Tracce n.5, Maggio 2022

Non chiudere gli occhi
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«Amicizia vera è ogni rapporto in cui il bisogno dell’altro è condiviso nel suo significato ultimo, vale a dire in quel destino a cui ogni bisogno desta e che costituisce il termine della sete e della fame dell’uomo». Così don Giussani nel 1997 definiva l’amicizia, dicendo che «questo è il nostro contributo alla pace qui e dovunque». Parlava dell’«accadere di una concezione di vita», di un sentimento del reale, di una onestà di fronte alle circostanze, di una tenerezza dei sentimenti, di una capillarità delle attenzioni, di tutto ciò che «lentamente» ha fatto emergere «la famiglia cristiana», ha fatto rinascere la vita dalla barbarie che dominava il V e VI secolo. E il presente non è lontano da lì. Questo mondo che «non ha bisogno di parole vuote», dice il Papa, «ma di testimoni convinti». Convinti di che cosa sia fatta la pace. Parola sfacciata, se non impronunciabile, a meno di non essere considerati illusi.
La pace richiede il cessate il fuoco e un lavoro insostituibile, continuo, che «si fa tutti i giorni», dice Francesco, la cui voce profetica, oggi isolata, ha la forza di unire la dimensione geopolitica e personale, sfida l’inimicizia nel cuore dell’uomo. «Il Vangelo ci chiede soltanto di non guardare da un’altra parte», scrive in Contro la guerra – antologia di nove anni di Pontificato –, perché il conflitto si radica dove si dissolvono i volti: «Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non è permesso sfregiarne la dignità con violenza». Per questo chiede: «Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite».

Mentre andiamo in stampa il conflitto in Ucraina continua devastante, con il peso di oltre sessanta giorni di corpi e anime oltraggiati. Sui resti delle città non è scesa la tregua invocata per la Pasqua ortodossa. E non smettono di sanguinare tutte le altre ferite del mondo. Ed è raro trovare qualcuno che spera senza dover chiudere gli occhi davanti alla realtà in tutto il suo dramma. Ma si può vivere un dolore «che non si oppone alla fede», che anzi «è un modo di condividere la fede con coloro che muoiono, soffrono, sono perseguitati», come leggerete nell’intervista a monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, che fissa lo sguardo su tutte le Maddalene di oggi, donne e uomini che portano una speranza più grande di loro, perché la guerra non ha esaurito il loro desiderio di incontrare Cristo vivo. Questa sarebbe la sconfitta più grande, che si prosciughi il desiderio che attraversa ogni fibra del nostro essere.
Vogliamo raccontare fatti che, nella barbarie, diventano storia, perché risvegliano quell’anelito, e penetrano il mondo come l’acqua, come la grande arte di Tarkovskij nel monolite della menzogna: il bisogno di verità, la consapevolezza di sé, passa da ogni fessura.