Tracce N.1, Gennaio 2007

Fede e nichilismo. Non chiudiamo gli occhi
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Proponiamo l’articolo di don Carrón pubblicato sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2006 e sul quotidiano spagnolo El Mundo del 26 dicembre

Caro Direttore, il contesto umano e culturale in cui viviamo può essere identificato con una parola: confusione. Ce ne rendiamo conto per l’urgenza in noi di una certezza. Tutta la confusione in cui siamo immersi, infatti, non può evitare l’emergere del desiderio di verità, giustizia, felicità che ci costituisce. «Ho cercato me stesso. Si cerca solo questo» (Pavese). Insoddisfazione, inquietudine e tristezza ci dicono che il desiderio del cuore è inestirpabile - come un dato che nessun nichilismo può vincere -. Neanche la nostra menzogna, i nostri tentativi di far finta che non esiste, è in grado di sradicarlo. Tanto è vero che non vediamo altra via d’uscita che odiarlo: «Quando si annebbia, il cuore grava come peso insopportabile. Ed è difficile reggere questo peso senza avere in odio se stessi, senza rimpiangere di essere nati» (Maria Zambrano).
Si capisce questo odio perché, non trovando la presenza che lo compia, il desiderio di felicità è come un impeto impazzito, che non sa più dove andare. Ma neanche può auto-distruggersi perché è costitutivo e chi ci ha costituiti è un altro, è il Destino. Per questo anche nell’abisso della dimenticanza si può riaccendere il desiderio di tornare a casa. Fu così per il figliol prodigo. E lo è per chiunque abbia ancora una briciola di tenerezza verso di sé, «perché alla vita basta lo spazio di una crepa per rinascere» (Ernesto Sábato).
Il cuore resta come baluardo contro il nichilismo. Dare credito al cuore, al desiderio di tornare a casa, è l’inizio della ripresa. Sembra un niente, ma è ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la verità, se per caso ci viene incontro. Nel cuore, infatti, abbiamo il criterio per giudicare: «L’inferno - scrive Italo Calvino - è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Dare spazio a che cosa, se ogni cosa, ogni volto, anche i rapporti più cari, sembrano non avere forza e consistenza per vincere l’inferno? Ci vorrebbe qualcosa di eccezionale per respirare e vivere. Il Natale di Cristo è l’annuncio di questa eccezionalità che irrompe nei confini chiusi dell’umana esperienza: il Verbo si è fatto carne, Dio diviene uno di noi.
Eppure oggi siamo abituati a parlare del Natale come sentimento, folklore, rito già saputo, piuttosto che come fatto eccezionale, fino al punto che la fede non interessa quasi più a nessuno, nemmeno a tanti che frequentano la Chiesa. Gli interessi della vita sono altrove. «Ma com’è possibile - si domanda Benedetto XVI - che un uomo dica “no” a ciò che vi è di più grande; che non abbia tempo per ciò che è più importante; che chiuda in se stesso la propria esistenza?». E risponde: «In realtà, non hanno mai fatto l’esperienza di Dio; non hanno mai sperimentato quanto sia delizioso essere “toccati” da Dio!». Come possiamo essere “toccati” da Dio? Solo attraverso l’umanità cambiata di testimoni, non perché più buoni, ma perché presi, afferrati da un Fatto che muove tutta la loro vita, come è accaduto, d’improvviso, ai pastori: «Venite a vedere! Per voi un bambino è nato!».
Così il Natale è una speranza per tutti. Basta guardare e lasciarsi “ferire” dalla sua bellezza, così come descrive la liturgia della notte di Natale: «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore». Questo stupore riecheggia nelle parole di Pasolini: «L’occhio guarda… è l’unico che può accorgersi della bellezza… la bellezza si vede perché è viva, e quindi reale. Diciamo, meglio, che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio». Oggi, come duemila anni fa. È questo infinito desiderio che da allora fa gridare alla Chiesa: «Vieni, Signore Gesù!». Grazie.
Julián Carrón