Eucarestia: la grande preghiera

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Luigi Giussani

Appunti dall’intervento di Luigi Giussani per un Quaresimale. Parrocchia di San Vittore al Corpo. Milano, 22 marzo 1996. Un contributo in vista del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, che si celebrerà a Bari dal 21 al 29 maggio, e che sarà concluso da papa Benedetto XVI

Ringrazio chi ha organizzato questo incontro per la provocazione contenuta nella postilla del titolo. “L’Eucarestia: la grande preghiera”. Sinceramente, è la prima volta che sento questa connotazione così sobria ed essenziale. Spero che il Signore mi dia di comunicare a voi qualcheduno dei pensieri che queste parole mi hanno suscitato, perché è una provocazione riassuntiva di tutto quanto costituisce l’espressione dell’uomo che si rivolge al Padre avendo incontrato il Figlio.

1. Eucarestia. Il metodo di Dio
Mi permetto, prima di tutto, di leggervi un brano dello Zibaldone di Leopardi: «In questo presente stato di cose non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali ne affliggono solamente una parte. L’amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita umana, se non è calmato da verun piacere vivo, affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non v’abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L’indifferenza non è lo stato dell’uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità» (Zibaldone, 1554-5)1. E sulla felicità Leopardi scriveva ancora a un amico francese, nel 1823: «Se la felicità non esiste, che cosa è dunque la vita?». La felicità, infatti, è lo scopo di questo dinamismo insonne che è l’uomo.
La frase dello Zibaldone mi ha richiamato al fatto che l’uomo non può scandagliare il Mistero. La religiosità naturale è protesa a riconoscere l’esistenza di un quid ultimo, di una realtà ultima: «Esiste - diceva Kafka - uno scopo».2 Ma la via quale sarà? «Non c’è la via». Non si può scandagliare Dio come senso della vita. Il senso della vita non si può scandagliare. Le domande che uno fa sul senso della vita, quando se le fa, sono più domande investigative che neanche domande di vero, di verità. La domanda di verità, infatti, dovrebbe essere, per sua natura, religiosa. Se la questione fosse di conoscere Dio con una definizione, allora dovremmo trovarla. Ma pretendere di definire Iddio sarebbe come spegnere la domanda; in fondo in fondo, sarebbe ancora una bestemmia cercare di addentrarsi, di capire, di definire il Mistero, almeno fino al punto in cui si riesca. A meno che Lui si manifesti! Il Mistero si comunica, o non si capisce. Se il Mistero si manifesta, la vita accetta volentieri di essere attesa e di favorire, in questo senso, una semplicità al fondo da bambini, in chiunque. Per questo Gesù, nel Vangelo di Matteo, al capitolo 11, rivolge la sua grande preghiera al Padre: «Ti ringrazio Padre perché hai fatto capire queste cose agli umili, ai semplici, e non a chi crede di sapere e di potere con la sua indagine. Così, Padre, è piaciuto a Te».3
Dio si è manifestato. L’attesa che Leopardi sottolinea sempre, che ognuno di noi facilmente sente, l’esigenza che il cuore ha della verità, ha trovato risposta (anche se, pure di fronte a questo, si può aderire con una certa ultima indifferenza, come dice lo Zibaldone: è come se un’ultima mancanza di serietà ci impedisse di trarre vantaggi da ciò che l’animo ospita, da ciò che i rapporti esigono di interiorità, di delicatezza, di capacità di perdono, di gioia comunicata).
Dio si è manifestato, il Mistero ha svelato se stesso. Quello che la parola “Eucarestia” ci invita ad identificare è proprio il metodo con cui Dio si manifesta. Con quale metodo Dio ha deciso di manifestarsi all’uomo e al mondo, all’esistenza dell’uomo e alla storia? Richiamiamo volentieri il fatto che il Mistero, come metodo di comunicazione di sé, si identifica con un tempo e uno spazio; è come se il Mistero cercasse sempre di identificarsi con un tempo e uno spazio, con un presente che è presenza, cioè con un avvenimento (come, grazie a Dio, ora si incomincia di più a sentir dire).
La nostra meditazione, in questo senso, ricorda l’inevitabile figura di Abramo, come inizio, perché è nell’avvenimento di Abramo che il contatto di Dio con l’uomo ha prodotto una strada - una strada che non finisce più, che finirà con la storia del mondo - e che ha investito anche noi. «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” [che significato universale ha questo avvenimento: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra»!]. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. (...) Il Signore apparve ad Abramo e gli disse: “Alla tua discendenza io darò questo paese” [è il segno del mondo]. Allora Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso»4.
Così, dopo Abramo, la meditazione nostra si arresta sulla figura di Mosè, che nel roveto ardente si sentì dire il nome con cui sarebbe dovuto andare dai suoi fratelli in Egitto e parlar loro di quanto Jahvé a loro chiedeva. «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi»5: il Dio dei vostri padri, quel Dio che si è manifestato e coerentemente si manifesta attraverso un avvenimento che diventa storia, un avvenimento continuamente presente. «Questo è il mio nome per sempre»6. Anche qui una valenza universale.
Finché la presenza di Cristo ci ferma, sguardo e cuore, come ci fa ricordare il Vangelo di Giovanni: questa è l’opera di Dio, «credere in Colui che hai mandato»7, perché «Io e il Padre siamo una cosa sola»8. Quella sera, poche ore prima che fosse preso - il silenzio degli apostoli era teso, senza paragone più grave del solito -, quell’uomo disse, tra un punto e l’altro del discorso: «Senza di me non potete fare niente»,9 siete niente. Quid est veritas? Che cosa è la verità? Perché la verità è il senso della vita, la verità è l’unica cosa cui Leopardi attribuirebbe volentieri il sinonimo di felicità. Che cosa è la verità del mondo, della storia, dell’uomo e della sua esistenza? Quid est veritas? Vir qui adest. Le cose più capaci di parola in noi sono quelle che ci costringiamo a ripetere più spesso, perché, ogni volta che si guardano, la loro prospettiva si dilata, non si può più fermare. Questa è l’opera di Dio, questo è il significato del mondo: «Credere in colui che Egli ha mandato». Di fatto, la verità è questo uomo che è presente.


