Irpin, 5 marzo 2022. Gli abitanti della cittadina ucraina sotto il ponte crollato in attesa di essere evacuati (©Emilio Morenatti/AP/La Presse)

Ucraina. Restare umani

L’esodo da Kharkiv e le parole di Irka: «La cosa di cui avevo più paura nei primi giorni di guerra era che mi dicessi: “Allora Dio non c’è”». Su "Tracce" di aprile, la storia di Elena Mazzola e dei ragazzi della ong Emmaus
Luca Fiore

«Padre Aleksandr è un giovane parroco di una chiesa ortodossa di Cherson, la prima città ucraina che i russi hanno conquistato. È un amico. In queste settimane ci sentiamo al telefono quasi tutti i giorni. La mattina fa dirette su Facebook per raccontare quello che sta vivendo, ma quando ci sentiamo la sera mi dice il suo dolore e la sua paura». Incontriamo Elena Mazzola, Memor Domini e presidente della ong Emmaus di Kharkiv, in Val Seriana, valle bergamasca tra i luoghi più colpiti dalla pandemia nel 2020. È qui come rifugiata, insieme a colleghi e agli orfani disabili con cui da cinque anni lavora. Sono approdati in Italia dopo un’odissea durata oltre cinquanta ore. Al confine con la Slovacchia erano arrivati anche con Maxim, Aleksandr e Georgij, uomini maggiorenni. Ma non li hanno fatti passare. Aleksandr è il marito di Anastasia, direttrice di Emmaus, che sta ancora allattando il piccolo Matvei di tre mesi. Georgij ha compiuto da poco diciotto anni e per la Legge marziale ha l’età per andare a combattere al fronte.

«Padre Aleksandr l’altra sera mi dice: “Elena, faccio un sacco di cose per cercare di aiutare, ma dentro non riesco a pregare. Che prete sono? Ho passato la mattina ad andare in giro per la città a comprare pacchi di carta igienica e assorbenti… Quando qui, a mancare, è il pane”. Io gli ho risposto: “Padre, è una questione di dignità. Siamo in guerra, ma non siamo animali. Domani ti mando dei soldi e compri sapone e bagnoschiuma, di quelli costosi!”. Lui è stato zitto e poi ha detto: “Il rossetto di don Giussani!”». Strano sentire dalla bocca di un sacerdote ortodosso, nell’Ucraina di oggi, ricordare il famoso aneddoto sul fondatore di CL: ai ragazzi che si lamentavano perché una donna povera aveva speso i soldi donatigli per il rossetto, disse che non avevano capito cos’era la condivisione, non accettavano il bisogno dell’altro, in quel momento farsi bella poteva essere il suo reale bisogno. E non il loro schema moralistico.

Elena Mazzola e alcune ragazze di Emmaus in fila al confine.

Dall’esperienza del movimento è nata Emmaus, una caritativa in orfanotrofio diventata nel tempo un’organizzazione che prova a dare una casa a ragazzi orfani e disabili, ai quali lo Stato post-sovietico, dopo i 18 anni, offre soltanto un futuro dentro un ospizio. Elena, che prima di arrivare in Ucraina lavorava all’Accademia delle Scienze di Mosca con Tatjana Kasatkina, oggi è convinta che a questi ragazzi sia legata la sua vocazione alla verginità. «Me ne sono resa conto quando, per la prima volta, Irka ha deciso di raccontarmi la storia della sua vita. Mi ha detto che quando le due levatrici videro il suo corpo deforme si sono messe d’accordo con il medico per dichiararla morta, per nasconderla alla mamma. Così lei oggi ha in mano il certificato della propria morte. Anni dopo è riuscita a incontrare sua madre, ma dopo poco la donna si è ammalata ed è morta. Si dimenticarono di avvisarla. Sentendo tutto questo, le ho detto: “Irka, ma non ti ha mai detto nessuno che sei sempre stata voluta e amata e che sei un regalo?”. Dalla sua reazione mi sono resa conto che non si era mai sentita dire nulla di simile. Lì ho capito che noi abbiamo una cosa che gli altri non hanno: “Io sono Tu che mi fai”. Il livello dell’autocoscienza, la certezza di essere voluti e amati, che ci permette di vedere lo stesso in chiunque altro».

Anche su questo aspetto “non si nasce imparati”. Elena ha dovuto attraversare la solitudine per farne esperienza su di sé, quando, dopo alcuni anni dall’apertura della casa dei Memores a Kharkiv, si è trovata da sola. «Mi sentivo dissestata. Mi domandavo: cosa ci faccio io ancora qui? Ho dovuto chiedermi che cosa mi tenesse in piedi. Una comunità perfetta o una casa secondo i canoni? In quel periodo ho sentito Carrón dire: “Siamo nelle braccia del Padre, noi verifichiamo questo. Che cosa ci manca per vivere se è così?”. Ed io l’ho sperimentato pur nella precarietà e nell’assenza di strutture, in mezzo alla pandemia».

