Adam Zagajewski ©Marijan Murat/picture alliance via Getty Images

Adam Zagajewski. «È questo innominabile a darmi speranza»

Il grande poeta polacco è morto a Cracovia il 21 marzo. Tra le maggiori voci della poesia contemporanea, aveva rilasciato un'intervista a Tracce lo scorso gennaio. Regalandoci un testo inedito nato da quel dialogo
Luca Fiore

«D’autunno raccoglievi ghiande nel parco / e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra. / Canta il mondo storpiato / e la penna grigia perduta dal tordo, / e la luce delicata che erra, svanisce / e ritorna». Questi versi, scritti da Adam Zagajewski mesi prima e con altri riferimenti, finiscono sulle pagine del New Yorker nei giorni successivi agli attentati dell’11 settembre. La poesia fa scalpore. Il Newsweek, non senza enfasi, definisce Zagajewski: «The poet of 9/11». Il critico Harvey Shapiro arriva a scrivere che «è come se l’America stesse entrando nell’incubo della Storia per la prima volta e solo un poeta polacco potesse indicarci la strada».
Già il Premio Nobel Derek Walcott, il grande poeta caraibico, senza aspettare l’11 settembre, ne aveva parlato come di una «voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Miłosz, Celan, Brodskij». Cosmopolita anche perché Zagajewski, nel 1982, è costretto all’esilio dopo l’introduzione in Polonia della legge marziale seguita agli scioperi indetti da Solidarność. Si stabilisce a Parigi. Alla caduta del comunismo si dividerà tra Chicago, dove ha insegnato, e Cracovia. I suoi versi si abbeverano all’arte e alla musica. Rembrandt e Schubert, Bruegel e Brahms. Delacroix e Chopin. Viaggi in Italia. In Turchia. In Provenza. Ma soprattutto è presente la sua Leopoli, città-grembo, dov’è nato nel 1945 e dalla quale è costretto a fuggire bambino per riparare a Gliwice, nell’Alta Slesia.
Da poche settimane Mondadori, nella collana dello “Specchio”, ha pubblicato un’ampia raccolta delle sue poesie, intitolata: Guarire dal silenzio. L’occasione per scoprire un uomo per cui «la poesia è ricerca di fulgore. /La poesia è una strada regale, / che ci conduce nel punto più remoto, più in avanti, più ulteriore». Di questo, e di altro, abbiamo discusso con lui in un dialogo via Zoom.

Qual è l’immagine poetica che descrive meglio il suo essere poeta?
Sento di trovarmi in una situazione di dualità tra l’ascolto del mondo e l’espressione che ne deriva. L’attenzione silenziosa e l’espressione che, per definizione, non è silenziosa: produce immagini e rumori. Io vivo su questa soglia tra l’attenzione e la voce.

Il suo libro si intitola: “Guarire dal silenzio”. A che silenzio si riferisce?
Non c’è un solo silenzio, ma ce ne sono diversi. C’è quello della disperazione, della tristezza, ma anche quello dell’arricchimento. “Guarire dal silenzio” potrebbe significare il passaggio dalla disperazione al silenzio positivo, carico di idee e azioni. Da una parte il silenzio come capitolazione, resa, dall’altra quello che ci prepara all’azione.

In “La valigia”, lei scrive: «Sono solo un turista distratto, / ma amo la luce». Di che luce parla?
I poeti odiano che gli si faccia questo genere di domande. Non è compito mio decifrare questo tipo di immagini. Per me la luce è qualcosa di mistico, di positivo, di bello. Ma non so che cosa sia. È la differenza tra poesia e catechismo. Il poeta non sa esattamente che cosa stia dicendo. Ciò che importa è la direzione, non il contenuto esatto delle parole.

Molte delle sue poesie recenti parlano di un amico che è morto. In “Charlie” ha scritto: «L’amicizia è la prosa dell’amore».
C’è una profonda affinità tra l’amore e l’amicizia. L’amore è più emozionale, isterico. L’amicizia è più pacifica, è prosa appunto. Non corre, cammina. L’amore invece corre. A chi gli chiedeva quale fosse la cosa più importante nella vita, il filosofo polacco Leszek Kołakowski rispondeva: l’amicizia. Non so se sono d’accordo con lui, ma è una posizione interessante. Ci sono molti amori che finiscono male. Capita meno con le amicizie. C’è qualcosa di più stabile tra gli amici. Certo, ci sono amori che durano per molto tempo ma, osservando il mondo, le amicizie sembrano più solide.

