Venezuela. «Una convenienza umana per me»
Lui a Caracas, con le quattro figlie. La moglie bloccata in Spagna all'esplodere della pandemia. Qui racconta «la lotta per farla tornare», dentro cui, però, «ero in pace». La sorpresa di qualcosa che «ha a che fare con la mia vocazione»«Come stare da uomini davanti a questa circostanza?», scrive Julián Carrón nella sua lettera al movimento. Io questa circostanza ho dovuto viverla in un “ruolo” opposto a quello che ho di solito: per lavoro viaggio molto spesso in Europa, mentre, all’esplosione del contagio, è accaduto che lontana da casa fosse mia moglie Alexandra. Lei si trovava in Spagna, ed io a Caracas, con le nostre quattro figlie.
Mi sono sentito come in Mission impossible. Ho passato 48 ore senza dormire, cercando di capire cosa fosse meglio fare e come Alexandra potesse tornare in Venezuela, senza rischi, anche perché ha già una malattia cronica. C’erano tante ipotesi, anche quella di rimanere in Spagna... Le decisioni si giocavano minuto per minuto, e ho sperimentato quel «dire sì» in ogni momento senza vedere nulla (e allo stesso tempo guardando tutto), semplicemente obbedendo alla pressione delle circostanze. Che vertigine.
I primi giorni provavo una grande impotenza, giudicavo tutto con gli amici, alcuni del movimento e altri che sono spuntati come “inviati da Dio” per donarmi una parola, un consiglio o un aiuto operativo, concreto (l’amicizia operativa che apre la ragione e il cuore). Mi sono reso conto della grandezza delle persone con cui lavoro a “Trabajo y Persona”, la ong che ho fondato e dirigo, perché ho potuto delegare molte responsabilità e loro hanno risposto in modo incredibile (consapevolezza che l’opera non mi appartiene). Pregavo in modo diverso. Pregavo per mia moglie, per la nostra famiglia, per gli amici, per il mondo intero, e per me (di usare la ragione e l’affetto in maniera adeguata). Ringraziavo per tutto quello che ho avuto e, stranamente, per quello che stava accadendo e per come stava accadendo. Mi sono trovato a lodare Dio, perché anche attraverso il virus ci manifesta quanto ama la nostra libertà.
I voli continuavano ad essere cancellati e ogni volta l’idea che avevamo andava in frantumi. Fino a quando Alexandra non è riuscita ad arrivare a Santo Domingo, dove avrebbe dovuto fare scalo. Ma, appena atterrata, hanno sospeso il volo per Caracas. Non ci veniva risparmiato nulla. Quella notte, quando abbiamo parlato al telefono, non tratteneva le lacrime, era così provata per la stanchezza e l’incertezza. Non sapevamo cos’altro fare. Le ho detto che Cristo non ci avrebbe mai lasciati soli e le ho chiesto di pregare insieme, ma non riusciva da quanto piangeva. In quel momento, sono stato sopraffatto da una strana serenità. Ho continuato a cercare delle strade, contattando persone a Santo Domingo, e siamo riusciti a farla sistemare in un posto isolato, perché nel frattempo aveva iniziato ad avere alcuni sintomi del virus.
Per miracolo, attraverso amici e famiglie di amici venezuelani che vivono là, le sono arrivati acqua, cibo, medicine, anche internet... Addirittura ha potuto andare in una clinica – il giorno di san Giuseppe – a fare il tampone e anche un esame per la sua malattia (un esame che in Venezuela non si può fare). Quando abbiamo saputo che l’esito del tampone era negativo non sono riuscito a trattenermi: è stata la prima volta che la mia figlia più piccola mi ha visto piangere in modo irrefrenabile. All’inizio le ragazze mi guardavano pensando stessi scherzando, alla fine ero come un bambino, sprofondato nelle braccia delle mie figlie, che cercavano di confortarmi.
Quanto è grande Dio, che permette a tutta la nostra umanità di fiorire dentro il dramma. Come ama la nostra libertà e la nostra piccolezza.
Dopo qualche giorno, mia moglie è atterrata a Caracas con un volo umanitario (impensabile); poi abbiamo cercato il modo di andare a prenderla in aeroporto, nonostante i posti di blocco, e portarla a casa sana e salva. Una vicina, che è fuori dal Paese, ha un appartamento vuoto sul nostro stesso piano e ce lo ha prestato, perché Alexandra doveva stare comunque in quarantena, ma così era accanto a noi.
Se guardo ora a quello che è successo, mi rendo conto che all’inizio ero tutto preso per “risolvere” la situazione. Ma dopo la lettera di Carrón ho incominciato a offrire, tutto, compresa la possibilità di non rivederla per non so quanto tempo. L’attenzione ai bisogni delle mie figlie, il mio lavoro, l’aiuto per le necessità della nostra comunità, per le medicine e il cibo, il sentire gli amici in Italia con le prove che vivono... tutto ciò che poteva abbattermi, era invece come un agire nell’Essere. Ora et labora, letteralmente.
Il fatto che la persona che è lo strumento della mia vocazione (mia moglie) fosse lontana, in un momento come questo e già malata, questo non mi è sembrato banale. Non credo nei matrimoni a distanza e ancor meno se uno dei coniugi non sta bene. Ma avere il «signore del panificio» vicino, mi ha aiutato a capire. Se pur in modo acerbo, cominciavo a riscoprire il valore della mia vocazione: se non potevamo stare insieme, anche questo era per il nostro bene. La «convenienza inaspettata», di cui parla la lettera di Carrón, diventava più evidente. È strano, stavo lottando perché lei potesse tornare a casa, ma ero in pace.
Cristo è veramente una presenza che mi permette di guardare alla mia piccolezza, alla mia angoscia, alla separazione temporanea da Alexandra, alla gestione della casa, al non poter fare il mio lavoro... come occasioni per mettermi in rapporto con il senso della mia vita. Se non è così, essere cristiani è accessorio, è una consolazione per questi giorni di reclusione.
Lo scopo della mia vita non è definito da me, lo scopro in relazione a tutto ciò che mi succede. E il “signore del panificio” mi aiuta a vedere di più e meglio tutto, così che io possa fare questo cammino.
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Dopo i primi giorni di quarantena, sono tornato alla domanda: «Cosa mi strappa dal nulla?». Ho bisogno di una realtà così, di un cuore così e di amici che siano segno della Sua presenza. Ma soprattutto, capisco che la mia vita è una supplica costante. Prima di recitare l’Angelus e le Lodi ben sveglio, già prego ancora mezzo addormentato, come un primissimo gesto di supplica, perché voglio dare tutta la mia vita a Cristo.