Che cosa abbiamo pensato, detto e fatto di più?

Parola tra noi
Luigi Giussani

La prima assemblea di inizio anno degli universitari di Cl di Milano
dopo le drammatiche vicende degli anni precedenti (e conseguenti il '68)
Appunti da un intervento di Luigi Giussani
Novegro, 30 ottobre 1975


Nella speranza che ognuno osservi la sostanziale identità nel tempo del nostro discorso e del nostro metodo.

Noi siamo chiamati ad essere la memoria del mondo.
È nella memoria che l'uomo porta il suo significato; il significato non è un'invenzione, è il senso di un cammino; ed è la memoria che registra il senso dello svolgimento che è il nostro tempo.
È una grande maturità l'aver presente il valore di sé come memoria. Anzi non si ha mai presente la propria persona se non nella memoria, se non nello sguardo cordiale che segue la propria radicazione nel passato, dalla quale solo richiede l'immagine reale e l'energia per l'avvenire.
È una grande cosa la percezione di se stessi come memoria, ed io volevo iniziare con questo richiamo di autocoscienza vera, perché la nostra vita non sia negativa.

Vedendo passare un aereo, prima, mi è venuto in mente ciò che penso sempre quando girovago per il mondo: «Quanta di questa gente è consapevole del suo destino?». E nella ignoranza profonda che la stragrande maggioranza della gente vive sta anche il motivo di una compassione grande che verso di essa occorre avere.
È un'immensa irresponsabilità che qualifica questo mondo pieno di ignoranza. È come dicevano san Paolo nell'Areopago di Atene: «Voi adorate il Dio ignoto» e Cristo alla Samaritana: «Voi adorate quello che non conoscete».
Ma a noi è dato conoscere, a noi è stato dato conoscerlo, a noi è stato dato incontrarlo.
La negatività della vita è una categoria che anche a noi si può applicare: e per noi la negatività è che la nostra vita abbia avuto un talento in mano e l'abbia nascosto, o l'abbia addirittura smarrito.
È negativo tutto ciò che non diventa strumento di un amore. Non specifico in una analisi o in un approfondimento meditativo questa affermazione, che risulta per altro ovvia, anche se un po' confusa al nostro sguardo e alla nostra coscienza.
La nostra vita è negativa se non diventa tutta strumento di un amore. Ma trattandosi della vita, allora bisogna togliere l'articolo indeterminativo e occorre dire che è negativa la vita se non diventa strumento dell'amore.
«Tu ci hai amato Signore dal profondo del tempo».
Il problema più grave dell'amore non è a livello del cuore: è a livello del giudizio, perché è il giudizio la radice del cuore. Infatti dicevano gli antichi scolastici che nihil volitum quin praecognitum, niente è desiderato se non è prima conosciuto.
Si chiama giudizio quel fenomeno per cui l'uomo conosce da uomo le cose, ciò che fonda l'oggetto verso cui si rivolgono i passi del suo cammino, lo scopo della sua dinamica. È il giudizio di valore la questione prima della vita.
E, infatti, il problema della vita cristiana è la fede, e la fede è il giudizio di valore, perché apre il cammino cristiano, apre la possibilità di una vita nuova.
Allora, il problema della negatività o della positività della vita poggia tutto sulla questione di una chiarezza e di una cordialità in quel giudizio di valore su cui si fonda tutto il vivere, il proprio svilupparsi, il proprio fiorire, il proprio ricercare.
L'amore è quella energia costruttiva, feconda, che si sprigiona coerentemente - per quanto poco l'uomo ne sia capace - da un giudizio di valore, dal riconoscimento del «vale la pena».
La nostra vita deve poggiare su un «vale la pena» supremo.
Qual è il contenuto di tale giudizio di valore, su cui tutta la vita poggi come sua ragione estrema?
Ognuno di noi capisce benissimo che la parola "Dio", qualunque immagine vi si leghi, se da una parte indica quella realtà che vien prima della nostra realtà e di ogni altra realtà, se segna l'abisso dell'Essere da cui le cose vengono fatte, dall'altra parte però, in concreto, praticamente, tende a coincidere con il perimetro di nostri pensieri, con il colore di nostre immagini.
