È il reale che grida: «Egli c'è!»

Pagina Uno
Davide Prosperi e Julián Carrón

Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti di Cl della Lombardia. Fiera Rho-Pero,
27 settembre 2008



Davide Prosperi

Cercando di riassumere introduttivamente i contributi della Diaconia della Lombardia, che si è radunata in preparazione di questo gesto, faccio due rilievi.


Innanzitutto abbiamo ancora negli occhi i fatti accaduti questa estate e gli straordinari incontri che abbiamo vissuto, straordinari perché indubbiamente si riferiscono a personalità eccezionali, capaci di comunicare una novità di vita in un modo vero, cioè convincente, che ci ha convinto, che ci convince: “protagonisti”, si diceva al Meeting di Rimini, come le storie raccontate da Marcos e Cleuza Zerbini, da Vicky, da Rose, da padre Aldo Trento, da monsignor Pezzi, e da tanti altri che ricordiamo bene.
Da dove mai può venire una simile eccezionalità? Al Meeting di quest’anno per molti, dentro l’ampiezza culturale dell’evento che abbiamo vissuto, ciò che ha dominato sono state soprattutto le testimonianze (cioè l’accorgersi di testimoni), e in questo senso si è notato che in questo Meeting più che in altre edizioni non ci siamo lasciati distrarre da fattori divergenti rispetto a quello che è il nostro principale interesse: la verifica dell’esperienza cristiana come persuasività e come stima dell’umano. Se n’è accorto Giampaolo Pansa, che in un articolo, apparso sull’Espresso due settimane fa, ha scritto: «Questa gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando. […] Ogni volta mi sono sentito ascoltato e mai giudicato. Non mi era mai successo». Da dove nasce questa novità? Certamente non deriva da una premeditata strategia espressiva, piuttosto io direi che è il frutto di un cammino di educazione alla fede, che per molti di noi sempre più sta cominciando a diventare esperienza.
Per cui, per renderci conto di quello che abbiamo davanti e del rapporto che questo ha con il percorso fatto in questo anno nella Scuola di comunità e negli Esercizi della Fraternità, la prima domanda che vorremmo farti è questa: che cosa c’entrano tutti questi fatti, che ci hanno colpito, con la fede?
Anche noi qui, ora, possiamo testimoniare un fatto che non è per niente scontato, proprio per come è decisivo per la nostra vita, e cioè che a distanza di tre anni e mezzo dalla morte di don Giussani questa esperienza persuasiva di vita cristiana, che noi abbiamo incontrato nel movimento da lui nato, non si è interrotta; questa compagnia è unita ed è guidata, e di questo dobbiamo ringraziare lo Spirito Santo perché non ci era dovuto, è veramente una grazia. E se devo dire quello che ho visto personalmente, ma penso che molti lo possano dire, in questi tre anni di amicizia con don Carrón, l’autorità è tale in quanto sa accorgersi di quello che un Altro fa accadere, un Altro che è il Mistero che fa tutte le cose e che è una presenza reale, incarnata, visibile, e così lo indica per tutti, facilitandone il riconoscimento.
Ecco, questo per me è ciò che ha facilitato che noi ci accorgessimo dell’eccezionalità di cui parlavo poco fa. Ma se è così, allora questo significa che è un metodo che non vale solo per l’autorità ultima, ma vale per ciascuno di noi, è una tensione che vive in noi, nell’apparente ripetersi della normalità che nella maggior parte del tempo noi viviamo. La presenza di Cristo è un fatto eccezionale proprio perché si manifesta nella normalità, nella vita di tutti i giorni, anzi, quanto più l’eccezionale si manifesta nel quotidiano, tanto più noi lo percepiamo come un avvenimento che ci cambia, giorno per giorno.
Benedetto XVI, parlando dei monaci degli inizi al Collegio dei Bernardini a Parigi, ha detto: «Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi, in cui niente sembrava resistere [ma il nostro tempo non è che sia meno confuso], essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio»1. La nostra ricerca umana è proprio un quaerere Deum, e per meno di questo - come ci siamo anche sentiti ripetere agli Esercizi - non saremo mai soddisfatti.


