Daryl Davis

Gli incontri di Daryl

«Come fanno a odiarmi, se non mi conoscono nemmeno?». È la domanda che aveva fin da bambino. E che oggi sfida la questione razziale. Da Tracce di settembre, la storia di Daryl Davis, musicista nero diventato amico del Ku Klux Klan
Luca Fiore

Le mani di Daryl Davis danzano sulla tastiera agili e veloci. Il ritmo è quello del boogie, solare e incalzante. Davis ha alle spalle una carriera invidiabile. Nell’album dei ricordi ha care le foto mentre suona con diversi mostri sacri della musica americana: Chuck Berry, Jerry Lee Lewis e B.B. King. La musica è la sua passione, ma il suo nome è legato, più che ai giri di blues, alla sua storia di attivista, fuori dagli schemi, per i diritti dei neri. È del 1998 il suo libro intitolato L’odissea di un uomo nero nel Ku Klux Klan. Alla rabbia e all’intolleranza di tanti che protestano contro la discriminazione, lui risponde dicendo: la contrapposizione non porta a nulla. L’unica via è quella dell’incontro e del dialogo. E a questo sta dedicando la sua vita: conferenze, incontri e dibattiti hanno quasi del tutto sostituito i concerti. A gennaio scorso è intervenuto, raccontando la sua vicenda, al New York Encounter. E di recente, dopo le grandi manifestazioni del movimento Black Lives Matter, che hanno riempito le città americane per protestare contro l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, ha risposto alle domande di un gruppo di studenti di Comunione e Liberazione.
Oggi Davis è ancora più convinto: «Mai nella storia americana avevamo assistito a un movimento così vasto ed eterogeneo. Mai la reazione delle autorità era stata così immediata nel censurare il comportamento violento della polizia. Siamo a una svolta». Ma il suo discorso e la sua storia dimostrano che le marce pacifiche – e ancor meno quelle violente – non sono sufficienti a combattere quello che, negli Stati Uniti, è un fenomeno in crescita.

Tutto per Davis inizia nel 1983, al Silver Dollar Loungeun locale di musica country a Frederick, nel Maryland. Lui è il pianista del gruppo in cartellone. Ed è l’unico nero nel locale. Alla fine dello spettacolo viene avvicinato da un uomo che gli fa i complimenti per la performance, ma che aggiunge: «Non ho mai visto un nero suonare meglio di Jerry Lee Lewis». Davis risponde che Lewis, che conosceva di persona, era stato influenzato dagli stessi musicisti neri da cui aveva imparato lui. L’uomo stenta a credergli ma, incuriosito, lo invita a bere qualcosa con lui. Parlano a lungo e, alla fine, l’uomo ammette che era la prima volta nella sua vita che stava allo stesso tavolo con un uomo di colore. Solo dopo Davis scopre che l’uomo è un membro del Ku Klux Klan, l’avanguardia storica del suprematismo razzista. Entrambi si accorgono che quel dialogo ha piantato un seme nella loro vita.
È solo il primo di una lunga serie di incontri con membri della setta suprematista, alcuni dei quali, diventando amici di Davis, hanno deciso di prendere le distanze dal Ku Klux Klan. Il caso più importante è quello di Robert Kelly, responsabile del Klan del Maryland. Il primo approccio è la scusa di un’intervista per un libro, concordata con la segretaria. Kelly non si aspetta di incontrare un uomo di colore. Seguiranno altri dialoghi. Davis viene invitato a incontri del Klan, riti notturni. Lui ascolta, prende appunti, domanda, discute. E pian piano gli stereotipi iniziano a cadere.
Davis non ha paura di porre domande, di chiedere le ragioni delle posizioni altrui. La prima volta gli è capitato a dieci anni. Era cresciuto in un quartiere di bianchi e partecipava al gruppo scout locale. Un giorno, durante una sfilata nel centro della città, si accorge che viene insultato e che qualcuno gli lancia dei sassi. È il 1968. All’inizio non crede ai genitori che gli spiegano che la ragione è il colore della sua pelle. Il bambino domanda: «Come fanno a odiarmi, se non mi conoscono nemmeno?». Un interrogativo che è diventato un refrain nella sua vita. «La risposta è sempre stata: “Ci sono persone che sono fatte così”. Ma a me non è mai bastato come motivo. Che cosa significa? Da allora sono stato curioso di capire le ragioni del razzismo. Ma alla mia domanda si continua a non rispondere».



