Tracce N.7, Luglio/Agosto 1997

La barbarie e la gratuità
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Un acuto e attento lettore de "i libri dello spirito cristiano" - la collana diretta da don Giussani presso l'editore Rizzoli - ci ha segnalato questa frase, a pag.32 del volume dello storico C. Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale: «La nostra generazione si è trovata nella necessità di comprendere come sono fragili e inconsistenti le barriere che separano la civiltà dalle forze di distruzione. Si è imparato che la barbarie non è un mito pittoresco o un ricordo semidimenticato d'un lontano passato storico, bensì una spaventosa realtà latente che può erompere con forza distruggitrice... ».
Quel lettore notava, e noi con lui, la straordinaria attualità di tale giudizio. L'inciviltà, infatti, inizia dove non sono più riconoscibili i tratti fondamentali del volto umano. E gettando uno sguardo intorno, c'è da essere in allarme.

C'è un punto in cui inizia la distruzione del volto umano: quando la realtà e la concretezza degli atti di un uomo sono concepite e realizzate senza riferimento a quel rapporto costitutivo, misterioso ma evidente, col Destino come creatore di tutto, uomini e cose.
Contrariamente a quello che la mentalità dominante ritiene, il segno di questa distruzione non sta nel venir meno dell'etica che si esprime in tante cosiddette leggi come regole: civiche, penali o religiose che siano. Non quando saltano le regole, bensì quando non ci si raccapezza più sulla reale natura delle cose, e quindi sul loro scopo ultimo, allora si ha l'inizio di un'epoca contronatura. Quale appello morale, infatti, può impedire alla barbarie di conquistare il terreno della vita di un popolo, saccheggiandone e depredandone la tradizione? Avere bisogno di dimenticare il passato (vedi, per esempio, la riforma della scuola) per essere più ricchi e certi in un presente , questo segna l'orlo dove comincia la barbarie. Ironia della sorte, in un mondo dominato da regole e da "maestri" delle regole, su tutto prevalgono usura, lussuria e potere, vale a dire l'istinto eretto a sistema di pensiero e di vita pratica.

Eppure anche sotto la montagna di detriti che ingombra il nostro tempo, nel cuore di tanti permane quel filo di desiderio che può muovere la libertà a riconoscere una risposta convincente, quando la si incontri.
Per questo di fronte alla barbarie antica l'unica azione che contò fu il rischio che corsero, per esempio, uomini come i monaci benedettini: imitando la gratuità e l'amicizia di Gesù, le posero a fondamento della loro opera. Opera di preghiera e di educazione, e insieme opera di campi, di scuole, di legni, di pietre. Senza attardarsi in strategie o in azioni di pubbliche relazioni, senza chiamare "volontariato" quel che facevano, poiché sapevano che non la volontà ma la fede occorreva per sperare contro ogni speranza e per gettarsi nell'azione senza aspettarsi il riconoscimento e le direttive dai potenti di turno.

Anche oggi la differenza tra un uomo e un barbaro sta nello sguardo e nel giudizio che il primo posa sulle cose e sulle persone: egli vede la realtà come il segno di un Infinito presente - che pur non si può possedere nel presente -, di una beltà che innamora e che invita ad azioni gratuite. Lo ricorda anche Cesare Pavese, in una frase che ha fatto da filo conduttore alla recente Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere: «Sono tutti capaci di innamorarsi di un lavoro che si sa quanto renda; difficile è innamorarsi gratuitamente». È difficile, sì, in un'epoca che non conosce quasi più la gratuità, che non sa più a che cosa serve in fondo nemmeno il lavoro.
Costruire il bene nel tempo della possibile barbarie non è un'impresa riservata a improbabili e comici (se troppe volte non fossero tragici) cavalieri senza macchia e senza paura. È un ideale per cristiani che, come scriveva Eliot, «carnali come sempre, eppure mai seguendo un'altra via», lasciano qualcosa di più «che i racconti di vecchi in sere d'inverno».