La parola "Dio", tanto è grande per quello che segna, tanto è confusa e generica alla nostra ricezione.
«Nessuno infatti conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio l'avrà voluto rivelare» (Mt 11, 27). «Dio nessuno lo ha visto; il Figlio unigenito che esce dal seno del Padre, questi ce lo ha narrato», dice san Giovanni nel primo capitolo del suo Evangelo (cap. 1, 18).
«Tu ci hai amato Signore dal profondo del tempo»: nel tempo, dentro il tempo, perciò dentro la storia e quindi dentro l'esistenza. «Tu ci hai amato Signore per ogni momento»: Dio ci ha raggiunti come oggetto di incontro, come presenza a cui Egli stesso ha dato il nome di compagnia, come coinvolgimento concreto, reale, fisico, implicante tempo e spazio, a cui Egli stesso, prendendo di peso un termine del linguaggio dei nomadi di allora, diede il nome di Alleanza.
Nuova ed Eterna Alleanza. Definitiva.
Ciò che è definitivo definisce il volto, dunque la mia persona, la mia natura, la mia personalità. E dunque io sono definito dal rapporto con questa presenza definitiva.
Per questo a Filippo che di continuo, appassionato, gli chiedeva: «Facci vedere il Padre», Cristo rispose: «È tanto tempo che sono con te e non mi hai ancora conosciuto, Filippo? Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14, 9).
Cristo è il valore dell'esistenza e della storia.
Dio fatto uomo.
«Senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto» (Gv 1, 3).
Egli, il Verbo, ciò per cui tutte le cose sono, si è fatto carne e ha posto la sua tenda fra noi, la sua dimora fra noi. Perciò in Lui ogni cosa consiste.
Come facciamo a iniziare un nuovo anno di vita e perciò di cammino, di gusto, ma anche di lotta, di tensione senza che tutto il nostro essere fissi se stesso in questa presenza che è la definizione del proprio io, la definizione del proprio volto, il nuovo ed eterno volto di ognuno di noi?
Ma se è il nuovo ed eterno volto di ognuno di noi, allora tutti insieme siamo un solo volto.
Allora, nella contingenza dell'esistenza e della storia, nel concreto della vita quotidiana e della convivenza con gli altri fratelli uomini, il giudizio di valore, da cui scatti un amore che abolisca la negatività della nostra vita, che faccia fiorire il nostro volto, che determini il dinamismo del nostro tempo e del nostro cuore, riconosce che il «vale la pena» per tutto ciò che si fa è la nostra unità in quell'uomo, Cristo, è la nostra unità per colui che è tutto e che ognuno di noi ha incontrato.
Se «anche i capelli del vostro capo sono contati» (Lc 12, 7), se anche il fiore che calpestate nel campo è oggetto di una attenzione infinita, non esiste allora brandello della nostra presenza personale, non esiste sfumatura di quello che siamo che possa sottrarsi, come significato, a quel rapporto costitutivo.
E per questo noi usiamo con venerazione il termine così confidenziale di comunione, un termine che, a differenza di altri, non può essere abusato, quasi che l'esperienza umana non abbia in sé la capacità di immaginare questa realtà e dunque di inventare la parola che la indichi.
D'altra parte c'è una cosa che abbia un peso umano, una suggestività intellettuale, che desti una esuberanza e un impeto di cuore, che possa far gettare un occhio sulla realtà tutta e sul tempo che passa, sulla vita e sulla morte - come abbiamo visto ieri al funerale della nostra Luisella - con una pacatezza più grande, che il fatto che noi siamo una cosa sola?
Comunione: è a questo punto che improvvisamente e giustamente alla nostra coscienza deve apparire la sproporzione, la lontananza abissale che da questa reale presenza dell'amore ha quello che io sono, quello che tu sei, come riconoscimento e come generosità, come intelligenza della cosa e come coscienza attiva, operativa, etica, morale.
Allora deve apparire chiaro che è positività una sola cosa, una, per la vita: che, qualunque flessione la vita assuma, dallo studiare all'andare a spasso, dalla furtiva affettività che in cuore nasce alla tenacia della fedeltà alla donna e all'uomo, dal sacrificio di sé al progetto che con alacrità si persegue per sé e per tutti gli uomini, tutto questo deve divenire conversione, il costante processo della conversione, mia, tua, a questa realtà che è la nostra unità. Questo, e solo questo, è positività per le tue ore, per la giornata di oggi e di domani; e tutto il resto è talmente illusione che, per quello che a te è stato detto, non può che diventar menzogna l'aderirvi.