Ma c’è - dicevo - una seconda questione che è emersa dalla riflessione sull’esperienza di questo periodo, e cioè che questi fatti, per quanto eccezionali, non bastano, o almeno sembrano non bastare a renderci certi del cammino. Raccontava uno di noi che, al termine di una vacanza della comunità, un’amica (che era lì per la prima volta) gli confessava: «Io sono molto colpita da quello che ho visto e da quello che ho sentito, inaspettato e corrispondente, ma cosa mi difende dal dubbio che fra due mesi io lo ritenga frutto di uno stato d’animo di questo momento?».
A volte scopriamo in noi e tra di noi una debolezza nel nesso tra l’avvenimento e la certezza, cioè tra l’avvenimento che ci accade, tra l’incontro che abbiamo vissuto, e la certezza che ne nasce. Ma se è così, allora su questo dobbiamo assolutamente aiutarci, perché altrimenti questa debolezza rende il cammino faticoso e zoppicante, perché noi di questa certezza abbiamo bisogno per vivere, ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo.
Quindi, riassumendo, ripeto le due questioni sulle quali ti chiediamo un aiuto.
Primo: che cosa c’entrano tutti questi fatti, che ci hanno colpito, con la fede?
Secondo: come questi fatti, queste eccezionalità, aiutano a raggiungere la certezza?


DON JULIÁN CARRÓN

«Signore, che cos’è un uomo perché te ne curi? Un figlio d’uomo perché te ne dia pensiero?»2. È quello che mi viene spesso da pensare in questi giorni davanti a quello che vedo accadere tra di noi (tante persone cambiate, messe in movimento), commosso, come tanti di voi, e non posso evitare che mi venga questa domanda: ma chi siamo perché il Mistero abbia pietà di noi in un modo così sconvolgente? E mi viene quasi vergogna, perché mi piacerebbe avere la stessa commozione che vedo nella nostra amica Vicky, che - l’abbiamo ascoltato nella testimonianza al Meeting - continua a domandare: «Ma chi sono io perché mi capiti una cosa così?». Oppure Franco, il carcerato di Padova, che si domanda: «Perché è capitato proprio a me?». O come una ragazza di vent’anni, che si stupisce che l’Essere sia diventato amico del nulla. Queste persone mi sono amiche proprio per questo, non perché siano più o meno brave, ma perché si lasciano colpire dal Mistero presente, perché sorprendo in loro la stessa vibrazione che testimonia la Madonna: «Il Signore ha guardato il niente della Sua serva»3. E mi viene una gratitudine sconfinata per questa tenerezza del Mistero nei nostri confronti, così grande che non riesco a capacitarmene, perché veramente il Signore ha pietà del nostro niente. Con questo penso di esprimere il sentimento di tanti di voi davanti a quanto sta succedendo.


