Alpha e Maurizio

Stati Uniti. Col cuore sulla manica

Alpha viene da un’isola delle Filippine. La ricerca irriducibile di un senso l’ha portata a riscoprire «la bellezza di dipendere». E ad un incontro che ha cambiato la vita sua e di Maurizio... La loro storia da "Tracce" di ottobre
Alessandra Stoppa

«Questa è la storia di una bambina cresciuta su un’isola in mezzo all’Oceano». Ma Alpha Paradela, che è quella bambina, è molto sicura che sia anche «la storia di ognuno di noi». È nata nel 1965 nelle Filippine, nell’arcipelago delle Visayas, dove non c’era elettricità e si viveva di quello che veniva pescato la mattina. Ha imparato fin da piccola a dipendere, «dagli altri, dalla natura, da Dio. Arrivava una tempesta e portava via tutto. Non avevamo nulla, ma io ero felice».

La fede cattolica le era familiare come l’arrampicarsi sulle palme, era il risveglio di ogni mattina sentendo i nonni recitare il Rosario o andare al tramonto dagli anziani dell’isola seduti davanti alle case e chiedergli di benedirla sulla fronte. La fede era il modo di vivere dei suoi genitori: «Li guardavo, giorno dopo giorno, vedevo come trattavano le persone». Il padre avvocato difendeva i dissidenti del regime di Marcos e la gente degli slum, la madre medico si era specializzata nella tubercolosi per sollevare i più poveri.

Boston

Quando viene mandata a Cebu City per studiare, la sua educazione religiosa continua in una scuola cattolica. All’ultimo anno di liceo, decide di fare volontariato in ospedale. Ed è lì che, una mattina, vede un ragazzo, nudo, con le mani legate e accompagnato dai genitori: «Era schizofrenico. In quel momento, ho deciso di diventare psichiatra». Lo è diventata brillantemente, in un momento storico in cui nelle Filippine c’erano 100 milioni di persone con 200 psichiatri, distribuiti in oltre 7mila isole: «Il lavoro era molto interessante, dovevamo innovare per raggiungere più gente possibile nei posti più sperduti». Lei sviluppa un metodo che la porta ad essere docente a trentadue anni, per cui la World Health Organization la manda in diversi Paesi, fino ad essere assunta come dirigente in un’azienda farmaceutica. Ha la carriera, un figlio che adora e viaggia per il mondo. «Avevo tutto ciò che desideravo. Ed ho sempre saputo che non era abbastanza».

In poco tempo matura la decisione di lasciare l’azienda, un posto che tanti avrebbero voluto. Ma lei ogni mattina, dall’ufficio ad attico nel cuore del quartiere finanziario, guardava giù, i poveri per strada, e sentiva che il suo posto era là. Prendendo l’autobus annusava l’“odore” della gente: «Io appartengo a loro», pensava. La svolta è arrivata durante un soggiorno negli Stati Uniti. Decide di portare suo figlio David a Disneyworld insieme a sua madre e mentre è lì pensa all’ennesimo viaggio di lavoro che la aspetta, a Singapore, e sente la pressione di domande sempre più chiare: cosa succederebbe se io non avessi più niente? Se io non fossi nessuno? A fine vacanza dice a sua mamma: «Tu torna a casa. Noi stiamo in America». Suo padre al telefono le chiede soltanto una cosa: «Da cosa stai scappando?». «Io non scappo da qualcosa, vado verso qualcosa. Non so cosa, ma vado verso qualcosa».

Primo problema, trovare un visto. Si rivolge ad una psichiatra che aveva conosciuto tempo prima e che la aiuta senza chiederle nulla. Così si ritrova a Boston, con un figlio e pochi soldi: è il 2004, lei ha quarant’anni e la ferma decisione di vivere senza nulla, come per un imperioso bisogno di fare esperienza del bisogno, di dipendere. Un’urgenza di essere vera. Per poi fare ritorno dalla sua gente nelle Filippine. Questo è il piano.

