Tracce N.6, Giugno 2012

Sulla roccia
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Ci sono giorni in cui a sfogliare i giornali ti sembra di sgranare un rosario di misteri dolorosi. Il dramma della Grecia e di un’Europa in crisi di avvitamento. La tragedia di un terremoto che sembra non finire mai. Poi, la ventata amara di quei titoli sui «corvi in Vaticano» e le carte rubate dalla casa di Benedetto XVI. Pensi al Pontefice, alla tristezza che deve avere in cuore, ed è difficile non sentire un dolore acuto, un mal di mare che non è certo sanato da commenti del genere «siamo con il Papa, ma bisogna fare pulizia» né da chi ti ricorda - pure a ragione - che «in fondo la Chiesa è fatta di uomini».
Uomini, certo. Sbagliano. Sbagliamo. Lì in Vaticano, nel cuore del cuore del mondo, in quel pezzo di storia che Cristo ha voluto sua per sempre per restare nella storia. E qui, nel piccolo - o nel grande - delle nostre vite quotidiane. Sbagliamo. Pecchiamo. Ma soffriamo, per questo. Che cosa permette di non essere travolti da questo dolore?

È lì che il pensiero torna all’editoriale dell’ultimo Tracce. Era la lettera di Julián Carrón pubblicata da Repubblica, a maggio. Ce ne occupiamo anche più avanti, perché ha avuto un impatto potente. Anche lì si parla di errori e dolore. Altri errori, di altro genere, ma lo stesso «dolore indicibile nel vedere che cosa abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto». Fa impressione riprenderla avendo davanti le cronache di questi giorni. Perché, in qualche modo, le legge. In tutto. Nella radice dell’errore (il lasciar prevalere i nostri progetti, l’«egemonia», sul fascino della presenza di Cristo) e in ciò che ci permette di non esserne travolti: «Come il popolo di Israele, possiamo essere spogliati di tutto, andare persino in esilio, ma Cristo, che ci ha affascinato, rimane per sempre. Non è sconfitto dalle nostre sconfitte».
Rimane per sempre. Ma dove?
Ecco il fascino indistruttibile della fede. Davanti a questa domanda - «dove?» -, lo sguardo non gira a vuoto. Può posarsi su un punto. Su un volto. Il Papa. Ti accorgi che la salvezza sta lì, in quel perno a prima vista fragilissimo che pure sorregge la fragilità di tutti noi, anche di chi gli sta più vicino. Un nulla, un punto che sembra sempre sul punto di essere spazzato via dalla tempesta. Eppure è lì, irriducibile. Da sempre. «La casa costruita sulla roccia della fede non cade», come ha ricordato lo stesso Benedetto XVI proprio pochi giorni fa. L’io, la persona generata dalla fede, può tremare, ma non cade. Neanche nella crisi. Neanche davanti ai terremoti. E la roccia, l’àncora della fede, è Pietro. Così tenacemente irriducibile da essere in grado, per esempio, di indicare a tutti una strada chiara e netta anche in questi tempi di buio, come ha fatto con il formidabile discorso rivolto all’Assemblea dei vescovi italiani che trovate in queste pagine.

È anche per questo che aspettiamo di abbracciare il Papa a Milano. Mentre Tracce va in stampa, l’Incontro mondiale delle Famiglie è appena all’inizio e il Pontefice non è ancora sbarcato in Lombardia. Però faremo in tempo ad allegare al giornale una sintesi dei suoi discorsi alle famiglie, e al mondo. È uno strumento, un altro, per seguirlo da vicino. Per rispondere più certi a quel «dove?». E diventare più uomini.