I fatti
Come ci insegna don Giussani, questo è il punto di partenza, questa esperienza di commozione davanti a quello che accade è l’inizio; è da lì che sorge la domanda sull’origine di questa commozione. E noi non possiamo prendere sul serio questa domanda, se non guardando certi fatti e certe persone in cui ci siamo imbattuti. Sono questi fatti che dobbiamo guardare per aiutarci a capire che cosa sta succedendo. Ma noi non capiamo veramente ciò che sta succedendo, se non cogliamo, allo stesso tempo, il metodo attraverso cui il Mistero lo fa accadere. È importantissimo, perché quel che stiamo vedendo è la risposta alla percezione da cui eravamo partiti agli Esercizi della Fraternità, secondo cui il Mistero ci sembra astratto.
Per rispondere a questa nostra difficoltà, per pietà rispetto a questa nostra difficoltà e al nostro niente, il Signore non ci manda qualcuno che spieghi un po’ meglio: fa accadere fatti davanti ai nostri occhi, si svela Lui davanti a tutti noi, e questo ci aiuta a venir fuori. Se noi facciamo il percorso che ci siamo detti agli Esercizi, allora possiamo combattere l’origine di questa difficoltà, che don Giussani identificava con il distacco che tante volte viviamo tra quello che accade nell’esperienza e la nostra ragione (il modo in cui noi “ragioniamo” sul Mistero, senza neppure accorgercene). Per questo, dobbiamo aiutarci a guardare insieme i fatti, cercando di stabilire bene il rapporto tra la ragione e l’esperienza.
Il punto di partenza - non mi stancherò mai di ripeterlo - sono sempre i fatti, è sempre il reale, come don Giussani ci ha insegnato nel decimo capitolo de Il senso religioso. Quel che si legge lì è analogo a ciò che Gesù fa nel Vangelo: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»4. Da dove parte Gesù? Dal guardare gli uccelli. Ma non dà per scontata l’esistenza degli uccelli. Per questo Egli, che prende consapevolezza della loro presenza nel reale, non può non giungere a riferirsi al Padre. Facendo così vuole farci imparare uno sguardo che non si fermi all’apparenza, ma che arrivi fino all’origine, fino al Padre da cui sorge costantemente il reale. E questo è decisivo per ogni momento del vivere, perché se non diventa in noi familiare questo sguardo sul reale, appena quest’ultimo ci mostra la sua faccia un po’ brutta, mettiamo in dubbio il Padre. Ma brutto o bello che sia, il reale c’è, e il fatto che sia brutto non vuol dire che non ci sia; c’è, e lo subiamo. Ma se c’è, se c’è questo reale, se c’è questa circostanza, se c’è questa malattia che mi prende, se c’è questa tristezza che adesso mi invade, se c’è questo, vuol dire che io ci sono; e se ci sono, c’è un Altro che mi fa, ora.
Mi ha sempre colpito che don Giussani, cercando di trasmettere questa nozione elementare, la riduce al nocciolo. Dire: «Io sono» con totale consapevolezza equivale a dire: «Io sono fatto». Nel fatto che io ci sia c’è già la compagnia di Lui («essere posseduto»5): nessun intimismo, nessuna proiezione del Mistero attraverso la mia immaginazione; è il reale che grida che Egli c’è!
Mi ricordo sempre che quando facevo il professore al liceo una volta un ragazzo si avvicinò dicendomi: «Ma è sicuro di quello che dice su Dio? È così certo come ne parla?». Risposi: «Sì, perché io non parto da Dio, ma parto dal reale». È il reale che grida Dio, perché non si fa da sé, come ognuno di noi (se siamo minimamente consapevoli, non possiamo non dire questo!). Dice bene Andrej Sinjavskij: «Non bisogna credere per tradizione, per paura della morte oppure per mettere le mani avanti. O perché c’è qualcuno che comanda e incute timore, oppure ancora per ragioni umanistiche, per salvarsi e fare l’originale. Bisogna credere per la semplice ragione che Dio esiste»6. Dobbiamo avere il coraggio di usare la ragione così, perché è a questo che il Papa ci invita costantemente, a usare e a brandire la ragione - diceva don Giussani -, altrimenti saremo sempre in balìa del nulla, dei sentimenti, dello stato d’animo, delle difficoltà. Ma nessuna difficoltà può mettere in questione che ci sono e, se ci sono, è un Altro che mi fa ora.
Questa dinamica del reale è la stessa dinamica della fede. La dinamica della fede è la stessa dinamica del reale potenziata al massimo grado, perché io mi trovo davanti agli occhi non solo un reale qualsiasi, ma un reale così eccezionale (come quello che abbiamo visto questa estate) che fa scattare più facilmente il percorso della conoscenza, rimanendo la dinamica la stessa. Quindi la fede non inizia per una suggestione o per un sentimento o per una immaginazione; tutto inizia davanti a un avvenimento che accade, che è così eccezionale che non può non ridestare tutta l’energia della ragione per cercare di comprenderlo.
Ripeto: all’inizio non c’è un’immaginazione su ciò che non si vede, una fuga nell’al di là, uno slancio emotivo nell’invisibile, ma l’imporsi di un dato che esige una spiegazione, che mobilita tutta la ragione proprio perché prende tutta la mia umanità. E qual è questo straordinario, questo eccezionale che abbiamo visto? Ce l’ha ricordato prima Davide: lo sguardo di Rose, a cui Vicky, malgrado l’iniziale resistenza, accetta di arrendersi; lo spettacolo di Vicky che, ammalata di Aids, contagiata dal marito che poi l’ha abbandonata, grida a tutti la speranza; la commozione di Cleuza e Marcos Zerbini, colpiti da una novità inaspettata; la volontà del carcerato di tornare in prigione per testimoniare quel che gli è successo; la consistenza di un depresso, come padre Aldo (avere questa consistenza umana piacerebbe anche a chi la depressione non ce l’ha!). E quanti altri esempi conosciuti da tutti! Cito questi solo perché li abbiamo davanti tutti: persone diverse, cambiate, per niente inventate. Queste cose sono impossibili da inventare, tanto ne sono sorpresi gli stessi protagonisti.