«Mamma, perché la gente viene negli Stati Uniti per diventare ricca e noi per diventare poveri?». Non arretra nemmeno davanti alla domanda del figlio, mentre vivono in uno scantinato, e si stupisce di come lui, un ragazzino, metta tutto il suo impegno nella scuola, per ottenere delle borse di studio. Le difficoltà sono grandi, eppure l’ansia diminuisce: «Iniziavo a capire che non avere nulla voleva dire avere attenzione per il bisogno di senso che avevo».

Nel 2007, le diagnosticano un cancro ai polmoni. Il medico si dice ottimista nel pronosticarle due anni di vita. «In quel momento ho detto a Dio: adesso mi hai messo in ginocchio tu. Cosa ti posso dare, se non la vita?». Perde il lavoro e i capelli per la chemio, ma «ero sicura che Lui mi avrebbe ascoltata, mi avrebbe dato qualcosa». Trova impiego in una casa di riposo, dove deve fare il clown per i vecchietti. «Ero contenta di rendere contenti gli altri». E lì incontra Bill, un novantenne in sedia a rotelle, che le confida: «Ho un solo desiderio, morire nelle braccia di qualcuno che mi ama». Lei lo guarda: «Bill, scappiamo!». Lo porta a vivere con sé e David, per cinque mesi esaudisce ogni suo desiderio, dall’hamburger alle gite in spiaggia e in montagna. Bill muore a casa con loro, tra le sue braccia: «Per me è stato un dono», dice Alpha: «Il modo in cui Dio mi ha insegnato di più la vita».

Per accogliere Bill, lei e il figlio si erano trasferiti, andando a vivere a un’ora e mezza da Boston. «C’era una ragione se eravamo finiti lì. E non era solo Bill». In quel paese c’era la chiesa del Santissimo Sacramento, che lei frequentava, e dove, poco tempo dopo la morte dell’amico, trova tra gli avvisi un foglietto con un invito: “Scuola di comunità”. Non sa cosa sia, ma lo gira e c’è un articolo di tale Julián Carrón sul tema della speranza. «Appena l’ho letto, sono esplosa: “Ma perché ci hai messo così tanto a darmi questo?!”. Avevo trovato quello che cercavo».

Perché ne era così certa? «La sorpresa», dice: «È la sorpresa stessa. Qualcosa che sta accadendo. In mezzo alla routine, andando a messa la domenica, pregando Dio con automatismo, senza nemmeno sapere più se è reale, e con tutto il mio bisogno di un significato, ho letto quell’articolo ed era Lui che mi diceva: “Io sono sempre qui”». Per questo va subito all’appuntamento riportato sul foglietto e conosce Anujeet, un sikh convertito al cattolicesimo, e attraverso lui Jessica e Matt, e poi altri...

«Ai primi Esercizi spirituali ho detto: “Non so perché, ma da quando vi conosco la mia vita è così bella. È un modo nuovo di conoscere, di vivere”». Per lei è difficile racchiudere quello che vedeva in loro, dice che portavano the heart upon your sleeve, il cuore sulla manica: «Non avevano paura di mostrarlo. Erano illuminati dal desiderio e dall’amore per Gesù. Attraverso di loro avevo trovato me stessa. E potevo tornare nelle Filippine con la pace».

Manca un anno alla scadenza del visto, giusto il tempo che David termini le superiori, e lei non sta ferma: trova un “cercasi tata” tra gli annunci della parrocchia. Così il suo destino incontra quello di Maurizio. «Il momento più critico della mia vita è stato il migliore», dice lui oggi, riferendosi a quando si sono conosciuti. Nato a Ivrea, Maurizio Cattaneo è emigrato nel ’76 con la famiglia in Canada, dove inizia anni intensissimi di lavoro e studio, facendo il lavapiatti e frequentando Ingegneria chimica a Toronto. Entra nel difficile sistema americano, ottiene un lavoro in ricerca sperimentale, durante il dottorato a Montréal incontra Marie France, che diventa sua moglie, e nel 1997 si trasferiscono negli Usa. Nel 2010, lei muore all’improvviso per un’infezione. E lui si ritrova a crescere da solo i figli, Françoise di 12 anni e Christian di 9.

