di chance, Alice e Waleed ne avrebbero senz’altro. Sono entrambi colti, con ottime esperienze di lavoro, condotte in un Paese che prima della guerra, come anche la Siria, era tutt’altro che sottosviluppato e retrogrado. Lui veterinario, lei ingegnere agrario. Imprenditori titolari di un’azienda agricola d’avanguardia con una ventina di dipendenti, e una bella casa padronale di 300 metri quadrati, finché il devasto provocato all’economia irachena dalle sanzioni li ha costretti a chiudere. Comunque hanno proseguito poi a lavorare come dipendenti in ruoli importanti, sino alla tragedia di Qaraqosh.

Soldati vigilano all'entrata della chiesa di San Giovanni a Qaraqosh
Pensi di poter lasciare presto questo campo? «Il futuro dipende da Dio, tutto è nelle sue mani».

E ora, che a casa non puoi tornare e anche le organizzazioni internazionali se ne sono andate da Erbil, come farai? «Qualcuno ci aiuterà. Preghiamo Dio che ci aiuti tutti», dice Waleed. Hai progetti su quando tornare a Qaraqosh? «Non saprei dire quando. Mi è giunta notizia che il Governo centrale sta spingendo moltissimo sui funzionari per ripristinare al più presto la città. Ma chissà». Pensi di poter lasciare presto questo campo? «Il futuro dipende da Dio, tutto è nelle sue mani». Resti fiducioso? «Dio ci ha salvato la vita, ci dà un tetto, da mangiare, e anche la chiesa per partecipare alla messa. Posso condurre una vita agiata o una vita di stenti, ma ho sempre fede in Gesù e nessuno potrà rubarmela. E Dio non mi farà mai del male».