Il percorso della fede di cui abbiamo parlato agli Esercizi incomincia lì, e la domanda che mi viene spesso - per vedere fino a che punto, oltre a riprendere il libretto degli Esercizi, noi facciamo quello che vi è indicato -, è: ma in quanti di coloro che hanno visto questi fatti è scattato quel percorso della conoscenza che abbiamo studiato nella Scuola di comunità? Lo so che sapete tutti il percorso, do per scontato che sapete tutto, ma non è detto neanche un po’ che, allora, noi siamo stati davvero sfidati da questi fatti e che tutti abbiamo fatto il percorso, così come lì viene descritto. Perciò continuiamo tante volte a parlare dell’astrattezza del Mistero. E perché? Perché davanti a fatti così irresistibili, così imponenti, facciamo tanta fatica a che scatti questo percorso della conoscenza?
Don Giussani spiega che questi fatti sono da leggersi col cuore e che il cuore - perché non ci siano riduzioni sentimentali di questa parola - è una ragione affettivamente impegnata; è il cuore come ragione e affettività la condizione dell’attuarsi sano della ragione. Che cosa vuol dire che questa ragione è affettivamente impegnata? Che la nostra ragione è stata presa. Per questo non c’è ragione senza affezione. Siamo stati colpiti e presi davanti a qualcosa che scatena questo percorso. Il centro del problema conoscitivo umano non sta in una particolare capacità di intelligenza, ma è realmente una posizione giusta del cuore. È la povertà di spirito la posizione giusta del cuore. Non hanno precedenza quelli che sono più intelligenti, ma quelli che sono semplici: queste persone (che forse vedrò una volta sola nella vita) diventano amici, non perché siano intelligenti, ma perché si lasciano colpire; e mi sorprendo che mi facciano compagnia, mi sorprendo ricordandomi di loro, e in questo dimostrano che sono più intelligenti.
Ce lo ha ricordato il Papa nel suo viaggio in Francia: «Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos - presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio»7.
È questo che ci insegnano i testimoni eccezionali. La nostra partecipazione è accogliere il dato, è l’umiltà di dare precedenza al reale che accade. Se noi non facciamo questo percorso della conoscenza che si arrende, non capiamo quello che accade, e perciò continuiamo a vivere un distacco tra la ragione e l’esperienza, e continuiamo a dire che il Mistero è astratto. Invece quando uno davanti a questi fatti ha questa semplicità, questa umiltà che descrive il Papa, allora è impossibile che ciò che vede non implichi un altro fattore. Come mai sono così? Che cos’è questo fattore implicato nei fatti che vedo, nel cambiamento che vedo in queste persone? Basta qualsiasi spiegazione per questo cambiamento?
«Caro Julián, volevo raccontarti una cosa che ci è successa in queste ultime settimane. Una nostra amica, una giovane mamma, sta lottando da anni contro una malattia. Ha avuto una ricaduta improvvisa. Si tratta di una situazione seria, che ci sollecita di continuo a chiedere il miracolo. E, dato che quando chiedi il Signore risponde, un miracolo sta già succedendo: ci stiamo affezionando di più a Cristo. Davanti a una situazione del genere non puoi girarci intorno e perdere tempo in “ma” o “però”. Per stare di fronte a lei - e al marito, e ai figli - hai bisogno di chiedere e chiederti: chi ci sta dando il dono della sua presenza? Chi ci sta regalando questi anni di amicizia con lei? Soprattutto: chi sta rendendo possibile ora, in questa situazione, una profondità e una intensità di rapporto impensabili? Suo marito una sera ci ha detto testualmente: “Questi sono i giorni più belli del nostro matrimonio”. Come è possibile un fatto del genere?! È inspiegabile, senza Cristo. C’è, è successo, ce l’hai davanti, ma non puoi spiegarlo senza arrivare lì, a riconoscere quei tratti inconfondibili. Così come non puoi spiegare l’unità, la comunione che sta sbocciando tra noi che la conosciamo, legati da un’amicizia che non è certo nata adesso, ma di sicuro adesso sta fiorendo. Una sua amica, che ha appena incontrato il movimento, un giorno è andata a trovarla. Ha raccontato quella visita così: “Prima di entrare ero tesa, agitata, non sapevo cosa dire. Alla fine, uscendo da quella casa, ero felice. Non è solo che ho cambiato certe idee che avevo sulla morte, sul senso della sofferenza; mi sono sorpresa a essere felice. Non so cosa sia successo, ma di sicuro c’è dentro Qualcosa di eccezionale”, e quando è venuta a Scuola di comunità ha aggiunto: “Voi dite: Cristo. Come faccio a sapere che è Lui? Io non riesco a dire questo nome. Mi fido di voi, ma non basta”. Le abbiamo detto: “D’accordo, fidati di noi, ma soprattutto fidati del tuo cuore, di quella corrispondenza che hai sperimentato lì: sei entrata quasi disperata e sei uscita felice, hai intravisto Qualcosa di straordinario. Aiutiamoci a scoprirLo perché abbiamo tutti bisogno, come te, di conoscere il Suo volto, di dire il Suo nome, di legarci a Lui. Su questo siamo insieme”».


