Tracce N.11, Dicembre 2002

... non entrerete mai?
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Per lo spirito si va a Dio… Che straziante infortunio!». In queste parole di Arthur Rimbaud c’è il dramma della coscienza umana, specialmente di quella contemporanea. Per gli uomini del nostro tempo Dio - secondo l’insegnamento secolare di schiere di filosofi e di maestri di religione - sembra essere una realtà raggiungibile solo attraverso una lunga e complicata strada spirituale. Una via spirituale: ecco quel che occorre per conoscere il segreto ultimo del reale, per abbracciare finalmente quel che corrisponde alla vastità e alla profondità del desiderio di vero e di bello che anima la vita umana. Su questa via si sono incamminati molti uomini, lasciando segni luminosi e pure incerti delle loro conquiste. Al di là di una serie infinita di veli e di passaggi dovrebbe infine trovarsi Dio. La maggioranza degli uomini resta un po’ timorosa e perplessa. E cessa, infine, tra le pressioni della vita quotidiana, di porsi il problema chiamato Dio. Oppure tende a dare ascolto ai tanti falsi maestri che prospettano una via spirituale più alla mano, più comoda, meno impegnativa. E così, specie in tempi di insicurezza e di ansie, prolifera una proposta di bric-à-brac dell’anima, di “vie” a Dio o al benessere o all’equilibrio, in un calderone indistinto.

Ha ragione Rimbaud: è uno “straziante infortunio”. Perché l’uomo non è fatto di puro “spirito”, non è un essere che vive dalle nuvole in su. Ogni giorno l’uomo ha a che fare con altri uomini in carne e ossa, con faccende legate ai problemi della sopravvivenza e della crescita. Se fosse una realtà che si pone al termine di un difficile e confuso cammino spirituale, allora Dio sarebbe una specie di infortunio e la sua ricerca un’azione che dà inciampo, una straziante contraddizione al vivere. Come se essere vicini a Dio significasse, in un certo senso, essere meno uomini.

Il mistero dell’Incarnazione sovverte questo “normale” e dominante modo di pensare. Il “sì” pronunciato da Maria all’Annuncio e poi ripetuto ogni giorno di fronte alla presenza di quel Bambino è la prima parola di una lingua nuova con cui gli uomini parlano con Dio e di Lui. Una familiarità inaudita. Una tenerezza che rompe ogni rigidità dello sforzo umano di arrivare a conoscere Dio. Lui, preda imprendibile dell’immaginazione umana e dell’ascesi spirituale, si fa prendere in braccio come un bambino, mangerà a tavola, camminerà con gli amici, si farà uccidere senza opporsi, tornerà in vita per non lasciare mai più soli e persi i suoi e il mondo che lo cerca.

Il silenzio dei pastori, dei magi, di quel popolo di colti e di incolti, di poveri e di ricchi, di animo semplice, che si avvicinò alla mangiatoia è l’atteggiamento più profondo e autentico di fronte a un Mistero che colpisce il cuore e la ragione umani.

«Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai», ricorda Claudio Chieffo in una sua canzone. Come duemila anni fa, l’alternativa nasce subito di fronte a quel Bambino: tra il silenzio stupito e commosso di chi sa di ricevere un dono eccezionale e misterioso e il chiacchiericcio di chi non se ne accorge o non ne vuole sapere. E oggi come allora, chi regna sul pensiero degli uomini si allarma perché accade un fatto irriducibile ai suoi disegni e alle strategie per il mantenimento del potere. Perché ogni genere di potere umano che intenda strumentalizzare l’altro per i suoi scopi - da quello esercitato nel piccolo dell’esistenza personale a quello che pretende di gestire il pensiero e la vita di un popolo - ha bisogno di un Dio lontano, irraggiungibile e confuso. Che non metta in questione nulla. Che non faccia sobbalzare di imprevista e profonda libertà il cuore e la vita di nessuno. Ma è successo, duemila anni fa, a Betlemme. Continua a succedere, in ogni parte del mondo. Riconoscerlo è un problema di semplicità del cuore. Per questo «se non ritornerete come bambini…». Buon Natale a tutti.