Mireille Yoga al Centro Edimar di Yaoundé.

Camerun. La cenere o il fuoco

«Pensiamo di possedere le cose per sempre. Invece ci sono date...». Da Tracce di novembre, la storia di Mireille e Victorien, coppia di Yaoundé, la cui lettera è stata citata alla Giornata di inizio anno
Alessandra Stoppa

«Chi non vorrebbe due amici così?». È la domanda rivolta da Julián Carrón alla Giornata di inizio anno di CL, dopo aver citato la lettera di Mireille Yoga, che raccontava un’esperienza vissuta con suo marito (vedi “Pagina Uno” di Tracce di ottobre). Carrón ha proseguito, usando le parole di papa Francesco: «Frequenta le persone che hanno custodito il cuore come quello di un bambino. Nella loro umiltà c’è il seme di un mondo nuovo».

Mireille e Victorien sono sposati da diciotto anni. Vivono a Yaoundé, in Camerun. La loro è la storia di un amore più forte di tutto. «Ci ha fatto vivere controcorrente», racconta lei. Non hanno avuto figli naturali e nella loro cultura una donna sterile è una vergogna, se non una maledizione: si sentiva sempre addosso gli sguardi e i commenti della gente. E chiedeva il miracolo, che però non arrivava. Un anno dopo l’altro il desiderio di dare un figlio a Victorien era diventato un’ossessione. Fino al giorno in cui lui le ha detto: «Non piangere più. Per me tu vali più di dieci figli. Ti risposerei ora».

Queste parole, impronunciabili per un uomo del loro ambiente, erano il frutto dell’esperienza che vivevano. Dice Mireille: «Era il fuoco che veniva da Cristo». Da quell’incontro che aveva fatto con il movimento di CL, qualche anno prima di sposarsi. Un incontro semplice - come seguire la curiosità per due ragazze del coro in parrocchia - e totale, al punto da farle dire, di fronte a Victorien che le chiedeva di diventare sua moglie: «Sappi che questa donna è “fatta” dalla fede. È per questo che mi vuoi sposare. Non impedirmi mai di seguire la strada che mi ha trovata. Perché è la mia vita con Gesù». Lui la segue. «Così abbiamo visto il nostro amore crescere».

Con il marito Victorien e i figli: Andrée e Jéremie

L’incontro con un cristianesimo vivo si rinnova nel “sì” di Mireille a padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime, che le propone di lavorare al Centro Edimar, una realtà educativa per i ragazzi di strada. La vita sua e del marito si allarga, la loro casa si apre ai giovani nanga boko, “quelli che dormono fuori”, tra la strada e il carcere, rubando e fumando canapa, con l’Aids o la vita in balìa degli spiriti, e li accompagnano uno a uno, «perché su ciascuno si posi lo sguardo d’amore che non hanno mai ricevuto». Oggi hanno anche due figli: Jérémie, quattro anni, in affido, e la più grande, Andrée, di sette, adottata nel 2012.

Ma a un certo punto, di quel «fuoco», che li ha spinti in una vita di coppia per cui si sentivano unici al mondo, «ci erano rimaste solo le braci, che rischiavano di diventare cenere». Se ne accorge per un fatto molto semplice. Un uomo che si innamora di lei. «Una persona che conoscevo da diversi anni mi ha invitata a cena. Io ero contenta di uscire un po’ dall’ambiente di casa». Dice a Victorien che sarebbe arrivata tardi e gli chiede di occuparsi dei bambini. «Quella serata è stata molto bella. Ero con qualcuno che mi riempiva di attenzioni, che si precipitava ad aprirmi la portiera della macchina, si accorgeva se il mio bicchiere era vuoto, mi guardava fino ai dettagli più piccoli e mi faceva parlare di tutto e di niente con un’attenzione particolare. Mi sono sentita leggera».

Tempo dopo, la invita di nuovo: «Ho accettato perché la sua compagnia mi faceva bene». Ma questa volta, lui le dice che da tempo è innamorato di lei. «La sua dichiarazione mi ha fatto tremare le gambe. Quando sono tornata a casa ero contenta che qualcuno mi desiderasse. Che qualcuno mi dicesse delle cose che non sentivo più. Quand’era stata l’ultima volta che io e mio marito avevamo avuto un momento così? Che mi avesse detto di amarmi, o che io lo avessi detto a lui? Era passato troppo tempo».

Tra loro si era insinuato un distacco profondo, sottile, senza accorgersene, inseguendo le cose da fare e finendo la giornata con i cellulari in mano prima di farsi vincere dal sonno. «Quando me ne sono resa conto, mi sono sentita mancare la terra sotto ai piedi», continua Mireille: «Ci occupiamo con cura della famiglia, della casa, accogliamo i ragazzi di strada, ci aiutiamo reciprocamente... Ma siamo staccati, distanti».