Chi è Costui?
Tante volte, come abbiamo appena letto, sentiamo dire: «Ma io non riesco a dire il Suo nome» (come dice questa donna: «Voi dite Cristo, ma come faccio a sapere che è Lui?»). Mi diceva una ragazza la settimana scorsa: «Io una umanità diversa la vedo, ma perché devo dire che è Cristo?».
Come rispondere a questa domanda in un modo ragionevole? Qui ci troviamo - amici - davanti alla stessa questione degli apostoli, tale e quale. Anche gli apostoli avevano visto cose eccezionali, miracoli, e vedevano che quella persona era unica e dovevano domandare: «Chi è Costui?». Riconoscevano un fattore diverso, che rendeva inevitabile il sorgere della domanda. Ma nel tentativo di risposta rimanevano smarriti. «“Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”»8. Non riuscivano a venir fuori da queste interpretazioni: loro erano incapaci. Come abbiamo detto agli Esercizi, il testimone non è soltanto chi ci rimanda altrove, ma chi ci dà la risposta alla domanda. È Lui che risponde alla domanda, è stato Lui a rispondere a quella domanda: «Il Padre mi ha mandato»9. Allora tutti noi ci accorgiamo di schianto come sia l’unica risposta corrispondente all’eccezionalità che vediamo davanti a noi, più di qualsiasi altra spiegazione nostra.
E noi adesso? Anche noi ci troviamo - come abbiamo sperimentato - davanti a queste umanità diverse che vediamo (altroché se le vediamo!), le vediamo con i nostri occhi, ma tante volte anche noi rimaniamo smarriti: «Perché devo dire il Suo nome? Chi mi assicura che sia Lui?». È la tradizione della Chiesa che ci offre una risposta, dicendoci: «Guarda, di tutti questi tratti inconfondibili che vedi, di tutta questa novità che vedi in questi fatti e che passa attraverso il volto di persone diverse qual è l’origine? Per capire e riconoscere questi tratti inconfondibili tu devi andare al Vangelo, devi avere familiarità con il Vangelo».
Per spiegarmi meglio vi racconto un episodio che mi capitò tanti anni fa in Spagna. Una persona in un paese vicino a Madrid aveva incontrato i nostri amici. Questa persona non aveva avuto fino a quel momento nessun rapporto con la Chiesa; ha incominciato a diventare amico dei nostri e vedeva che cosa succedeva, che novità incominciava a introdursi nella vita; e poi, stando con loro, è andata anche a messa e, sentendo il Vangelo, a un certo momento commenta: «Ma a quelli del Vangelo capitava lo stesso che capita tra di noi». Aveva identificato che quella novità che vedeva accadere davanti ai suoi occhi nel rapporto con gli amici della comunità cristiana, che aveva incontrato, erano le stesse cose che capitavano a quelli che erano intorno a Gesù! Non si rendeva conto che era il contrario, che era a questi suoi amici che capitava lo stesso che ai discepoli, ma questo è secondario. Perché i Vangeli sono e saranno sempre il canone, la regola che ci aiuta a scoprire quando un’esperienza è cristiana, quando ci troviamo veramente davanti a un’esperienza cristiana. Perché nel presente e in ogni momento della storia accade lo stesso (con altri volti, con altre facce) che capitava all’inizio; passa attraverso volti diversi, ma Egli si rende contemporaneo a noi dentro volti con tratti inconfondibili, che sono Suoi. Non è che i discepoli hanno incontrato Gesù e noi dobbiamo accontentarci di un succedaneo. Ciò che sperimentiamo sono esattamente i tratti inconfondibili di Lui, che si rende presente oggi per pietà del nostro niente.
Come scopro che questi tratti sono Suoi? Dobbiamo guardare bene, perché a noi rischia di sembrare tutto uguale. Guardiamo bene, per esempio, quello che racconta Vicky. «Prima di incontrare Rose nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano in famiglia, come se ci fossimo procurate da sole la malattia. E all’improvviso in quella situazione compare una presenza nuova: Rose è venuta a sedersi di fianco a me. Io mi scostavo perché non emanavo certo un buon odore, lei si avvicinava e io continuavo a scostarmi, ma Rose continuava ad avvicinarsi». E a questa persona, in questa situazione in cui tutti la evitano, che ha un odore così, Rose dice una cosa strana: «Tu hai un valore più grande della tua malattia». Occorre una certa familiarità con Uno che diceva queste cose strane. Come è strano dire a una madre che va a seppellire il figlio: «Non piangere!»10. O a uno che l’ha tradito dire: «Mi ami tu?»11. O al più odiato di tutta la città dire: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»12.
Se, nello stesso tempo, quando noi vediamo questi fatti, non abbiamo anche questa familiarità con il Vangelo, ci sembrano “di chiunque”, questi tratti diventano “di chiunque”, cioè possiamo dire così di Gesù o Maometto o Buddha o vattelapesca, perché tutto è uguale. Ma dove è successo che uno si avvicini così a chi tutti hanno rifiutato come un lebbroso? Dove è successo che uno si avvicini a chi tutti considerano un peccatore abominevole nella città? Dove è successo che uno continui ad affermare il valore dell’uomo nella situazione più disperata? Non è successo ovunque, ma nel momento della storia in cui Egli si è mostrato!
Noi facciamo difficoltà perché ci manca l’immedesimazione con Gesù, col Vangelo, che Giussani ci ha testimoniato lungo tutta la sua vita, perché noi non sapremmo immedesimarci con questi episodi, se non avessimo sentito don Giussani ripeterceli tantissime volte. Ma noi - sembra - abbiamo altro da fare: leggere il Vangelo ci sembra una cosa spiritualistica, e perciò quando vediamo gli stessi fatti davanti ai nostri occhi, facciamo fatica a dire il Suo nome. Allora perché dovremmo credere? Si capisce bene che così la fede non è ragionevole. Invece se uno continua a immedesimarsi, è impossibile che non scatti un’affezione dell’altro mondo che ci rende sempre più caro Cristo.