Lei è considerato, non solo per la sua biografia, un uomo cosmopolita. Nella poesia “Terra” scrive: «Alcuni parlavano polacco, altri tedesco, solo il pianto era cosmopolita». Che cosa unisce i popoli?
Il dolore e la risata. Anche il senso dell’umorismo è molto importante. Questa poesia è ancorata alla mia biografia: la mia famiglia è dovuta fuggire da Leopoli, ero un bambino, e siamo arrivati a Gliwice. In quella poesia non dico che “solo” il dolore è universale. Sto parlando di quella situazione specifica. Perché, come dicevo, universale è anche la risata. In questo periodo, però, noto che i bambini non ridono, non ne sono capaci, “sorridono” piuttosto.

Che cosa ha scoperto scrivendo poesia?
I momenti in cui sei in grado di scrivere una poesia sono quelli in cui sei pervaso da un senso di ricchezza. Il mondo è incredibilmente ricco di emozioni, di colori, di persone. Il problema del poeta è che questa apertura va e viene. Ci sono giorni in cui, per alcune ore, i tuoi occhi sono spalancati, le tue orecchie attente, e anche il tuo cuore è aperto. Improvvisamente capisci di più e cerchi di registrare con la scrittura. Ma non è facile essere poeta.

Perché?
Perché quei momenti non durano. Quando passano, ti ritrovi di nuovo a non capire. Non impari molto. È un tipo di conoscenza non pratica. Se fosse tale, i poeti sarebbero eletti primi ministri. Ma è raro che lo diventino. E, quando capita, non sono esperienze sempre positive. La nostra non è una saggezza che dura 24 ore al giorno.

Che cosa nutre la capacità di vedere la poesia nelle cose? Che cosa alimenta questi momenti di apertura?
Da una parte la letteratura, la poesia che leggi, la tradizione. Ma quando sei giovane e la conoscenza della letteratura è limitata, hai già questi occhi mistici. Vedi che il mondo è molto di più di quello che appare in una conversazione banale o sulle pagine dei giornali. C’è qualcosa oltre questo. Si tratta di una specie di saggezza che è un orizzonte. Puoi toccarlo, ma non puoi possederlo. È la combinazione della tradizione e di questa visione, ma non mi chieda che cosa sia questa visione. Perché non glielo so dire.

Quando dice «c’è qualcosa oltre», che cosa intende? Si considera una persona religiosa?
Sì, mi considero una persona religiosa. Sono nato e vivo in un contesto cattolico, la Polonia. Ma per me è un problema collocarmi nel campo delle religioni positive. Una volta ho scritto una poesia intitolata Mistica per principianti. Per me la poesia è questo: vivere qualcosa che confina con l’esperienza mistica. Vivi questa situazione particolare e provi ad annotare quel che hai provato, ma non cerchi di trarne un sistema di pensiero, un’ideologia. È come se dessi questa poesia ai miei lettori e dicessi: «Bene, ora tocca a voi. Cercate voi di capire di che cosa si tratta». È l’opposto di una predica.

È un invito a fare la stessa esperienza del poeta?
Sì, assolutamente. Gli antichi filosofi la chiamavano “esperienza trascendentale”, che non coincide con l’esperienza mistica. Inizia con ciò che è empirico, che può essere toccato e misurato. A me piace la dimensione del mondo che incontra i sensi. Ma oltre a questo piano c’è la percezione di una presenza nelle cose. Il poeta si accorge di questa presenza. Poi arriva il prete e dice: si tratta di questo o quello. L’artista non fa così. Sì, sono religioso, ma è difficile essere religioso oggi nel mio Paese, perché la Chiesa cattolica polacca mi sembra abbia tradito, in senso nazionalistico, la vocazione universale del cristianesimo. Sarei anche tentato di entrare nella Chiesa, ma quella che c’è adesso non mi piace.

