Tracce N.9, Ottobre 2007

Guardare insieme a esempi concreti
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C’è qualcosa di strano nel grande affaccendarsi che si vede attorno alle novità - vere o presunte - della politica italiana. Non è la confusione: quella ormai è un fatto costante, da tempo.
La stranezza, semmai, è un’altra. Ma per accorgersene, tocca scavare un bel po’ sotto lo schema proposto da tutti in questi giorni: da un lato la politica, affannata a cercare strumenti di rinnovamento (vedi il Partito democratico o, al limite, gli stessi Circoli della libertà), dall’altro l’antipolitica, con le piazze infuriate contro la “Casta” (e certi giornali che soffiano sul fuoco). A prima vista, due mondi lontani. Quasi opposti.
Eppure, a grattare sotto la scorza della contrapposizione, un dato comune lo si trova. Un dato strano, appunto. Meglio: “straniero”. Non ne parla nessuno. Ma c’è. Si chiama desiderio. Domande e speranze. Quelle che la politica fatica sempre di più a sostenere. Quelle che l’antipolitica finisce per trasformare in disagio, scetticismo e, infine, rabbia. Quelle che, però, nessun potere riesce a estirpare dal cuore dell’uomo.
Anche nel caos di un «Paese spaesato» - per usare le efficacissime parole di monsignor Angelo Bagnasco, presidente della Cei -, persino nella «frantumazione e nello smarrimento» che insidiano «l’unità della persona», all’origine della politica c’è un fattore che misteriosamente pulsa, e resiste. Don Giussani, in un discorso alla Dc lombarda fatto vent’anni fa ma che oggi, se possibile, è ancora più attuale, lo definiva semplicemente così: «Il senso religioso». Ovvero, «quell’elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo». E le esigenze sono quelle di tutti: la verità, la giustizia, la felicità...
Il senso religioso, quindi. O cuore. È da lì che si può ripartire.
Con attenzione, perché il rischio è che tra tante domande giuste e legittime, a cui i politici non sanno più rispondere, si finisca per pretendere dalla politica quello che essa non può dare: il compimento totale dell’uomo. Sarebbe un errore tragico. La salvezza non verrà da parole fatte partito - anche se si tratta di parole nobili, come “democratico” e “libertà” -, né tantomeno da parolacce fatte piazza, o lista civica. Ma non c’è via d’uscita che non parta da lì, dal riconoscimento paziente e quotidiano che sopra gli interessi egoistici e le reazioni esasperate c’è ancora qualcosa di più grande per cui vale la pena di spendersi e rischiare. Qualcosa che permette quel «senso di comune appartenenza che ci fa sentire “società”» (sono ancora parole di monsignor Bagnasco). Un desiderio di bene che ci riguarda tutti. Un “bene comune”, appunto.
Ecco, se c’è una differenza con il passato è proprio questa. Prima, tutto ciò era evidente; si nasceva e si cresceva in un clima che lo dava per implicito. Poi lo è stato sempre meno. Ora non lo è più. Per riconoscerlo, servono dei passi e serve qualcuno che richiami la strada. Serve un’educazione.
Soprattutto, serve il guardare insieme a esempi concreti, già in atto - a opere: nomi, storie, a volte persino marchi d’impresa -, che partono dal senso religioso e hanno a cuore il bene di tutti. Opere che non promettono soluzioni totali ai problemi, ma mettono gli uomini - tutti gli uomini - in condizioni di cercarle, liberamente.
Sostenere questa educazione, cercare questi esempi e coltivarli, fare in modo che vivano e si allarghino, è il primo compito che spetta a chi si occupa della cosa pubblica. Compito quasi ascetico, perché ci sarà sempre la tentazione di soffocarli riducendoli a strumenti del potere o confondendoli nel fascio delle cose da buttare. E drammatico, perché chiama in causa la libertà del politico, anche dal proprio schieramento.
Se educare è un rischio, fare politica così lo è almeno altrettanto. Ma tra politica e antipolitica, noi stiamo con chi vuole ancora correre questo rischio.