Ma Irka e le altre ragazze di Emmaus hanno così radicato il sospetto che tutti ti tradiscano, che sono convinte che nulla possa durare per sempre. Ognuna di loro è un mondo di dolore. «Hanno già vissuto la guerra in un’altra forma. La violenza totale l’hanno già sentita sulla loro pelle», continua Elena. Tanto che la stessa Irina, quando Emmaus a gennaio ha iniziato a pensare come mettere al sicuro lei e le sue amiche, le ha detto: «Tanto lo so che tu te ne tornerai in Italia e ci lascerai qui». Ma così non è stato. Elena e i suoi collaboratori hanno fatto di tutto per proteggere queste cittadine ucraine che, tra gli indifesi, sono le più indifese. Quando le truppe di Putin hanno iniziato l’occupazione (e Kharkiv è stata subito uno degli obiettivi), la maggior parte dei ragazzi di Emmaus non era già più in città: alcuni erano già arrivati in Italia, mentre altri erano con Elena a Leopoli.

Dopo qualche giorno che erano usciti dall’Ucraina, Irka ha confessato a Elena: «La cosa di cui avevo più paura nei primi giorni di guerra è che venissi da me a dirmi: “Allora Dio non c’è”». «Lì ho capito», racconta Elena, «che a lei arriva una certezza di essere amata che non sono io. Dentro la guerra, era terrorizzata che noi perdessimo la fede».

Elena ricorda spesso che, nella situazione di completa incertezza prima del conflitto, ciò che ha permesso a lei e ai suoi amici e collaboratori di Emmaus di prendere iniziativa in tempo e mettere al sicuro i loro ragazzi è stato lo sguardo d’amore che nasce dalla fede. «È questo che rende più intelligenti nel leggere i dati della realtà. Prudenza e realismo sono state le nostre stelle polari. Anche in un momento in cui l’invasione russa sembrava soltanto lo scenario peggiore e meno probabile».

Al suo telefono in questi giorni arrivano decine di messaggi di conoscenti ucraini che chiedono aiuto. Una delle prime è stata la sua colf, che ora l’ha raggiunta qui. Anastasia, tra una poppata e l’altra, è continuamente al computer per organizzare pullman che vadano al confine.

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Le chiamate e gli sms arrivano anche da chi vuole accogliere. «In Italia si fa ancora fatica a capire la gravità della situazione e il trauma delle persone. È impressionante la disponibilità che vedo, una vera predisposizione cristiana all’accoglienza, ma a volte rischiamo un’astrattezza nel rapporto e le persone che arrivano sono tutte gravemente ferite, anche se immediatamente non si vede: c’è bisogno di attenzione alla persona reale, concreta, che è da guardare e ascoltare. Il Papa direbbe: bisogna decentrarsi. Non avere paura di soffrire e piangere con loro. Per me ne vale la pena». Dice che il guadagno è «amare gratis, l’unica cosa che ci realizza. Imparare ad amare come Cristo ama. Sei più intelligente, capisci di più, sei più umano». In che senso più umano? «Per me, in questi giorni, è importante non far finta che vada tutto bene. Io ho sotto gli occhi fatti bellissimi. Le persone che ci accolgono qui, e che vivono di fatto con noi, sono un miracolo nel senso più concreto del termine. O le tre ragazze che sono uscite dall’orfanotrofio soltanto lo scorso ottobre e che ora sono qui: non avevano mai messo il naso fuori dall’istituto, hanno visto Kharkiv per la prima volta con noi… non sapevano nulla del mondo. E io vedo che sono amate, sono un dono per noi e per il mondo, e mi domando: perché proprio loro? Sono davvero preferite da Dio. Ma io non posso neanche nascondermi che sto male. Per me la violenza che ci è fatta è insopportabile. Siamo dovuti scappare senza riuscire a portarci dietro nulla. Distruggono le nostre case. Tanti amici e conoscenti vivono sotto le bombe nel terrore. Il mio amico Maxim ha i genitori e un figlio a Mariupol e per oltre dieci giorni non sapeva se fossero vivi. Ho dentro un moto violento di ribellione e rabbia. Eppure questa è l’occasione per approfondire l’esperienza di Cristo. Lui che è morto sulla croce per me. Io voglio usare di questo dolore per imparare ad amare come ama Lui, portare tutto questo dolore come fa Lui, perché è questo che introduce qualcosa di nuovo nel mondo. Qualcosa di altrettanto reale e insieme opposto alla forza della guerra. Da questo capisco che la verginità non è che “tu ami e dai gratuitamente…”, ma nasce dall’accettare il livello di dramma e di solitudine, mio e di chi mi circonda. E dal riconoscere, sempre nuovamente, Chi a questo dramma risponde. E io vedo che questo spalanca a cose immense».