«Dio non era presente nella mia vita. Non sapevo pregare, non avevo nessuna esperienza di come rivolgermi a Lui. Io e mia moglie non avevamo avuto un’educazione religiosa, quindi nemmeno i nostri bambini, e quando mi è mancata lei, la cosa più cara, mi sono trovato con un grande vuoto». Il lavoro è pressante e non sa come andare avanti; un amico gli suggerisce di mettere un annuncio sul giornalino della parrocchia per trovare qualcuno che lo aiuti in casa. Arriva così la telefonata di Alpha.

Al primo incontro, Maurizio le dà in mano le chiavi di casa e dell’auto. «Ho saputo subito che era la persona giusta». Quando una sera i bambini le chiedono di fermarsi a cena, vedono che prega prima di mangiare: «Ma che fai?». «Ringrazio Dio del cibo». «Perché?! Il cibo ce l’ha dato papà!». Idem prima di andare a letto. Non capiscono, ridono, pensano sia matta, ma Maurizio interviene: «Da questo momento fate tutto quello che Alpha vi dice». È affascinato da questa donna, e sarà lei a presentargli, nonostante le sue riserve, gli amici di CL: «Anche lì è stato immediato come con Alpha», racconta lui: «Qualcosa di istantaneo e profondo allo stesso tempo. È l’incontro. Il primo che ho conosciuto è stato Lorenzo. Mi ascoltava, aveva una grande tenerezza nei miei confronti, non giudicava: quel giovane uomo aveva qualcosa di sconosciuto per me, aveva qualcosa che io volevo». Era abituato a sentirsi dire: «Tu pensi come un computer», invece questi amici «vedevano chi sono io».

Alla scadenza del visto, Alpha è decisa a tornare nelle Filippine, ma il cancro avanza, deve iniziare una terapia sperimentale. E, soprattutto, Maurizio le chiede di diventare sua moglie. Si sposeranno il 27 agosto 2011.

Oggi, mentre ci parlano via Skype dalla loro casa di Boston, stanno imboccando come una figlia Elizabeth, un’anziana signora con l’Alzheimer: «Quando suo marito stava morendo gli abbiamo promesso che l’avremmo presa con noi». Le loro giornate sono così, investite di gratuità, avanti indietro da “Casa Monte Cassino”, l’opera che ora Alpha dirige e che accoglie bambini malati. Accompagnano i piccoli, le loro famiglie, e anche altri malati di cancro come lei: «Quando qualcuno di loro muore, i parenti mi chiedono: perché tu sei ancora viva? Mi interroga molto. E ogni volta penso: il mio giorno arriverà. Questo mi aiuta ad essere consapevole del tempo che mi è dato, a rendere più significativo il mio presente». Poi aggiunge: «Nonostante tutto quello che mi è successo... io continuo a dimenticare. Non vivo della memoria di Gesù. Quante volte ancora gli dico di “no”. Ma Lui prepara sempre qualcosa per me, più di quel che immagino. E la sola cosa che devo dire è “sì”».

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Perché la tua storia, così particolare, è la storia di ciascuno? «Io vengo da un’isola dove ho imparato la dipendenza. Tutti dipendiamo. E tutti, diventando grandi, crediamo sia meglio essere autonomi. Ma il bisogno non se ne va. Il bisogno del nostro cuore, che è il bisogno dell’altro e di un significato, noi lo mettiamo da parte ma non sparisce. Tutti cerchiamo. E tutti possiamo tornare a dipendere, per essere felici».