Tracce N.7, Luglio/Agosto 2007

L'inserzione dell'eterno nel tempo
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Da sempre l’uomo ha cercato qualcosa che compisse la tensione positiva che c’è in lui e contrastasse il nulla in cui tutto sembra finire. Dalle prime pitture rupestri fino alle evolute composizioni in versi e in musica. Ha cercato di inventare gesti, riti e opere che richiamassero in vita la vita, per così dire; che fossero momento e spazio in cui qualcosa si opponesse al pietrificarsi dell’esistenza, che richiamassero l’impeto di vita che c’è nel cuore di ogni uomo, pur nella successione della stagione sfavorevole dopo quella fiorita e ricca. S’è inventato di tutto, l’uomo di ogni tempo, per obbedire alla urgenza che lo segna e lo ferisce nel profondo. Per proporre a se stesso e al proprio popolo azioni che non lasciassero cadere la speranza di un compimento buono. Lo spettacolo di questi tentativi continui è vasto, drammatico e commovente.
Il suo lavoro più importante l’uomo lo ha sempre fatto nel cercare la strada per sostenere tale speranza. Accanto al lavoro per procurarsi il cibo, per proteggere i propri cari e per sviluppare le proprie abilità, non poteva venire meno quel che possiamo chiamare il “lavoro della speranza”, senza il quale tutti gli altri appaiono, all’improvviso o alla lunga, vani. Non passa giorno senza che ognuno identifichi in qualcosa, in qualcuno, il punto di ripresa di positività della vita. Fosse pure la presenza passeggera di un amico, un buon risultato di lavoro, un segno sulla strada.
Il cristianesimo ha preso sul serio tutto questo. Gesù Cristo, come dice Charles Péguy, non è venuto a raccontare strane storielle. Ma è venuto a rispondere a questa eterna, ansiosa e vasta ricerca degli uomini. Ha preso sul serio il nostro desiderio di vita e di vedere la vita vincere. E, come dice spesso il vangelo, ha avuto compassione di questo niente che siamo fino al punto di diventare amico nostro. Sapeva bene, come sappiamo tutti, che nessuna realtà di questo mondo - né riuscita, né amico, né capacità - può evitare alla vita di conoscere la disperazione della perdita, del non-senso. Nessuna invenzione di questo essere limitato che è l’io può donare all’uomo il segreto della vita, l’infinito sempre desiderato. Occorreva l’inserzione dell’eterno nel tempo, perché i giorni provassero il gusto di vivere. Occorreva l’avvenimento di Dio che si rende disponibile, e disponibile fino al sacrificio di sé, perché l’uomo trovasse il punto di ripresa continua. Che non si esaurisce, che non è eliminato da nessun limite, difetto o bruttura. Il cuore è fatto per trovare tale punto di vittoria. Per questo il Papa non si stanca di parlare della fede come di una cosa semplice. Tutti ne possono conoscere contenuto e metodo attraverso un incontro, per una esperienza: «Ascoltandolo predicare, vedendolo guarire i malati, evangelizzare i piccoli e i poveri, riconciliare i peccatori, i discepoli giunsero poco a poco a capire che Egli era il Messia nel senso più alto del termine, vale a dire non solo un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso fattosi uomo» (Omelia per la solennità dei SS. Pietro e Paolo, 29 giugno 2007).
Oggi come duemila anni fa, il metodo non cambia. Uno studente liceale, dei tanti che hanno scoperto la fede nell’incontro con Gioventù Studentesca, dice in questa frase il senso di quanto gli è accaduto. È il senso di ogni avventura umana: «Questi tre anni mi hanno fatto comprendere come Gs non ci sia per applicare dei concetti alla vita o per “regolamentare” il quotidiano, ma per richiamarci a quelle esigenze che ci costituiscono e che ci fanno uomini. C’è un solo metodo per testimoniare Cristo a scuola: è impegnarci con la nostra umanità».