L’ultimo episodio, di cui ha dato conto anche la Cnn e che Davis ha raccontato al New York Encounter, è l’amicizia nata con Richard Preston, Imperial Wizard del Ku Klux Klan del Maryland, che era stato arrestato nel 2017 per aver sparato a un uomo di colore, durante una manifestazione suprematista a Charlottesville, Virginia. Davis decide di pagare la cauzione per rimetterlo in libertà.
Ne segue un incontro, a casa di Preston, che spiega al musicista le ragioni dell’odio razziale, ripercorrendo dal suo punto di vista le tappe della storia degli Stati Uniti. «L’ho ascoltato e gli ho fatto notare dove le cose non stavano come diceva. Alla fine l’ho invitato a casa mia, dicendo che dopo saremmo andati insieme al Museo nazionale di storia e cultura afroamericana di Washington». Preston si presenta con la fidanzata, Stacy Bell, anche lei membro del Klan. Davis mostra la foto ricordo di quella giornata: i due ridono come se fossero amici da sempre.
Alcune settimane dopo arriva l’invito al matrimonio di Richard e Stacy. Davis accetta. È una cerimonia in pieno stile suprematista, con tanto di bandiere confederate. Ma alla vigilia, giunge anche la proposta più inaspettata: il padre di Stacy è malato e non può partecipare, deve essere l’amico di colore ad accompagnarla all’altare. A chi gli chiede perché ha accettato, Daryl risponde: «Perché siamo amici». Ed è un’amicizia per cui non chiede a Preston di rinunciare alla sua appartenenza al Klan. A lui basta che questo legame esista e sia reale. È un seme, che crescerà come e quando Dio vorrà.

Ai ragazzi che gli hanno domandato come si possa dialogare con una persona che ha posizioni opposte alle tue, Davis ha risposto dicendo che, innanzitutto, lascia che l’interlocutore possa essere se stesso: «Non rispetto ciò che dicono, ma rispetto il diritto ad esprimere le loro opinioni. Se vuoi essere ascoltato, prima devi essere disposto a farlo». Ma non basta. Quando si parla di argomenti controversi, come il razzismo, attaccare la posizione dell’altro non paga, spiega Davis: «Non fa altro che innalzare le barriere. Io preferisco parlare della mia posizione, dare le mie ragioni. È il solo modo perché l’altro possa iniziare a considerarle e rifletterci sopra».
Essere aggressivi tradisce, in fondo, una debolezza. La paura dell’altro. E un terreno comune su cui poter costruire l’inizio di un dialogo esiste sempre. Davis ha domandato agli studenti: «Credete che occorra un’educazione migliore per i nostri figli? Credete che serva fare di più perché i giovani non siano esposti al rischio della droga? Se pensate così, su questo siete d’accordo con i neonazisti e i suprematisti. E questo non ha nulla a che fare con la razza. Quando si scopre che si hanno gli stessi desideri è più facile vedere l’interlocutore come una persona e non come un nemico. Più si trovano punti di contatto, più la distanza si riduce. Se non ci si ferma, può nascere un’amicizia. E le cose di poca importanza, come il colore della pelle, finiranno per non contare più».

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Davis non si fa illusioni sulla situazione del suo Paese. Le tensioni cresceranno e i gruppi di estrema destra continueranno a proliferare. E la ragione, secondo il musicista, è che il volto dell’America è già cambiato e cambierà ulteriormente: «Tra pochi anni il 50 per cento degli americani sarà formato da persone non-bianche. E nella generazione successiva i bianchi diventeranno la minoranza. Questo mette a rischio un potere che esiste da 400 anni. E molti ne sono preoccupati. Hanno paura». Ed è facendo leva su questa paura che i gruppi neonazisti e i suprematisti fanno nuovi accoliti.
«La gente deve smettere di concentrarsi sui sintomi dell’odio», conclude Davis: «È come mettere un cerotto su un cancro. La malattia va curata fino all’osso, che è l’ignoranza. E la medicina è l’educazione. La conoscenza reciproca tra persone. Se si cura l’ignoranza, non c’è nulla da temere. Se non c’è niente da temere, non c’è niente da odiare. Se non c’è niente da odiare, non c’è niente o nessuno da distruggere».