Riad, Arabia Saudita.

Riad. La lunga lotta

Medioriente. Nel quotidiano di situazioni o Paesi difficili, il rapporto con chi ha un’altra fede diventa scoperta di ciò che fa vivere. Su "Tracce" di Aprile, dall'Arabia Saudita la prima di tre testimonianze dalle comunità di CL
Alessandra Stoppa

Mario Huterer vive con la sua famiglia in Arabia Saudita da quattro anni. Ingegnere delle telecomunicazioni, una vita in giro per il mondo, oggi si ritrova in quello rigido dell’islam wahabita di Riad e dice: «Non mi manca nulla per vivere». Lui che da giovane ha dovuto lasciare la sua Sarajevo, per la pressione di una società a maggioranza musulmana, in cui non vedeva futuro. Pagando anche il prezzo delle sue origini, per metà tedesche, rifiutando i compromessi e (per tre volte) l’iscrizione al Partito comunista, si è costruito da solo, studiando come un folle e laureandosi a ventidue anni. A venticinque, ha deciso: «Dopo un lungo pianto, sono andato via per sempre. Ormai avevo chiaro che la mia terra non poteva essere il mio posto». Era il 1985. Oggi ha sessant’anni e la voce si rompe di un pianto diverso, commosso perché c’è Ahmed, un collega del suo team che, ogni giorno, durante il lavoro si interrompe per pregare rivolto alla Mecca. «Lui si mette in ginocchio e vederlo mi fa “ricordare” me, suscita il fondo di me. Mi fa pregare. Siamo diventati amici. Una sera, mentre lo accompagnavo all’uscita del compound, ci siamo guardati sorpresi. Senza troppe parole, ci siamo detti quello che stavamo capendo: noi non siamo insieme per i soldi, per il progetto. Nemmeno perché è molto bello lavorare insieme. Cosa ci unisce? Da dove arriva questa profonda gratitudine l’uno per l’altro?». Hanno iniziato a chiamarsi “fratello”, non per modo di dire, come si usa. Per Mario è una domanda piena di stupore: «Cosa c’è dietro al suo volto?». La sua vita è puntellata da questa domanda. Cresciuto in una famiglia atea, «non mi chiedevo nulla della fede, ma del “perché” della vita, sì», mentre l’ambizione e la testa lo spingevano a lavorare giorno e notte, portandolo a vivere prima in Austria, poi negli Stati Uniti, poi in Belgio. Qui, un giorno viene invitato da un collega ad un incontro, e ci va, più che altro per conoscere delle ragazze. «Non sapevo cosa fosse Comunione e Liberazione. Stavano leggendo Il senso religioso di don Giussani. Era in francese ed io non capivo bene, però da quel giorno sono rimasto. Non per le ragazze, ma per le parole sul retro del libro, che mi hanno fatto pensare: “Pare che quest’uomo abbia la risposta al senso della vita”».

Il numero di Aprile di ''Tracce''

A quel punto è iniziata una lunga lotta. «Da quel primo libro a tutti gli altri che leggevo, io non capivo. Ma come potevo non capire? Avevo fatto un dottorato difficilissimo, studiato e insegnato cose molto complesse, com’era possibile?». Quindici anni così, senza perdere un incontro del movimento, andando ovunque andassero questi nuovi amici, Olanda, Francia, Lussemburgo... Eppure «io ero deciso a capire, non a seguire. Volevo – dovevo – arrivarci con la mia testa». Per Maru, la ragazza di cui si innamora e che diventerà sua moglie, era semplice: «Ma non vedi?», gli diceva. Lei si stupiva di tutto, lui era sempre più frustrato. «Mettevo molta energia e non accettavo la semplice “formula” di fare un cammino. Ma sono sempre rimasto, per quegli sguardi, che nella vita mi hanno fatto una grande compagnia: volti e nomi precisi, penso a Giorgio, Maria Grazia, Thomas, Tiziana...».

Il velo per Mario si squarcia in quello che chiama «il mio primo incontro con l’Altro». È successo «in piena inutilità», cioè facendo caritativa in una casa di riposo, stando con vecchietti che «non si accorgevano nemmeno del nostro arrivo, o almeno così a noi sembrava. Non potevi fare niente per loro. Eppure io ho sperimentato una pace mai vissuta prima. Non veniva da Maru, che era accanto a me, né da quei vecchietti. Non si poteva “spiegare”, ma era vero». Quando dal Belgio si trasferiscono a vivere in Italia, un giorno, all’ennesimo incontro del movimento, quasi sfinito, ci va dicendo: «Basta. Fai Tu». «E pensa, ho incominciato a capire...», si schermisce commosso.

Intanto la famiglia cresce, lui li accompagna sempre alla Messa, stando lì, «un po’ come una pianta. Ma una pianta desiderosa». Finché una sera in Austria, dove – dopo l’ennesimo trasloco – vivevano da due anni, un amico sacerdote, Andrzej, che li andava a trovare ogni tanto, bussa alla porta senza preavviso: «Mario, è venuto il tuo momento». Lui scoppia a piangere e capisce senza bisogno che aggiunga niente: Andrzej lo preparerà ai Sacramenti. «Quella volta non è venuto da solo. Davanti a me non c’era solo Andrzej, dietro ai suoi occhi, ho riconosciuto un Altro».

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La stessa esperienza che vive con Ahmed. «Ho lasciato la mia patria per i musulmani e io oggi, per lui, darei il sangue. Ci unisce il “profondo” di me e di lui, la profondità della fede. Come con il mio più caro amico, Chandru, che è indù». Dopo la lunga lotta «con me stesso», dice, «ho una gratitudine immensa, perché nella vita sono stato toccato, così gratuitamente, dall’incontro con “un altro mondo” in questo mondo. Che sorpresa, innegabile... per un ex-ateo». In Arabia Saudita non si può vivere pubblicamente la fede cristiana, ma «non ci manca nulla», ripete: «C’è tutto, proprio tutto. Anche quello che “non c’è”. Cristo ci viene incontro». Può essere il vicino di scrivania, o il suo figlio più piccolo che ha un handicap grave: «Viene attraverso l’altro, il suo desiderio, i suoi occhi».