La soddisfazione come test della fede
La fede cristiana è proprio questo: non il riconoscimento di una presenza qualsiasi, bensì di questa Presenza dai tratti inconfondibili, presente nella storia adesso come duemila anni fa. Non devoto ricordo, non spiritualità a buon mercato: la Sua presenza adesso, che possiamo toccare con mano e da cui possiamo sentirci guardati e abbracciati! Uno che continua ad avere pietà del nostro niente, così presente che il test della fede è proprio questa novità, questa soddisfazione che introduce. Può capitare, come abbiamo visto, nella malattia. O come ci testimonia questo ragazzo - adesso ci guarda dal cielo, perché è morto -, che può vivere in questo modo fino all’ultimo istante della vita. Scrive a una sua amica dell’università: «Dare un esame è qualcosa che abbiamo fatto tutti nella vita, e certo non è nulla di straordinario. Questo è quanto pensavo prima di aver conosciuto persone che mi hanno costretto, attraverso una vera e propria rivoluzione, a domandarmi quanto seriamente stessi vivendo la mia vita. Fra pochi giorni, lo sapete, dovrò essere ricoverato in ospedale per un trapianto di midollo e vi domanderete: che cosa c’entra questo col mio esame? Se non fossi del movimento, se non avessi imparato dal movimento a considerare lo studio come una fantastica opportunità di ricerca della verità, di dare un senso alla mia vita e di esprimere un giudizio totale su di essa, già da tempo me ne starei tranquillo, rintanato in casa in attesa del ricovero. Magari avrei letto qualche libro, o il giornale; ma fondamentalmente avrei dissipato le mie giornate nella ricerca passiva e disperata di qualcosa che facesse passare questo tempo di attesa prima della guerra (perché è come andare in guerra). Studiando per l’esame, non è stato il vuoto del tempo a riempire le mie giornate, ma io attraverso me stesso ho riempito esso. Non era il vuoto a dettare il ritmo della mia vita: io l’ho fatto, io sono stato signore e padrone della mia giornata. Studiavo Procedura civile, affrontavo giorno dopo giorno gli argomenti, felice di quel potere che avevo ancora sulla giornata e, in definitiva, sulla mia vita [ecco il protagonismo: fino all’ultimo istante!]. Se fossi stato inerte ad attendere lo scorrere del tempo, ne sarei rimasto schiavo, mi sarei consumato senza neanche accorgermene. Questo mi rende oggi felice di aver superato Procedura civile, ma già ieri ero orgoglioso di me stesso, mi sentivo realizzato come uomo perché sapevo che stavo sperando contro ogni speranza». È morto durante l’intervento. La soddisfazione è questa, che uno può trovare nella situazione più disperata. Perché? Come uno può vivere così perfino l’ultimo istante? Immedesimandosi con Gesù. L’attrattiva che Gesù esercitava sugli altri era dovuta al fatto che l’ultimo riferimento non era a Sé, ma al Padre. La fede cristiana dà una soddisfazione dell’altro mondo perché introduce al mistero del Padre. Non è che ci troviamo addosso questa corrispondenza unica della fede perché incontriamo qualcosa di reale, presente, che ci può soddisfare, ma perché dentro lì c’è qualcosa che ci spalanca all’infinito. Incontrare Gesù, come incontrare questi testimoni, è qualcosa che ci spalanca all’infinito, per questo ci soddisfa, perché ci apre di più al Mistero. La soddisfazione ha sempre dentro la domanda di entrare di più in questo Mistero.


