L'esperienza delle "Jornadas Medico Quirurgicas de El Tocuyo"

Venezuela. «Il viaggio per curare, che ci ha cambiati»

Un anestesista e cinque laureandi milanesi in Medicina (più una spagnola). Due settimane nell'entroterra del Paese latinoamericano per offrire il loro aiuto a chi non ha nulla. Dalla mostra al Meeting di Rimini, una catena infinita di incontri
Davide Perillo

«Siamo andati a scuola da loro, letteralmente. Mi hanno ricordato gli Atti degli Apostoli e le prime comunità: “Un cuore solo e un’anima sola”. E una vita determinata dalla fede». Giorgio Gianessi, 71 anni, medico anestesista, una carriera spesa tra le corsie e i letti di terapia intensiva, non immaginava che la pensione gli avrebbe riservato sorprese come questa. E invece è bastato aprire le porte di casa, due estati fa, a un paio di amici arrivati dal Venezuela per il Meeting di Rimini, per ritrovarsi immerso in un’avventura a tappe. L’amicizia con Alejandro e Leo Marius, responsabili di CL nel Paese sudamericano. Il legame con Orizzonti, associazione cesenate che da 15 anni raccoglie fondi destinati ad opere sociali all’estero. La mostra del Meeting 2023 sul medico beato José Gregorio Hernández. La spinta decisiva di Amici del Venezuela APS, altra associazione nata apposta per sostenere iniziative e progetti in quella terra bellissima e sofferente. E all’inizio di dicembre, mentre i colleghi si godevano ponti festivi e luminarie natalizie, Giorgio è partito per Caracas con una compagnia inattesa: cinque laureandi milanesi in Medicina (più una spagnola), già coinvolti nella mostra riminese e invitati, come lui, a partecipare alle “Jornadas Medico Quirurgicas de El Tocuyo”.

Il nome è da congresso, la realtà è un’altra cosa, e tocca il cuore solo a raccontarla: due settimane in cui in una delle zone più povere dell’entroterra (El Tucuyo, appunto), dove cure e medicine sono un miraggio, decine di medici e infermieri volontari allestiscono un ospedale volante e operano, curano, danno assistenza...

L’anima di tutto è José Manuel Colmenarez, per tutti «Chema», chirurgo che avrebbe potuto godersi il suo status di privilegi e invece ha deciso di dedicarsi ai poveri. Amico dei Marius, era a Rimini anche lui. I ragazzi lo hanno incontrato. E un’idea che era aperta da tempo si è fatta di colpo concreta.

«Durante la mostra ho visto un modo di stare insieme, con i fratelli Marius, che mi ha fatto dire “gente così la seguirei in capo al mondo”», racconta Giulia Malangone, una degli studenti: «C’era il racconto di come avevano lavorato sul Beato e di quello che fanno in Venezuela: Trabajo y Persona, che aiuta la gente a formarsi e trovare un lavoro, Medicina Solidaria, che aiuta a curarsi… Ma soprattutto c’era uno sguardo che mi faceva sentire stimata ed amata. Ho pensato: voglio essere viva come loro. Era chiaro che la proposta del viaggio era al di là del fatto medico: c’era qualcosa da incontrare». Una combinazione di fattori a cui si è aggiunta l’intuizione di don Francesco Ferrari (responsabile degli universitari di CL): «Ci ha chiesto di andare per tutto il Clu, per aprirci al mondo e poi riportare a tutti la grandezza di quello che avremmo visto».

Il viaggio ha toccato Caracas, Barquisimeto, Isnotú (dove è nato il beato José Gregorio) e il monastero trappista di Humocaro, prima di approdare ad El Tucuyo. Dodici giorni e una catena infinita di incontri: fatti e persone di quelli che ti segnano, e ti cambiano. Daisy, per esempio. «È in carrozzella da anni, per un’artrosi invalidante», racconta Giorgio: «Prima era assistita dal marito, Pedro. Ma lui si è ammalato ed è morto. E lei è stata aiutata dalla comunità in maniera molto concreta: dai soldi per la spesa al tagliarle le unghie dei piedi». Era una dei tanti venezuelani sostenuti attraverso Orizzonti e Amici del Venezuela: «L’abbiamo incontrata. E vedi una persona che, in tutta questa sofferenza, è lieta». Oppure, le donne aiutate da Trabajo y Persona: «È bellissimo vedere come il fatto di aver imparato un mestiere, che per noi è quasi scontato, a loro ha cambiato la vita, il modo di guardare a sé, ai figli…», racconta Margherita Franceschi, un’altra dei ragazzi: «È quello che desidero per me».

Ma è un giudizio che si allarga ad altre cose, ad altri incontri. «Ho visto tanta gente che mi ha colpito per come si pone», spiega ancora Margherita: «In un Paese in difficoltà per un milione di motivi, hanno un atteggiamento bellissimo: supercostruttivo». Usa proprio questa parola, con quel «super» davanti all’aggettivo che dice molte cose. Anche del modo in cui gli amici del movimento si organizzano per rispondere ai bisogni. «Ho visto da vicino che genere di creatività può nascere dalla fede», racconta Giulia: «E mi ha colpito un fatto, evidente: la comunione: la soluzione al problema non era mai la risposta di un singolo, ma sempre un coinvolgimento di tutta la comunità. Appena scoprivano che eravamo italiani del movimento ci ringraziavano per il fondo comune. Nei momenti di crisi più dura, per loro è stata la salvezza, ciò che gli ha permesso di mangiare. E sono tra la comunità del mondo con la più alta fedeltà al fondo comune… Per loro non siamo comunità divise: Italia, Venezuela…Siamo una sola cosa». Racconta della mensa per i poveri di El Tucuyo, della Bolsa Solidaria, una specie di Banco alimentare, della raccolta di farmaci… «La mattina dicevamo Lodi insieme. Be’, durante le giornate ho avuto spesso l’impressione di vedere quello che avevamo appena letto. Hai presente? “Portare i pesi gli uni degli altri…”».