Ogni altra posizione frammenta la tua vita, distrugge la tua attività, nega l'amore; è negatività.
E non facciamo alcuna difficoltà a comprendere come la conversione sia la vita; la conversione è vivere, e vivere la propria conversione è un divenire irresistibile, cioè indomabile, continuo, dove l'attacco, come una malattia al corpo, è da contrattaccare, dove la caduta è da redimere, fosse anche un milione di volte al giorno, dove la stanchezza è da eliminare, fosse anche mille volte al giorno.
Una delle parole più belle che noi usiamo è la parola assemblea permanente.
La parola Chiesa deriva dalla parola greca che vuol dire proprio assemblea; ma la natura dell'ecclesialità, che coincide con la vita, rende quest'assemblea per sua natura permanente.
Ma noi usiamo male di questa parola, per quello svigorimento del valore cristiano, per quella riduzione immaginativa e mentale delle parole che è difetto tremendo fra di noi - come dicevano i saggi scolastici: ab assuetis non fit passio, non c'è gusto appassionato per le cose abituali -. Ma anche su questo punto la fede genera uno dei suoi più grandi miracoli, spacca questa umana saggezza.
L'assemblea permanente viene da noi identificata con il seguito delle riunioni di Scuola di comunità. Invece la parola assemblea permanente ha una profondità ontologica: è che la mia vita e la tua vita sono permanentemente insieme, sono permanentemente una cosa sola.
La nostra unità, corpo misterioso di Cristo, è il soggetto vero e adeguato che nella storia trascina la storia verso il suo scopo, il suo destino.
Vivere la propria vita, immaginare la propria persona, concepire l'espressione di sé sempre all'interno di questa assemblea permanente che è la nostra unità, che è la nostra comunione - ciò che le ideologie tendono ad immaginare nel loro breve primo istante di vita, che poi subito perdono dentro i meandri e i bassifondi delle loro indagini e dei loro ragionamenti - questo è Comunione e Liberazione, e basta: il resto è tutto e soltanto corollario.
Questo è l'avvenimento cristiano: che tale assemblea permanente accada nella mia vita e quindi di fronte agli occhi di tutti. Questo è il modulo della conversione, perché la memoria di tale unità, l'immagine della comunione diventa luogo educativo dei miei pensieri, delle mie azioni, delle mie decisioni.
Assemblea permanente indica, dunque, un rapporto di essere tra me e te, e che ogni mia immagine del futuro, ogni mio sentimento del presente, ogni mia valutazione del passato sono vere solo se si fondano all'interno della coscienza di questo mio rapporto con voi, perché non posso prescinderne, perché è più ossa delle mie ossa, è più carne della mia carne: «Siete ognuno membra dell'altro»(Ef 4, 25).
Allora si comprende come la parte prima e più importante della vita di questa assemblea permanente sia la meditazione quotidiana, l'uso quotidiano che io faccio della Scuola di comunità, che mi esprime le categorie di questo essere nuovo che con Cristo morto e risorto è entrato nel mondo e che si palesa nel mondo come unità fra gli uomini. L'unità che è impossibile agli uomini diventa per noi possibile, perché è già costituita quella realtà per la quale «tutti voi che siete stati battezzati vi siete rivestiti di Cristo, e non esiste più né greco né giudeo, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma voi siete un sol uomo in Cristo Gesù»; ricordate la lettera di san Paolo ai Galati (cap. 3, 27-28).
È questo l'avvenimento per cui il mondo esiste come storia. E questo avvenimento, nell'ambito che ci tocca di vivere, è la nostra unità.
La Scuola di comunità deve diventare la parola in cui si alimenta e in cui si giudica quotidianamente la nostra vita.
E la riunione - assemblea nel senso di riunione di uomini -, così come la comunità tutta a cui apparteniamo e a cui ci riferiamo veramente, costituisce il luogo autorevole per l'educazione, lo sviluppo, la fecondità della mia vita.