Obbedienza
E come possiamo entrare di più in questo Mistero (questo ultimo punto serve da introduzione alla Scuola di comunità)? Attraverso l’obbedienza. Noi possiamo introdurci di più in questo Mistero e perciò superare il dubbio che sia soltanto uno stato d’animo, se obbediamo a quello che il Signore fa accadere tra di noi. Siamo testimoni di cosa succede quando noi seguiamo quello che un Altro fa in mezzo a noi. Lo abbiamo visto, abbiamo sentito l’effetto benefico che ha su di noi, ma il passo della Scuola di comunità che incominciamo adesso13 è decisivo per capirlo appieno, perché la verifica della fede, di questo riconoscimento, e della soddisfazione che dà, si chiama obbedienza.
Vedremo che cosa è realmente successo questa estate attraverso la nostra capacità di obbedire a quello che Lui fa, perché se la fede è stata quell’avvenimento che ha avuto come esito la soddisfazione, tutti possiamo capire la sfida che una cosa così implica per la ragione e la libertà - la ragione e la libertà, non il sentimentalismo - di uno che veramente ci tiene alla vita, alla felicità. Noi abbiamo visto qualcosa che ci spalanca, che ci rende possibile una speranza per la vita, una possibilità per vivere. Lo abbiamo visto, è come se il Signore ci avesse dato questi testimoni per togliere qualsiasi alibi: uno può risorgere anche avendo l’Aids in mezzo all’Africa, o stando in carcere, o essendo vicino alla morte. Nessuna circostanza è ostile. Questa è la speranza che questi testimoni ci rendono presente, e adesso chiunque ha il desiderio di vivere così non può non sentire questa sfida.
E quanto questa esperienza sia vertiginosa lo vediamo da come don Giussani introduce la Scuola di comunità, perché per parlarci dell’obbedienza non ci fa la predica sull’obbedienza, ci fa immedesimare con l’esperienza degli apostoli che hanno vissuto quello che anche noi abbiamo sperimentato: la corrispondenza unica che rendeva ragionevole seguirLo. Qui sta la vera sfida. Come lui ci dice, uno può seguire con dentro una misura - «Ti seguo fin quando sono d’accordo con Te, fin quando Tu non vai oltre una certa misura» (come ha fatto la maggioranza) -, o seguire senza altra misura che non sia la corrispondenza al cuore, come hanno fatto i discepoli: avevano seguito Gesù per quella pietà che aveva per il loro niente. Gesù si era commosso davanti alla fame che avevano, aveva moltiplicato i pani per sfamarli, ma poi, sentendo ancora questa pietà per il loro niente, ha detto: «Guardate che questo solo non basta per vivere, perché tanti non hanno il problema della fame, ma non hanno significato per il vivere, potete vivere soltanto se mangiate del Mio corpo e del Mio sangue». «Questo è troppo!», hanno pensato, l’hanno preso per matto e se ne sono andati. Ma perché Gesù ha detto loro questo? Forse perché non li amava? Se Gesù non avesse detto questo, li avrebbe presi in giro! Ma Gesù, che sa qual è il nostro bisogno umano, ci dice: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo, non potete vivere». E quando tutti se ne sono andati, neanche ai discepoli l’ha risparmiato: «Anche voi volete andarvene?»14. Questo è un amico, capite? Capite perché Gesù non risparmia questo? È come se volesse tirare su dalle viscere di quei suoi l’esperienza che avevano fatto: «È ragionevole andarsene dopo quello che avete visto, dopo quello che è successo stando con Me?». È ragionevole? E loro si sono detti: «No, non è ragionevole». Hanno seguito e obbedito in forza di quella corrispondenza.
Questa è la sfida che noi abbiamo davanti. La capacità di obbedienza è la precedenza a ciò che vediamo accadere davanti ai nostri occhi, a quel “Qualcosa che viene prima” che ci ricordava sempre don Giussani rispondendo a un rischio che c’è sempre in agguato, quello di cambiare il metodo un istante dopo dicendo: «Va bene questo metodo della corrispondenza al cuore per l’incontro, ma poi ciò per cui seguiamo è un’altra cosa». E don Giussani dice: «No». E aggiunge: «L’imbattersi in una presenza di umanità diversa viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio: un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale è destinato ad essere il fenomeno originale di ogni momento dello sviluppo. Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo»15. Se l’avvenimento non accade ora e noi non seguiamo quello che Lui fa, è impossibile che quello che abbiamo visto continui.
Per questo la Scuola di comunità ci dà adesso lo strumento per non perdere quello che abbiamo visto. Così capiamo che cos’è l’obbedienza, perché potremmo ridurla a qualcosa che obbedienza non è. Dice don Giussani: «Seguire non è qualche cosa che io posso prendere come un soprabito […]; no, non è un soprabito come il concetto di obbedienza che c’è in giro, per cui obbedire è dire di sì, è fare quello che ti dicono. Nossignore!»16. Attenzione: è un rischio che corriamo tutti, tutti, chi comanda e chi obbedisce, perché chi comanda può correre il rischio di proporsi come sostituzione del Mistero, invece di seguire quello che il Mistero fa, e chi obbedisce può seguire chi comanda perché gli risparmia il rischio di seguire il Mistero. Cioè, possiamo ridurre l’obbedienza a una cosa clericale, e questo - dice don Giussani - non è obbedienza, è roba da bambini che tentano di risparmiarsi tutto il dramma di stare davanti a quello che Lui fa, tutti quanti, perché è più facile dire di sì a quello che il capo dice e poi fare i cavoli propri. Questo non sarà mai l’obbedienza cristiana, perché l’obbedienza - come dice la Scuola di comunità - è seguire la corrispondenza sperimentata (questo è quello che rende drammatica la vita). Alla fine - dice la Scuola di comunità - l’estrema forma dell’obbedienza è seguire la scoperta di se stessi, operata alla luce della parola e della presenza di un Altro.
Come vediamo andando avanti nella Scuola di comunità, tutto dipende dal primo capitolo che abbiamo fatto: si chiama “fede”. Senza fede non c’è libertà, non c’è soddisfazione, e non c’è obbedienza, tranne che come cosa clericale, perché un istante dopo diventa soltanto un richiamo moralistico. Per questo è decisivo che noi, nel fare la Scuola di comunità, ci teniamo al metodo, perché potremmo farla soltanto come commento sui commenti, generando ancora più nichilismo di quello che abbiamo già addosso. Ciò che mi atterrisce di più è che potremmo fare il contenuto della Scuola di comunità contro il contenuto stesso, cioè con un altro metodo. Per questo il richiamo che ci fa don Giussani - “Qualcosa che viene prima” - è decisivo per fare bene la Scuola di comunità, altrimenti uno può fare il lavoro (perché uno lo può fare) e può non succedere niente, perché lo facciamo secondo una modalità che non è quella attraverso cui il Mistero lo fa accadere in mezzo a noi.
Obbedire è seguire la scoperta di sé operata da un Altro. Questa è l’unica obbedienza ragionevole. Chi ha fatto questa esperienza di corrispondenza eccezionale e non vuole perderla, obbedisce a quell’esperienza, a quella corrispondenza sperimentata. L’obbedienza è la cosa più ragionevole, perché senza obbedire io perdo la cosa più grande che ho vissuto, senza obbedire io la perdo, perdo il momento più intenso, più pieno, più alto della mia esperienza umana. A ognuno di noi tocca rispondere. Questa è la sfida che abbiamo quest’anno, vertiginosa, perché vogliamo che il movimento diventi “un’avventura per sé”.