E i pesi, qui, sono massicci. «Nelle campagne ho visto le persone più povere che abbia mai incontrato», aggiunge Irene Zangrandi, altra collega di studi e di viaggio: «Vivono in baracche di fango con il tetto di lamiera, grandi come una stanza. Entravi portando un pacco di alimenti e ti chiedevi: ma qui Dio dov’è? Poi vedevi il sorriso della donna che ti accoglieva, contenta: “Quando torni?”. Ecco, vedere questa letizia nella povertà o nella malattia mi ha toccato molto». Come l’ha toccata vedere all’opera “Chema”, il dottore che ha messo in piedi tutto: «È stato come accorgermi che l’opera del beato José Gregorio, il medico dei poveri, non è una roba del passato. Lui fa esattamente le stesse cose. E la fa adesso».

Poi, i giorni del Tucuyo. Un fatto imponente, che offre la chance di curarsi ai più poveri di un Paese dove mancano cibo, luce e medicine, e dove persino nella capitale se trovi posto in ospedale spesso ti devi portare da casa farmaci e filo di sutura, figurarsi nelle campagne… Eppure in quelle due settimane vedi decine di camici bianchi arrivati da tutto il Paese per dare una mano, e code infinite fuori dagli ambulatori volanti e dalle sale operatorie provvisorie. «Noi abbiamo lavorato nella sala risveglio dei bambini», racconta Margherita: «Li portavano lì dopo gli interventi e stavamo con loro, li svegliavamo dall’anestesia e li portavamo dalle mamme. C’era caos ovunque, viavai, casino. Un ambiente molto diverso dal tirocinio. Al primo piatto pensavo: cavolo, non si fanno le cose così… Poi segui, osservi. E vedi un modo di porsi nella realtà che non è quello che ho in mente io». Cioè? «Non sono definiti dai limiti. C’è un problema? Lo affrontano, come possono. Mi ha ricordato quello che diceva don Francesco: non siamo andati lì perché siamo bravi, ma per imparare noi».

«Il primo giorno ero in ortopedia», racconta Irene: «Aiutavo i medici a fare quello che si poteva. Cioè poco, perché non c’erano farmaci specifici e strumenti adeguati: davamo a tutti un antinfiammatorio per togliere il dolore e via, ma così non curi la malattia. All’inizio ti viene da dire: “È inutile. Se capisco che patologia hai, ma non posso toglierla…”. Però vedevo che la gente era contenta. Quando me ne sono accorta, è cambiato tutto». Perché? «È stata una lente di ingrandimento per i giorni dopo. Hanno bisogno di qualcuno che li guardi, ancora di più che di guarire. E alla fine è quello di cui ho bisogno io».

Non è una cosa da poco. Soprattutto per chi sta imparando proprio cosa vuol dire curare, oltre che guarire. «Io faccio odontoiatria, rispetto agli altri forse avevo meno responsabilità, ma più interventi diretti: un’estrazione di denti dopo l’altra», racconta Andrea Carnovale, un altro dei ragazzi: «Al terzo giorno sentivo già un po’ di routine, ogni tanto mi veniva da pensare “quanti ne mancano? Finiti i pazienti, ho finito il mio compito”. Ma poi mi rendevo conto che il giorno dopo ne sarebbero arrivati altrettanti, e poi altri ancora…». E quindi? «Davanti a queste cose capisci che non potrai mai risolvere il bisogno». Dice di averne parlato con gli altri e con padre Leo Marius, una sera. «E lui ci ha incalzato: “È proprio questo il punto: qual è il vero bisogno?”. In quel posto dove la gente ha mille necessità, sei aiutato a renderti conto di qual è il bisogno vero della vita».

E sei aiutato a fare i conti con la radice di tutto. «Il primo giorno ho seguito una sala operatoria», racconta Giacomo De Petri, l’ultimo dei ragazzi italiani (la spagnola era Gloria Rodriguez): «Dovevo riportare giù i bambini appena staccati dalla ventilazione artificiale. L’ho preso su, e ho ripensato a una cosa che mi era successa tempo fa. Avevo preso in braccio una mia amica, malata, che non riusciva a muoversi, e mi era venuta in mente l’immagine della Pietà, il corpo morto di Cristo, e la gioia infinita che mi aveva preso, misteriosamente. Perché quello che desidero di più è avere a che fare con il dolore innocente e poterlo sorreggere con la mia piccolezza. Ecco, quando i bimbi uscivano dalla sala operatoria pensavo a questo. È una delle cose che mi legano di più al mondo della medicina».

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Una gioia misteriosa. Simile a quella che hanno incontrato in un’altra tappa. Non era una sala operatoria, né una baracca di poveri, ma il monastero trappista di Humocaro. Se chiedi ai ragazzi qual è stato il cuore del viaggio, ti rimandano lì, all’incontro con madre Cristiana Piccardo. «Ha 98 anni, è praticamente cieca ed è arrivata su una sedia a rotelle», racconta Giulia: «Ma è chiarissimo che porta con sé qualcosa di più grande, di non umano. Quando parlava, parlava un Altro. Ci ha detto: “Siete davvero del movimento? Se è così, dovete essere in movimento. Perché è di questo che ha bisogno il mondo: che ognuno di noi, per come è, si muova. E parli di Cristo”».