Io non riconosco più il mio volto se non dentro questa unità, dentro il riferimento, l'indicazione viva, le parole esplicative, le decisioni, le operazioni di questa realtà.
È chiaro che tutto questo deve e può diventare reale soltanto là dove siamo. Quindi tutta questa grandezza di mistero e questo peso di responsabilità storica e tutto questo reale incremento della nostra persona è nella comunità di ateneo che trova il suo contingente, passeggero, ma autentico ambito.
Io volevo richiamare con questa osservazione capitale il vostro cuore così come il mio, al punto di vista esatto, alla centratura reale. Tutto ciò che nasce fuori di questa centratura è illusorio: invece che amore è istintività, invece che espressione vera di sé, espressione della propria verità, del proprio vero volto, diventa la maschera di un potere che attraverso le iniziative e i rapporti personali della vita di comunità tenta di strumentalizzare, perché l'istintività al di fuori di un giudizio di valore non è umana, è una violenza all'unità della persona, è divisione, e perciò strumentalizzazione; fuori di questa centratura non c'è amore e la vita diventa reattiva.
Ma prima di concludere voglio che riconosciamo un fatto di cui ognuno di noi è veramente responsabile: la comunione, la comunità è da noi che deve essere creata, è creata dalla mia conversione al riconoscimento della presenza di Cristo tra di noi, senza pretendere delle condizioni particolari per deciderci a farlo.
«La giustizia è la fede». È la fede vissuta in me che crea, non in senso ontologico, ma nel senso che esplicita, l'unità fra di noi.
È questo il cammino della vita, per questo sono stato afferrato da Cristo, come diceva san Paolo nella lettera ai Filippesi: «Non che abbiamo raggiunto la perfezione, ma noi corriamo verso di essa per afferrarla, perché anche noi siamo stati afferrati da Cristo» (Fil 3, 12).
La sorgente della comunione e perciò la scaturigine della comunità sei tu in dinamica di conversione, sei tu nella fede vissuta, come fede vissuta, e la fede è il riconoscimento della tua presenza, o Cristo.
Questo è l'uomo cristiano che diventa grande: e l'abbraccio con cui Cristo sta lentamente prendendo possesso dell'universo, tempo e spazio, deve essere visibile agli occhi di tutti tra di noi.
Quando siamo entrati nell'università c'è stato un momento - o ci sono stati momenti - in cui lo struggimento, il desiderio o addirittura la passione per una realtà nuova, per qualcosa di nuovo, ci hanno animati.
Adesso viviamo in università senza più questo gusto, il gusto della vita nuova; il gusto dell'avvenimento nuovo è l'unità tra di noi, non nominalistica, astratta, o puramente intenzionale, ma una unità che diventi la nostra vita; da una attenzione diversa agli uomini, personale - nessuno ci è più estraneo - a una condivisione di tutti i bisogni, tutti, materiali e spirituali, dai soldi all'affronto di qualunque problema, fino al perdono, perché non mi importa come tu mi ripaghi, come tu mi capisci, come tu mi conosci.
Da questo riconosceranno: «Ti prego, Padre, che siano una cosa sola» (Gv17, 11) dentro la realtà dei problemi, delle ore, dei giorni. L'avvenimento nuovo non sono le nostre iniziative politiche, culturali, sociali, le unità di lavoro, non sono i nostri seminari, gruppi di studio, controcorsi, nulla di questo, perché questo lo sanno fare anche i pagani. L'avvenimento nuovo è questa unità tra di noi, impossibile ideale dell'uomo, che Dio ha reso fatto tra di noi e che siamo chiamati a manifestare nel nostro corpo e nella nostra convivenza.
Dicevo nella giornata d'inizio del nuovo anno per gli adulti: non «partecipare a qualcosa», ma «essere un avvenimento», perché l'avvenimento della nostra unità ha la sua scaturigine in quell'avvenimento nuovo di me stesso che si chiama, nella sua dialettica dura fin quanto volete, ma tenace, «conversione». Conversione di me a questa unità con voi significa l'avverarsi del mio io, del suo significato, l'avverarsi del mio volto vero, della mia potenza d'uomo.
