Tracce N.5, Maggio 2004
La vittoria sul nulla è la grande Presenza di un'altra cosaLeggi
Se eliminiamo Cristo, uccidiamo Dio, aveva sentenziato Nietzsche - tutta l’epoca
moderna ha preso sul serio la terribile affermazione di uno dei suoi tragici
profeti -. Egli aveva visto che l’idea di Dio può essere indebolita
fino a risultare inefficace nella vita e nella coscienza degli uomini. Dio può restare
come un’idea confusa e inerte sullo sfondo. Per questo egli sentiva nella
presenza e nella pretesa di Cristo una sfida inaccettabile. Gesù riporta
Dio in primo piano, e con la sua presenza di Risorto è uno scandalo insopportabile
per ogni filosofia o azione o ideologia che pretende d’essere la vincitrice
della questione umana. Per uccidere Dio, aveva dunque concluso Neitzsche, occorre
eliminare Gesù Cristo. RicacciandoLo in un passato remoto dal quale non
può più esercitare alcun influsso sul presente. E quindi opponendosi
al frutto annunciato della Sua resurrezione: un popolo che percorre la storia,
che fa storia. Nel migliore dei casi, se ne tollera il ricordo per la devozione
di anime pie, ma niente di più. Per questo il grido di Péguy - «Lui è qui
come il primo giorno. Eternamente ogni giorno» - suona come follia inaccettabile
in un’epoca che ha voltato le spalle alla Chiesa.
La scrittrice Oriana Fallaci, in un impeto di difesa dell’Occidente, ha
voluto definirsi «atea cristiana», una contraddizione in termini
che descrive la situazione di tanta umanità contemporanea: del cristianesimo
si accetta ancora l’armamentario di valori culturali o morali, ma non la
pretesa di essere nel presente un avvenimento di una ripresa continua. Il sentimento
della vita naviga in altre acque. Così si possono leggere articoli di
noti giornalisti cattolici, per i quali «non è importante che Gesù Cristo
sia Figlio di Dio», e di altrettanto famosi giornalisti non credenti, che
si domandano «che importanza ha che ci sia o non ci sia una croce» sulla
bara di un morto. Dove sta la differenza?
Agli Esercizi spirituali della Fraternità di Cl, al termine del suo intervento
(che pubblichiamo a pagina uno) don Giussani ha voluto dettare questa frase: «La
vittoria è della Pasqua e dell’immortalità. E vittoria della
Pasqua è, così, il popolo cristiano. Questa è la vittoria
di Cristo contro tutta la “vittoria” del nulla».
Tutta la nostra vicenda di uomini si gioca sul modo di intendere la parola “destino” -
e ha come termine una sconfitta o una vittoria -; se il destino è un ignoto
lontano, appare come un potenziale nemico che ci procura solo guai e infine la
morte; se invece è presente, diventa il principale alleato nella nostra
lotta per la vita: un Mistero che si documenta come “sovrabbondanza” dell’Essere
e non come mancanza di qualcosa, secondo le parole di Julián Carrón
a Rimini durante i citati Esercizi.
La Chiesa porta nel mondo la visibilità di un destino che è presente
in una realtà di uomini e donne cambiati, inizio del cambiamento del mondo.
I cristiani sono precisamente il volto con cui l’avvenimento di Cristo
percorre la storia come promessa compiuta di un’umanità più vera.
E quando l’uomo rifiuta questa proposta e si allontana da essa, immediatamente è costretto,
per rimanere coerente, a dimenticare o a rinnegare qualcosa dell’umano,
sempre. Se eliminiamo la carne del Mistero, se lo cacciamo tra le nuvole, è come
se uccidessimo Dio, il destino. E con esso l’uomo.
La presenza di Cristo è la vittoria che oggi come duemila anni fa è possibile
vedere, udire e toccare nella realtà di un popolo. È una coscienza
sempre positiva della vita e una vibrazione di continua ripresa, di ragionevole
insistenza sul positivo. Accadde ai primi che riconobbero Cristo risorto a Emmaus
o sulla riva del lago dopo la mattina della resurrezione. Accade oggi al popolo
che è costituito ogni giorno da quella eredità, da quell’incontro
con la vittoria cha ha reso tutta la vita, anche nelle sue ombre, un mattino,
sempre un mattino.