OMELIA ALLA SANTA MESSA
DON JULIÁN CARRÓN

«“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”»17.

Gesù non sta facendo qui una riflessione in astratto, sta parlando delle persone che ha davanti, sta rivolgendosi ai sacerdoti e agli anziani del popolo, e domanda loro chi sia colui che veramente obbedisce, che veramente fa quello che il Padre vuole. Qui sono rappresentate le due grandi posizioni alternative che possiamo avere rispetto a Gesù. Da un lato, i sacerdoti o gli scribi o i farisei, che hanno detto di sì per tanto tempo, cioè hanno preso sul serio la legge, ma quando è venuto l’Unico a cui dovevano rispondere veramente, Gesù, hanno detto di no. Dall’altro, i pubblicani o le prostitute (che sono l’emblema dei peccatori), che hanno assolutamente ignorato la legge, ma quando hanno trovato Gesù hanno aderito. E Gesù dice una cosa terribile: che questi entreranno nel Regno di Dio e i capi e i sacerdoti ne resteranno fuori.

Noi - come coloro che appartenevano al popolo di Israele - potremmo compiere certe prescrizioni e nello stesso tempo, davanti a certi fatti che il Signore fa accadere tra di noi, non aderire, cioè non obbedire alla modalità con cui il Mistero ci chiama oggi. Con la nostra presunzione noi sappiamo già qual è il cammino, qual è la strada, qual è la legge da compiere, e perciò alla fine ci perdiamo quello che Lui può continuare a fare accadere davanti ai nostri occhi. Non riconosciamo Colui che il Signore ci manda adesso per avere pietà del nostro niente. Invece gli altri, i pubblicani, Gli hanno creduto. «Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose [non è che non le hanno viste: le hanno viste, eccome], non vi siete nemmeno pentiti per credergli»18.

La conversione è riconoscere Colui che adesso ci chiama. Possiamo restare lì a guardare perché noi già sappiamo la strada, abbiamo la nostra legge, sappiamo come gestire la vita; oppure possiamo convertirci, cioè credere, riconoscere una Presenza presente in mezzo a noi, che ci chiama.

Questa è la sfida permanente dell’avvenimento di Cristo presente, di Cristo contemporaneo a noi (contemporaneo a noi!), che continua a operare, non per incomodarci, ma per pietà del nostro niente, perché la nostra vita non vada in rovina.

Chiediamo a don Giussani di avere questa semplicità che lui (e insieme a lui tanti che lo Spirito ci dà adesso) ci ha testimoniato.