Forze di sicurezza kazake davanti al Municipio di Almaty a inizio gennaio (©Ansa/Xinhua.org)

Kazakistan. Dove finisce la guerra?

In alcune città del Paese, l’anno è iniziato con proteste di piazza e repressioni, molotov e vittime. Ora, il conflitto così vicino. Su "Tracce" di aprile, Lyubov, responsabile di un Centro per disabili a Karaganda, racconta la sua speranza
Davide Perillo

«Quando ho ascoltato il discorso di Putin, mi rimbombava dentro una parola: “Impossibile! Non può essere…”. Ma mi sono resa conto che tutto questo è possibile: perché la guerra, spesso, passa attraverso le nostre vite, la mia vita. Inizia lì». Lyubov Khon, 64 anni, tra i responsabili della comunità di CL in Kazakistan, vive a Karaganda, mezzo milione di abitanti nel cuore di un Paese grande quanto l’Europa Occidentale che all’inizio dell’anno ha vissuto due settimane drammatiche: proteste di piazza e repressioni, molotov e vittime (oltre 200 morti, migliaia i feriti e gli arresti). La causa scatenante era l’aumento dei prezzi, gas e pane. Ma la rabbia, probabilmente, pesca più a fondo. Per le strade di Almaty, la ex capitale, si sono visti per la prima volta dopo anni sangue e blindati e scene che, almeno in parte, hanno anticipato quelle che ora arrivano dall’Ucraina. E Lyubov, ex insegnante e oggi responsabile di un Centro per ragazzi disabili (si chiama Mayak, “Il Faro”, e meriterebbe un articolo a parte), si è trovata assieme agli amici davanti a una nuova tragedia, che li tocca molto da vicino. «Per noi è un dolore immenso. In Kazakistan, per vari motivi, si sono mescolati tutti i popoli che abitavano l’ex Urss. Molti ucraini vivono qui e hanno parenti là. Ma il dolore si moltiplica per dieci perché tante persone care – ad esempio, alcuni miei ex studenti, mia sorella e la sua famiglia – vivono in Russia».

Cosa si dice, lì, della guerra?
Se ne parla, molto. A volte con un solo obiettivo: trovare la propria posizione e difenderla a tutti i costi. E i confronti di questo tipo sono qualcosa di triste. Ma per me è chiaro che la guerra finisce là dove il cuore si apre alla ricerca della verità. Solo allora puoi guardare l’altro non come un nemico, ma come un fratello.

Lyubov, prima a sinistra, con alcune amiche

Hai visto qualche esempio, in queste settimane?
Una mia amica il primo giorno di guerra è venuta al lavoro portando nel cuore il dolore per la sorella, che vive in Ucraina; e ha litigato duramente con un collega che giustificava l’assalto russo. Quella sera abbiamo detto il rosario insieme agli amici. Il giorno dopo, la mia amica è arrivata al lavoro e ha abbracciato quel collega, senza dire una parola. Un altro fatto che mi ha colpito è stato vedere, sempre nei primi giorni, come vivevano la situazione un’altra collega e un’amica protestante che ha conosciuto attraverso di me l’esperienza del movimento: piangevano continuamente, mi sembrava che in loro si fosse spenta la scintilla della vita. Un po’ alla volta, però, si sono rese conto che avevano bisogno di una via d’uscita da questo stato. Così una ha partecipato alla nostra preghiera comune, l’altra – inaspettatamente – ha accettato l’invito a un incontro con le madri dei bambini disabili e il Vescovo. La prima poi mi ha abbracciato: «Quanto è bello che tu sia nella mia vita, ho cominciato a respirare». La seconda, uscita dall’incontro, aveva nel cuore la speranza non solo per i nostri ragazzi del Centro, ma prima di tutto per se stessa. Era evidente, negli occhi e nel sorriso.

E in te, che cosa sta provocando tutto questo?
Ho incontrato qualcosa nella vita che mi permette di guardare tutto senza paura. Dopo lo shock e la prima reazione, il cammino riprende: ho bisogno di tempo perché la memoria cominci a lavorare, perché Gesù si incarni e venga di nuovo a me e mi dia parole di vita. E non è sempre automatico. La guerra tante volte inizia dentro di noi.

In che senso?
Una persona a me cara è in un momento difficile con la moglie, che lo ha tradito: sta vivendo l’esperienza di una guerra piena di antipatia, di odio, di abbandono di sé... Io stessa in questo tempo ho esaminato onestamente il rapporto con mio marito, che per quasi un mese è stato pieno di rifiuti e rivendicazioni. Mi sono accorta che ho vissuto con un cuore freddo e duro. La guerra, spesso, inizia dentro di me. E ho capito che era una mia libera scelta vivere come in una guerra o vivere senza perdere la vita. Ho provato una tale povertà, un dolore per me stessa, per i vicini e per i lontani, e un tale bisogno di Gesù, che per la prima volta nella mia vita, piangendo, ho detto il rosario nel silenzio del mattino. In quel momento, ero davanti a Cristo con il mio bisogno. Gli ho chiesto di vincere la guerra che inizia dentro di me. È lì che quello che sta succedendo in Ucraina mi è passato nel cuore. Ho chiesto che Gesù si facesse carne della mia vita, perché la consapevolezza che Lui non mi lascia mi aiuta a guardare ciò che accade. Mi sono ricordata quello che Julián Carrón ci ha spesso riofferto di Giussani: «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”». Ed è qui che inizia la mia responsabilità: ho ricevuto gratuitamente la speranza, per condividerla con gli altri. È stato un primo passo di consapevolezza che ha avuto origine nel lavoro personale sulla Scuola di comunità. E mi stupisce come Dare la vita per l’opera di un Altro abbia dentro tutte le risposte al mio dolore, che smette di essere un ostacolo e diventa una compagnia al cammino, l’occasione per andare a fondo di ciò che ho incontrato.

