Tracce N.1, Gennaio 1996

Natale di persone... che hanno la statura dei propri desideri...
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Quando inizia un anno nuovo ci si profonde in auguri di ogni felicità, di bene, ecc. Potremmo dire che si tratta, in genere, di una consuetudine poco seria. Nel senso che raramente quelle parole - bene, felicità - vengono prese seriamente. Sono un modo di dire.
Quando in un popolo le parole più serie e importanti, che esprimono ciò per cui vale la pena vivere e anche offrire la propria vita, divengono vuoti modi di dire, allora significa che quel popolo è diventato schiavo, e schiavo nel cuore. La schiavitù del cuore si chiama «plagio». E, infatti, viviamo in una società invasa, attraverso i media, da una cultura per cui la felicità e il bene sono dei sogni o dei momenti effimeri; al massimo, sono cose di cui provare una struggente, ma sterile nostalgia.
Siamo tutti plagiati e proprio nella concezione di ciò che è più caro all'uomo. Non a caso questa è l'epoca di maggiore schiavitù: un uomo plagiato nella concezione di felicità si adatta molto facilmente a ciò che il potere e la mentalità dominanti gli presentano come simulacro della felicità.
In una cultura così - che si manifesta innanzitutto come costume - chi ancora conferisce un significato a certe parole e persegue ciò che esse indicano risulta un po' matto e come tale va isolato, se possibile espulso.
Il cristiano è l'uomo che ricorda al mondo il valore vero di ciò che indicano quelle parole. Entra in polemica col mondo poiché ricorda ciò che tutti, plagiati, vorrebbero scordare. Non ha intenzioni polemiche: la Chiesa, nei Cori da "La Rocca" di Eliot, non entra in scena polemizzando, ma considerando e condividendo «l'infinita fatica» di essere uomini. Ma è il mondo a stabilire i termini inevitabili della polemica, intimando al cristiano, come già a Paolo nell'Areopago, di lasciar stare certi discorsi e di non toccare certe questioni. Già Nietzsche si scagliava contro «l'ardente desiderio del vero».
Non si tratta di una polemica ideologica: innanzitutto, il cristiano non oppone al mondo una certa «idea» di felicità, né organizza tavole rotonde per mettersi d'accordo sui termini di un discorso. Egli propone un'esperienza di bene e di felicità così come gli è resa possibile dall'incontro con la persona di Cristo, viva oggi nella storia in persone che hanno la statura dei propri desideri. È un incontro che libera da qualsiasi schema del mondo sul bene e sulla felicità, proprio perché in esso si registra, ragionevolmente, una corrispondenza inedita con ciò che il cuore, pur sepolto nel plagio generale, non cessa di desiderare. Così, anche la madre nella discrezione della sua casa e il timido ragazzino nella sua classe, per il fatto stesso di aver incontrato Cristo e di aver ripetuto nella penombra del loro cuore lo stesso «sì» di san Pietro, realizzano una ribellione contro la schiavitù del mondo e fissano il punto di riscossa della libertà. Si tratta di una riscossa che può estendersi fino agli estremi confini del mondo - dall'Argentina alla Siberia - e ai più capillari aspetti del vivere personale e sociale.
In un'epoca in cui l'odio del mondo non cessa di attaccare con sempre maggiore astuta pervicacia la presenza viva del Dio fatto uomo, l'alternativa quotidiana dinanzi a cui siamo messi è quella tra plagio e libertà. E l'essere stati scelti per un'esperienza di libertà non è un ergersi guerresco contro il mondo, quanto piuttosto l'esercizio di una inesausta pietà, per una battaglia, pur così piena di limiti e di mancanze, per il mondo.