Che la gente attorno a noi, nelle nostre facoltà, nei corsi, non veda più soltanto, come vede ora, la nostra appartenenza a Comunione e Liberazione, cioè un seguito di iniziative, di raduni, di strumenti da usare, ma si accorga dell'avvenimento di Comunione e Liberazione in me e tra di noi, s'accorga di questo mutamento che io divento, s'accorga di questa unità che potranno combattere rabbiosamente, ma di cui non potranno ultimamente non sentire nostalgia: roccia contro cui il potere degli inferi, direbbe Cristo a Pietro, non potrà mai prevalere.
La genericità del discorso - come può sembrare, perché soltanto una maturità di immaginazione evita l'astrattezza di questa impressione - o la generalità dell'indicazione dovrà diventare concreta struttura nel vostro progetto sulla giornata ogni mattina, nel giudizio sulla vostra giornata ogni sera, nell'intesa concreta e rinnovata ogni mattina che vi rivedrete a scuola, o che non vi vedrete, e allora vi penserete, sentirete l'altro una cosa sola con voi quando dovrete giudicare di dover studiare a casa, perché la comunità non è il radunarsi, il confluire di iniziative, ma il complesso delle categorie con cui concepisco me stesso.
Amici miei, comunque questo è il chiodo da battere quest'anno; altrimenti Comunione e Liberazione realmente diventa un partito politico e basta, diventa una associazione, fervida di iniziative, ma sufficientemente logorante perché sia difficile amarla oltre un determinato numero di mesi.
Invece se è per amore, se è amore, cioè tensione a realizzare il contenuto supremo del giudizio di valore sulla propria vita, il riconoscimento del Dio presente tra di noi e in noi, il riconoscimento di questa unità che è mistero, e che questo è tutta quanta la nostra vita, allora non c'è lavoro che logori. Stancherà, ma non logora. Si dovrà dormire di più, ma il cuore non avrà deficienze e il tempo che passa aumenterà il gusto.

Le altre notazioni che volevo fare stamattina le faccio più brevemente, ma dovremo svolgerle di più durante il corso di quest'anno.
Sapete da dove nasce una cultura?
Una cultura non può che nascere da un gusto del vivere.
Il gusto del vivere è quel riverbero conoscitivo e affettivo che una determinata concezione dell'esistenza, un determinato giudizio di valore sulla vita, vissuto, comunque vissuto, danno.
La cultura non è nient'altro che lo sviluppo critico e sistematico di questo gusto del vivere.
Noi facciamo cultura di Comunione e Liberazione, facciamo cultura cristiana, cultura nuova - perciò non ci alieniamo, poco o tanto, nella cultura dominante - esclusivamente nella misura in cui la nostra esperienza di vita fiorisce su quel che abbiamo detto prima.
Non è innanzitutto questione di una capacità di erudizione o di contenuti nuovi o di immagini strane, diverse da creare; è questione di consapevolezza - la consapevolezza è un abbraccio fatto con gli occhioni sgranati del bambino sulle cose, chiara e piena di riso, piena di umorismo e di ironia, piena dell'umorismo con cui il padre guarda il figlio suo, il bambino suo, la sua generazione - una consapevolezza piena di questo gusto dell'esperienza che si sta vivendo, cioè del proprio io nella realtà, dentro i rapporti concreti, dentro la storia.
La cultura è questa consapevolezza così carica di gusto fino all'umorismo, all'ironia, per amore, per affezione, che si documenta criticamente e sistematicamente. Il «sistematicamente» è dentro l'affezione, il «criticamente» è dentro le parole umorismo ed ironia che ho usato.
Noi non possiamo, anche con una maschera di dolore, non avere, non essere un volto diverso, un volto con dentro la possibilità della gioia, un volto capace di gioia. Una cultura vera non può che nascere dalla gioia. Per questo è orrendo, ad esempio, come vedo che certi scelgono le facoltà: scelgono la facoltà a prescindere dalle loro inclinazioni, per dei motivi teorici astratti. Certo, oggi la società ha bisogno, poniamo, soprattutto di insegnanti, e anche se su questo noi cristiani abbiamo perso la battaglia; con sacrificio si può scegliere una facoltà che porti all'insegnamento. Ma se uno ha una inclinazione reale ad altro, non può sacrificarla.
