Tracce N.3, Marzo 1998

Il '68, la sussidiarietà e lo Stato
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Durante un recente incontro con un gruppo di soci della Compagnia delle Opere, il cardinale di Bologna Giacomo Biffi ha invitato ironicamente a "festeggiare" con la dovuta enfasi la data del 18 marzo. Qualcuno ha pensato a un errore o a uno scherzo. Ma l'Arcivescovo ha subito spiegato che in quel giorno del 1968 lo Stato italiano aveva deciso l'istituzione di scuole materne statali. Di tutte le presunte "rivoluzioni" sessantottine che quest'anno verranno celebrate, questa fu una rivoluzione reale: mentre si parlava di liberazione e di nuovi diritti, le cose andavano tranquillamente dalla parte opposta, cioè nel senso di una diminuzione della libertà. Dopo più di cent'anni dall'Unità d'Italia, lo Stato aveva deciso di intervenire massicciamente e direttamente sull'educazione dei più piccoli e nel servizio alle famiglie. E per tutti quei cent'anni chi ci aveva pensato? E prima dell'Unità? Una miriade di scuole materne, di asili e di iniziative spesso sorrette da opere religiose o da privati.
Ebbene, nel '68 lo Stato si mise a istituire proprie scuole a ridosso di quelle che c'erano, spendendo molti soldi e con il risultato di costringere alla chiusura quelle che, reggendosi su sforzi privati, subivano una insopportabile concorrenza da parte di enti pagati con denaro pubblico.

Dopo trent'anni da quel 18 marzo che confermò la pretesa dello Stato di essere anche educatore e perfino "bambinaia", sembra che ancora tanti cattolici, aldilà dei proclami, non si rendano conto di quanto il principio di sussidiarietà del quale parla la Chiesa sia continuamente negato o travisato nei fatti. E dovrebbero allarmare le dichiarazioni di esponenti del governo e dell'opposizione, secondo cui viene riconosciuto al cosiddetto "privato" facoltà di intervento solo laddove Stato, Regioni e Comuni non riescono a rispondere ai bisogni della vita personale e associata. Questo significa esattamente il rovesciamento di quanto prevede il principio di sussidiarietà, il quale stabilendo il primato dell'iniziativa sociale rispetto a quella diretta dello Stato, non solo si mostra più realistico circa il possibile funzionamento e la qualità dei servizi e delle iniziative di pubblica utilità, ma di fatto salvaguarda la libertà. Una attenta osservazione di quanto negli ultimi anni si è imposto attraverso i mutamenti legislativi in vari campi della vita sociale vede paurosamente diminuito il margine di libertà reale per l'iniziativa non-statale. Il che significa, peraltro, un impoverimento culturale ed economico del nostro popolo. Certi effetti li paventava duecento anni fa anche Giacomo Leopardi, quando nello Zibaldone raccomandava: «La perfezione (dell'economia pubblica) consiste nel conoscere che bisogna lasciar fare alla natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l'industria è più libera, tanto più prospera, e tanto meglio camminano gli affari della nazione».

Mentre tutto questo accade, si ha la netta impressione che anche cosiddetti cattolici impegnati in politica non siano attenti e preparati, o perché distratti da faccende secondarie o, peggio, perché culturalmente affini al progetto che vede nello Stato lo strumento con cui chi ha il potere invade la vita di tutti e fissa l'unico valore reale di riferimento. Così scrive il Premio Nobel Czeslaw Milosz: «Si è riusciti a far capire all'uomo che se vive è solo per grazia dei potenti».
La testimonianza del cristiano non si esprime compiutamente se non è tesa a esaltare e a salvaguardare l'irriducibile libertà della persona dinanzi a qualunque potere. Altrimenti il cristianesimo tende a diventare un'ideologia o una dottrina forse interessante solo per chi si occupa di vicende «dalle nuvole in su».