Tracce N.5, Maggio 2002

Un destino misterioso e buono
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Uno dei luoghi comuni che circola - senza che sia mai criticamente tematizzato, in particolare di questi tempi - è quello di chi dice: «Io invidio chi ha la fede». Giornalisti, scrittori, politici lo dicono magari sinceramente, ma intendendo il dono della fede come la fortuna di una speciale consolazione. Come avere la fortuna di un rimedio, di un farmaco che lenisce le pene più dure e insopportabili.
È uno dei modi con cui si caccia la fede tra i fenomeni che non c’entrano con la vita da subito, ma, come dire, un attimo dopo. Come se ci fosse prima la vita, che normalmente ha una certa dose di avventura e di esperienza del limite e poi, dopo, venisse la fede a rimediarla, a tenerla un po’ su.

Se questo viene fatto valere nella sfera personale, figuriamoci nella sfera pubblica e nella storia collettiva. Il mondo è un teatro orrendo di guerre e di sopraffazioni, e i più ritengono che la fede in esse non abbia nessuna possibilità di incidenza positiva, reale. Quando il Papa, anche sui recenti fatti del Medio Oriente o su quanto è accaduto con l’11 settembre a New York, ha richiamato tutti a una posizione autenticamente religiosa per tentare di risolvere i problemi, è sembrato ai più uno “fuori gioco”.
I paladini dell’ideologia non hanno mai sopportato chi afferma che la fede possa avere un’incidenza sul reale della vita di un uomo, a qualsiasi livello della sua azione, personale e pubblica.
Ammetterlo significherebbe rimettere in discussione le presunte certezze su cui il pensiero dominante invita a fondare l’esistenza: la riuscita, il potere, un benessere inteso come difesa del perimetro della propria tranquillità. Significherebbe ammettere che la posizione principale che un uomo deve assumere è quella sul senso del proprio destino. Invece, di fatto, si respira un imperativo generale: non importa prender posizione circa il destino, circa il significato della vita e delle cose. Quel che conta è altro, sempre altro.

È diffuso il luogo comune che la fede nasca dalla paura. Invece è proprio l’uomo che sente ostile e lontano il significato della sua esistenza da doverla riempire di cose e di rapporti che lo distraggano da quel rapporto fondamentale, e che lo “consolino”. E quanto più il problema emerge, per circostanze personali o storiche, tanto più è violenta e acuta la censura. Per questo, ricordava Eliot, nella nostra epoca la Chiesa non è più desiderata. Perché avere a che fare con una presenza che ricorda incessantemente il problema del rapporto con il destino? La si eviti, e la si attacchi, con l’irrisione, o con l’infamia se necessario.
Gesù Cristo è entrato nella storia con un inaudito invito rivolto all’uomo: «Non piangere!». La vita, con tutto il suo carico di limiti e di dolori, non è una cosa da compiangere. Quell’invito non è una passeggera e perciò crudele consolazione, ma la comunicazione di una certezza: il destino della vita è la felicità. Tale certezza coincide con la possibilità del rapporto con il destino presente, con il significato del mondo fatto uomo, con la verità finalmente non più sperduta tra le congetture e i desideri, ma viva e amica.

Solo il Dio che ha preso carne - e con essa ha conosciuto l’esperienza della morte - e che ha portato tutto l’umano nella Resurrezione, può commuoversi per la condizione degli uomini e comunicare a essi la certezza che la vita non è cosa vana, per cui «non c’è nulla che possa fermare la sicurezza di un destino misterioso e buono», ha detto don Giussani concludendo gli Esercizi spirituali della Fraternità di Cl a Rimini.