L'umano che rifiorisce è il sintomo del Cristo fra di noi. Non che fiorisca a poco prezzo, ma che rifiorisca realmente, realisticamente secondo tutti i fattori della nostra esistenza che è, come diceva Thomas Mann nella prima parte di Giuseppe e i suoi fratelli, «per natura felice, ma oltre natura triste e dolorosa».
Là dove la cultura è riposta in una creazione di immagini di cose diverse, nell'immagine di un cambiamento, nell'immagine di un futuro diverso, di corsi diversi, di professori diversi, di una situazione politica diversa - mentre tutto questo non può essere che corollario, l'esito, se Dio vuole -, là dove la cultura in primo piano consiste in questo (come quella degli extraparlamentari) rivela, purtroppo, poco o tanto il segreto cuore di ogni ideologia. L'ideologia sta proprio qui, nel fatto che pone la sua speranza in qualcosa che deve venire, costruito dall'uomo - incoerenza suprema, perché se uno ha le mani impotenti, come fa a costruirsi delle mani potenti, se uno è fragile e incapace oggi, come fa ad essere capace domani con le sole sue forze? Deve intervenire qualcosa d'altro: è il concetto di rivelazione, è il fatto del Dio che ci ha amati dal profondo del tempo e che agisce positivamente sul presente. L'ideologia è sempre fuga dal presente. Tutte le ideologie, poco o tanto, in primo luogo eliminano il passato e in secondo luogo violentano il presente, e questo è il segno chiaro della loro menzogna, è la negatività che si rende palese. Per l'ideologia d'oggi qual è il significato del passato? Negativo. Qual è il significato del presente? Negativo. Ma se il passato può essere dimenticato, il presente è presente, e allora lo si distrugge: invece di costruire.
Invece la verità guarda il passato e tira fuori dal passato il suo contributo alla costruzione, interpreta il passato, è una vera anamnesis, fa risorgere il passato nella figura che sta nascendo, che sta partorendo; e il presente è la doglia del parto.
E tutto, anche il nostro male, anche il nostro peccato, diventa spunto per una saggezza nuova, per una profondità più grande, per una chiarezza che riconosca l'unico giudizio di valore vero: che Cristo, cioè Dio fatto uomo, è tutto.
Un rinnovarsi perciò dell'attività culturale come consapevolezza della tua genesi: allora corsi e controcorsi, seminari e gruppi di studio, unità di lavoro e iniziative sociali e politiche, tutto diventa il suggerimento che dà alla società quella esperienza di rapporti diversi che viviamo in modo finalmente non teorico, nominalistico, intenzionale o schematico.

Come è possibile che l'estraneità in qualche modo viga ancora tra di noi?
Se la prima grande dimensione dell'espressività umana è quella che la parola cultura segna, l'altra grande dimensione dell'uomo, che si concreta alla luce della cultura, quella per cui il mondo incomincia a cambiare, è quella che chiamavamo la caritativa. Ma questa dimensione della socialità non ha, ancora una volta, come primo oggetto gli anziani della Baggina, o gli handicappati di una tale zona, o i poveri del proprio quartiere, o gli analfabeti di un altro posto, o gli emarginati.
Non ha questo come suo primo scopo, perché tutto questo o è conseguenza di qualcosa che già viviamo, o altrimenti diventa uno schema violento, tanto è vero che ci inorgoglisce, e se non ci inorgoglisce ci mette la coscienza a posto, e se non ci mette la coscienza a posto ci frustra, non ci ricrea.
Il primo momento, nel senso ontologico del termine, dell'espressione della socialità è il tra noi.
Ma come volete andare dagli handicappati se andando al vostro corso all'università non vi accorgete del vostro vicino, del vostro fratello che è una cosa sola con voi?
Non siete ancora completi come soggetto, siete frammentati voi; dove volete andare?
Bisogna riconoscere la propria unità; e allora nel livello quotidiano, banale, materiale della vita normale come diventa sensibilmente acuta la nostra percezione dell'altro, come diventa vera, tenace, realistica l'affettività, come non siamo più in preda alla nostra istintività, come il saluto diventa veramente il prolungarsi dell'abbraccio di pace dell'assemblea liturgica!
Uno fra noi non può, non deve poter più arrivare a passare le giornate, ad andare all'università, tenendosi dentro una tristezza di cui nessuno si cura, o un bisogno che gli urge e di cui nessuno si accorge.