Che cosa è decisivo per te in questa situazione?
Questo mio cuore che grida: ha bisogno di trovare un senso a tutto ciò. E le risposte che sento da ogni parte non bastano: sono come un rumore. Il primo aiuto è questo: la libertà e il bisogno mettono in moto la mia memoria e la mia ragione. Poi, mi aiuta la comunità: papa Francesco, con il suo dolore e la condivisione del dolore dell’altro e della Chiesa; Carrón, che nel 2014, in un incontro a San Pietroburgo in cui si parlava anche dell’Ucraina, aveva già dato giudizi illuminanti. E queste parole di don Giussani sull’Iraq, nel 2003: «La salvezza è data dal seguire Cristo, dall’immedesimazione col Suo sentimento dell’uomo e invocando la grazia che l’uomo faccia con la sua libertà ciò che Cristo ha fatto con la Sua: l’abbandono della propria debolezza mortale nelle mani della misericordia del Padre». Ma sono un aiuto grande anche le testimonianze di amici dall’Ucraina.

Nei mesi scorsi anche voi avete vissuto un periodo molto difficile. Cosa hai imparato in quei giorni di disordini?
Ho scoperto un urgente bisogno di verità e di una fede ragionevole. Mi sento libera nella nostra compagnia proprio perché è un luogo di verità. Per noi, qui, non è una cosa facile: per tanti anni ci siamo nascosti dietro schemi ideologici. Era più semplice trincerarsi nel silenzio, in una specie di autoinganno o di indifferenza passiva. In questo luogo, invece, posso fare domande, correre rischi e sollevare le questioni più scomode. Già il 12 gennaio, cioè prima della fine dello stato di emergenza, abbiamo ripreso le lezioni al nostro Centro. È stata una gioia grande per bambini e genitori. La sera stessa ho inviato una foto a un amico in Italia. Mi ha risposto che il nostro Centro è il segno che Dio vuole abbracciare tutto il Kazakistan. Quando l’ho letto, ho pensato che fosse esagerato: in quel momento la situazione era ancora troppo difficile... Ma dopo qualche tempo, rileggendo Generare tracce nella storia del mondo, mi è apparso evidente che non c’è una posizione che mi corrisponda più di quella di Giussani. Il paragrafo “Educare alla vita sociale” mi ha aiutato a comprendere le parole del mio amico sul centro giovanile: il nostro lavoro, che serve a rispondere ai bisogni di una persona, è caratterizzato dalla coscienza che il valore del singolo ha per tutti. «Attraverso il lavoro la realtà viene modulata e modellata dall’uomo (…) a partire dall’amicizia umana che si stabilisce tra coloro che si riuniscono in nome di Cristo e che si chiama Chiesa». Solo la Sua misericordia fa nascere la vita. Tutto il resto è guerra e dolore.

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Ad alcuni amici hai scritto: «Sono sicura che ciò che stiamo vivendo ora è una grande opportunità per tutti noi per riconquistare una posizione aperta, libera e determinata su ciò che abbiamo incontrato». Perché? Che cosa ti dà questa certezza?
Il mio cuore, il mio cammino in questi anni, la mia esperienza. Non sono le parole che mi convincono, ma ciò che si manifesta nell’esperienza e diventa chiaro. Ho fame solo di “parole” che alzino i miei occhi da terra. E la voce che può dirle appartiene a Colui che mi dà fiducia sempre, perché ha un amore così totalizzante per me che vince e abbraccia la mia fragilità. Solo davanti a Lui posso inginocchiarmi con tutta la mia sete di essere amata in questo mondo folle. Mi sono accorta di una cosa: durante il giorno mi dimentico di pregare, dimentico che c’è una guerra in corso, dimentico il dolore… Mi dimentico di Lui. Ma perché me ne accorgo? Perché Dio non smette di venire da me, e di bussare ancora: «Svegliati, guardati intorno, apri gli occhi… Sono qui». Il cammino che faccio in compagnia di certi amici mi risveglia e mi guarisce dall’incoscienza. Come anche vedere il bisogno che hanno tutti di Ciò che io ho incontrato gratis. Sui social ho messo una foto con don Giussani: «Questo è il mio grande amico, l’incontro con lui mi ha cambiato la vita». Nei commenti, una mamma del Faro ha scritto: «Grazie a te ho imparato a leggere le cose a un livello diverso». E io: «Senza questo incontro non ci sarebbero né la lettura più profonda, né il nostro Faro». Qualche giorno dopo ci siamo viste. E la prima cosa che mi ha detto è stata: «Mi devi dire chi è don Giussani. Voglio sapere tutto di lui».