Davanti all’incontro con quell’uomo, lei è subito leale. Si ferma, si guarda, e si sente come una macchina che gira su se stessa, senza più la spinta del motore per avanzare. E capisce quel che è successo: «Pensiamo di possedere le cose per tutta la vita. Invece ci sono date. Finché non ne smarriamo l’origine, e tutto si inaridisce». Trovandosi così, impoverita, si rende conto del vero problema tra lei e suo marito: «Cristo non era più il punto di partenza del nostro quotidiano». Era da tempo che non pregavano insieme, o che «non godevamo delle cose, ringraziando Dio che ce le dona». È stata «una scoperta dolorosa», ma lei non vi fa resistenza, anzi «sono stata contenta di farla. Perché il Signore usava un incontro qualsiasi per restituirmi a me stessa. Veniva a prendersi di nuovo cura di noi».

Al Centro Edimar, una realtà educativa per i ragazzi di strada

Poco dopo, nel giorno del loro anniversario, insiste per uscire a cena con il marito. Lui è a disagio per una serata galante, ma accetta, trovandosi a tavola con la testa piena di pensieri e la moglie che lo guarda negli occhi, paziente, aspettandolo: «Volevo incontrarlo», dice lei. Gli racconta quel che le è successo e si aprono l’uno all’altro, si accolgono. «Tu hai ragione», le dice Victorien: «Il nostro amore è cresciuto come un albero. Gli uccelli vengono a posarsi, le persone trovano l’ombra... Ma se smettiamo di alimentarci alla fonte, seccheremo».

In quell’istante il cuore di Mireille si riempie di gratitudine. «Il Signore ci ridonava l’intensità della nostra vita di coppia. Così abbiamo pregato l’Angelus, abbiamo mangiato qualcosa e come due bambini siamo timidamente tornati a casa, con la certezza di essere stati amati e voluti da un Altro. Colui che ha cominciato la nostra storia con noi, prima di noi, è venuto ancora una volta ad aiutarci».

È la disponibilità a come Dio vuole sfondare le nostre porte. Ai «sintomi» che emergono in noi, come diceva Carrón: «I sintomi sono come il grido che Dio, pieno di tenerezza nei nostri confronti, fa scaturire dalle nostre viscere. Come se ci dicesse: “Non ti rendi conto del bisogno che hai di Me?”».

Dopo quella cena di anniversario, «il quotidiano non ha smesso di essere duro», racconta Victorien, che pochi giorni fa ha avuto un problema sul lavoro e ha detto a sua moglie: «Se non siamo “insieme”, io faccio le cose male». Lei gli ha risposto: «Sì. Ma non esiste questo essere insieme senza Cristo».

Cristo come «punto di partenza» del quotidiano. «È molto concreto», dice lei: «Io la mattina pregavo con i bambini perché lui aveva troppe cose da fare. Abbiamo sempre letto il Vangelo del giorno per sapere “cosa ci dice Gesù oggi”, ma ormai lo facevo da sola, come andare a messa tutti i giorni. Non c’era più l’unità. Perché l’unità è in Cristo, nell’“inizio” delle cose. Nell’inizio della giornata».

Mireille al lavoro

«A me è cresciuto il desiderio del “mio” rapporto con Dio», dice Victorien: «Che venga fuori il mio cuore, la mia libertà». In questo aiutarsi a prendere e riprendere coscienza, «stiamo diventando più amici», dicono: «Abbiamo la certezza che la nostra vita è portata da un Altro. E questo ci dà semplicità, e più amore per la libertà dell’altro. Siamo qui... come due figli perdonati dal padre. I problemi del matrimonio diventano l’occasione per essere più veri, per ricominciare».

Con gli occhi spalancati, Mireille ha scoperto quanto il cuore fosse lontano da Cristo anche davanti all’amicizia di don Remigio, che dall’Italia accompagna la comunità del Camerun. È andato a trovarli, è stato un po’ con loro, semplicemente: «Per quanto sia nobile tutto quello che fate, voglio sapere come state». Vedere l’affezione di don Remigio ha sfondato tutti i muri che lei aveva messo, anche con gli amici del movimento con cui il rapporto si era perso. «Mi dicevo che non dovevo cercarli, che se avessero voluto sapevano dove trovarci... Un sacco di obiezioni». Ma don Remigio chiedeva dell’uno e dell’altro, si preoccupava. Lei tagliava corto, come se non meritassero così tanta attenzione. Lui non faceva una piega e continuava a interessarsi di quelle persone.

«Vedevo nello sguardo di don Remigio quant’era importante per lui che ciascuno fosse felice. È stato uno shock per me. E ho desiderato avere quello stesso sguardo di tenerezza che aveva lui. Nel mio intimo, mi sono messa a pregare e a chiedere perdono: per tutte le volte che ho impedito a Cristo di utilizzare il mio cuore e il mio sguardo per manifestarsi intorno a me».

Da lì ha ripreso a cercare gli amici che non vedeva da tempo. «Piena di questa amicizia, che ha scombussolato la tranquillità in cui mi ero fermata». Cita solo un messaggio che ha ricevuto in risposta da uno di loro, un semplice: «Grazie». «Un grazie pieno di cose non dette».