È qui dove ci dobbiamo spaccare, non nelle rivoluzioni proclamate dai politici, che sono la più grande menzogna costruita su un bisogno reale. Bisogna che spacchiamo noi stessi - contrizione -, perché tutto il nostro essere si poggi dentro questa unità. Questo è il cammino, il destino del nostro vivere, questa è l'etica e la moralità nuova.
Da qui sorge la possibilità di un volto nuovo alla realtà umana; una umanità nuova incomincia così, l'umanità nuova che nasce dalla Chiesa, la stessa umanità della Chiesa comincia così, nel rapporto tra l'uomo e la donna in casa.
Non c'è amicizia tra di noi se non ci richiamiamo a questo; per questo ogni dimensione caritativa e sociale deve scaturire da questo nesso tra di noi.
Ne sarà riverbero l'apprensione vivissima a tutti i bisogni per la gente più povera, quella che anche gli schemi più umanitaristici non possono che dimenticare, perché, essendo tutte le ideologie necessariamente schematiche, dimenticano l'individualità e perciò il vero volto dell'uomo.

E da ultimo il sintomo più amaro, il segno più amaro della nostra vita di comunità in questi anni.
Non è un'accusa, è un richiamo, e può esser comprensibile perché la lotta dura, incessante, pesante a cui i tempi ci hanno costretti ha centrifugato il possesso che noi abbiamo di noi stessi, ha centrifugato la coscienza di noi stessi. Perciò tutto quello che abbiamo detto stamattina deve diventare oggetto di costante meditazione, altrimenti non riusciremo nemmeno a proseguire le lotte, perché saremo stanchi, e non avremo più il cuore della nostra vita, che è il gusto. Ora, il lavoro non logora, ma aumenta il gusto di sé, se deriva da questa coscienza, non se, avendo preso lo spunto da essa, segue poi il suo iter, prescindendone.
Il sintomo amaro, spiegabile per tutta l'attività che ci ha centrifugato - se la casa brucia bisogna lavorare senza sosta perché l'incendio finisca; non è un tempo di pace quello in cui siamo stati chiamati a vivere -, è l'omissione della terza grande dimensione della personalità umana che è la comunicazione.
Badate che la comunicazione è conseguenza delle prime due dimensioni: una coscienza critica e sistematica della propria vita e una umanità nuova. Ma le prime due dimensioni non possono sussistere se manca la terza, cioè la passione a comunicare agli altri quel principio di vita, quella realtà di vita, quella unità di noi, quell'avvenimento che ci ha liberati.
Le vostre comunità hanno segnato una deficienza sterminata di questa capacità di missione.
L'aumento delle nostre comunità è costituito molto di più da un riflusso associazionistico da Gs, che non dal coinvolgimento vivo che ciascuno di voi ha con i propri compagni.
Se non proponete la vostra amicizia, se non proponete attraverso la vostra amicizia ciò che vi rende liberi, prima di tutto vuol dire che non l'avete tanto a cuore, in secondo luogo vuol dire che non siete amici di nessuno, perché l'amicizia è dare quello che libera.
Non ci deve essere uno tra i vostri compagni con cui studiate nel corso, nella facoltà, nell'università, che non trovi, attraverso l'amicizia che nasce, il legame di un volto diversamente puntato sul suo, che non possa vedere qualcosa, l'annuncio che noi portiamo.
La missione non è un fare delle iniziative, come se fosse un convocare la gente a un discorso; anche il volantino stesso deve essere un rapporto che cerco di stabilire, non una merce lanciata.
Realmente quello che diceva Cristo: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù» (Mt 19, 29) è sperimentabile: il centuplo d'umanità.
Il segno che stiamo mirando giusto è se in noi sentiamo fiorire più umanità; il segno che la comunità è centrata è se la nostra umanità si sente accolta.
Le due osservazioni non sono in discontinuità tra di loro: se tu vivrai centrato la comunità e la genererai tu, ti sentirai dentro la comunità, anche se gli altri non ti valorizzano, perché l'umanità è la vita come strumento dell'Amore.

Ognuno sorprenda quanto di se stesso appartiene o no a questa dimora
che il nostro discorso e il nostro metodo, con la grazia di Dio, hanno creato.