Lei conosceva Iosif Brodskij, poeta russo e dissidente politico. In un’intervista, alla domanda su quale fosse il compito di un intellettuale nella società, Brodskij rispondeva: «Scrivere cose belle».
Quella di Brodskij è una risposta classica. Ma i filosofi distinguono tra poeti e intellettuali. I poeti, gli artisti, creano oggetti. Le poesie sono come sculture o quadri. E fare questo è leggermente diverso dal capire come va il mondo. Un poeta che scrive un’ottima poesia non necessariamente rivendica una comprensione del mondo. Sta soltanto creando un oggetto bello. Un intellettuale produce opinioni, giudizi. Ci sono molti poeti che stanno sul confine tra i due ambiti, come Czesław Miłosz, anche lui Premio Nobel, anche lui mio amico. Lui era una combinazione straordinaria tra l’artista e l’intellettuale. Di per sé sono d’accordo con Brodskij. Ma siccome nella società non ci sono mai abbastanza persone intelligenti, è un bene quando un poeta lo è ed è in grado di dire qualcosa che aiuta le persone a capire il proprio tempo. Non dobbiamo limitare l’attività di un poeta alla scrittura, anche se quella è la cosa più importante.

In “Autoritratto” scrive: «Il mio paese si è liberato da un male. Vorrei / che seguisse un’ulteriore liberazione. / Posso essere utile in questo? Non lo so». Che cos’è questa ulteriore liberazione?
Questa poesia è stata scritta alla metà degli Anni Novanta. Prima di allora ero un dissidente politico in Polonia, ero contro il comunismo, che considero un sistema totalitario. E noi dissidenti avevamo un sogno utopico, che la società un giorno sarebbe stata liberata dal comunismo, diventando un luogo di fraternità. Era una posizione ingenua. Perché la società non può mai essere moralmente bella. In questa poesia c’è un’eco di questa utopia: una volta che avessimo trionfato contro il totalitarismo, avremmo avuto una società bellissima costruita sulla comprensione vicendevole e sull’amicizia. Ma non è possibile. La società ha sempre delle contraddizioni, le persone hanno opinioni diverse, litigano tra loro. Non bisogna essere ingenui.

Sono tempi difficili. C’è la pandemia e non solo. Si può ancora sperare? Che cosa sostiene la sua speranza?
Sì, c’è la pandemia, ci sono le guerre, la crescita del populismo. Ma l’umano è molto di più. La speranza viene dall’amicizia, dall’amore, dalla bellezza. Io credo nella bellezza. Anche se non è l’unico valore che ho a cuore. Ma penso che l’arte, la poesia, la musica ci mostrino un’idea di umanità. So che queste cose non sono accessibili a tutti. Non credo che la bellezza, di per sé, sia in grado di trasformare l’intera società. Però può trasformare quei pochi che possono dare un esempio. Perché la bellezza nell’arte può avere una dimensione morale, non è solo estetica. Non siamo capaci di dire cosa significhi rimanere umani, c’è sempre qualcosa in più. Lei mi ha chiesto se sono religioso, ancora le dico: sì, sono religioso anche in questo senso. Credo in qualcosa d’altro. C’è qualcosa d’altro a cui non sappiamo dare il nome. Ma questo innominabile mi dà speranza.

Che parole userebbe per accompagnare questi giorni così difficili?
Forse quelle di un aforisma del poeta tedesco Christian Friedrich Hebbel: «Se un albero deperisce anche nel peggiore dei suoli, è solo perché non mette le radici abbastanza in profondità. Tutta la terra è sua».

Alcuni giorni dopo il dialogo pubblicato in queste pagine, Zagajewski ha composto questo testo e ce lo ha regalato (la traduzione è di Marco Bruno).

In libreria

Dopo aver terminato la lettura del volume
in cui Wacław Hryniewicz
parla delle cose più importanti
ho avvertito il desiderio di tornare al Nuovo Testamento,
ma non sono riuscito a trovarlo
nella mia disordinata biblioteca.

Nella libreria mi sono guardato attorno attentamente,
ho controllato che nessuno
mi stesse sentendo e ho chiesto
del Nuovo Testamento. Il commerciante
(una maglietta con la scritta “Le formiche vinceranno”)
è partito alla ricerca,
poco dopo però ha detto, spiacente,

purtroppo sembra che
momentaneamente ci sia finito
il Nuovo Testamento.
Non so cosa significhi momentaneamente,
quanto tempo possa durare questo momento.
Quali possano essere le conseguenze
di quest’assenza