2. L’offerta
Ma io vorrei adesso richiamare la mia e vostra attenzione a un corollario, di fronte all’avvenimento come metodo di comunicazione che Dio ha usato nella storia (l’avvenimento di Abramo, di Mosé, di Cristo: è la storia che si compagina, è il fiume che fluisce verso la sua foce). È un particolare, ma è estremamente importante, a mio avviso, non solo di fronte alla storia dell’umano pensiero - la cui tentazione più grande, più grave, è sempre stata quella di una rottura tra lo spirituale e il contingente effimero; e quanto più uno era grande di mente e di cuore, tanto più sembrava proclive a gridare questa separazione come il problema della purità della ragione, della verità dell’uomo -; se l’opera di Dio è che si creda a colui che il Padre ha mandato - a quell’uomo! -, allora significa che la realtà sensibile, la carne e il sangue non sono limite, non si oppongono alla realtà ultima vera, all’eterno, allo Spirito.
Giovanni e Andrea tacevano travolti dall’evidenza di quello sguardo che parlava, uno sguardo che parlava loro quel pomeriggio. Zaccheo fu conquistato da quell’uomo di cui aveva sentito tanto parlare, ma che si fermò davanti al sicomoro e gli disse: «Zaccheo, vengo a casa tua». La Samaritana trovò quell’uomo, un giudeo, seduto sul pozzo, dall’altra parte: vir qui adest. La verità non è più, molto più evidentemente di prima, termine di una indagine fortunata, fortunosa, sul Mistero, così che l’uomo s’acquieti quando è stanco di continuare. La realtà sensibile non è più opposta: proprio con Cristo, nato da Maria, come realtà sensibile, non vi è opposizione tra le due ontologie del reale, anzi Egli ne è l’ unità.
La religione ebraica e tutte le religiosità autentiche hanno nel concetto di offerta l’immagine più grande della preghiera. Ma che cosa significa “offerta”, come forma normalmente più alta di preghiera, nella esperienza religiosa di un popolo? Che tutto, tutto, consiste di Dio; anche la terra e il sasso, anche la carne e il sangue, tutto consiste di Dio, di Cristo, si dirà, sarà detto: «Tutto in Lui consiste». Però non basta ancora. L’offerta non è solo questa constatazione che tutto consiste in Dio (che in un certo senso, non nullifica, ma fa percepire la pochezza dell’uomo di fronte alla forza dell’Essere), ma implica anche un altro risvolto di sentimento, come opposto: il desiderio che il volto di Dio si manifesti. È un duplice sentimento che dunque “vigoreggia” l’offerta: se tutto è fatto di Dio, che Dio si manifesti, in tutto.
La grande preghiera dell’offerta si esprime perciò attraverso una realtà concreta: da agnelli e tori, simbolo della consistenza e del possesso che l’uomo ha sulla realtà, si passa all’offerta della circostanza e dell’istante, simboli del tessuto stesso della vita e della esistenza tutta dell’uomo. Ancora le voci della nostra letteratura ci soccorrono. Ciò che appare bellezza nella donna, dice nella sua Aspasia Leopardi, è qualcosa che sta oltre il suo volto di carne e in esso traluce, sì che l’uomo «ancora nei corporali amplessi, inchina ed ama»10 questo che sta oltre, dentro e al di là delle sembianze predilette, mentre la donna, oggetto di tanto ardore, non capisce. Però, è un fiato, è un respiro di verità che viene anche dal fondo del pensiero antico pagano, quando - l’abbiamo visto - Seneca scrive: «Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso»11. Se vuoi la verità di te e dei tuoi rapporti, devi affermare un altro.
Comunque, il vertice di questa cosa sublime, di questo “gesto” nel senso letterale e originale della parola, il vertice dell’offerta l’ha fatto intravedere Gesù (è ciò che rende l’offerta della donna povera che dà un soldo, perché non può dar di più, identica alla generosità di colui che dà la vita per l’amico supremo, Dio): l’offerta è riconoscere che tutto è di Dio, fatto di Dio, di Dio, appartenente a Dio, consiste di Dio, è di Dio, tutto. Come diceva un’amica, nella sua vita sofferta: «La vocazione - l’essere chiamato, richiamato a Cristo - è come la luce che illumina la notte oscura delle circostanze». Perché sono sorde e opache le circostanze, e nulla è l’istante: l’offerta investe questo, questa virgola, questo iod, questo istante, riconoscendo che consiste di Dio, permettendoci così di sentirlo espressivo della nostra natura. L’istante è la prima misura della mia espressione di uomo.
Soffermiamoci ora su un’altra riflessione. Nel fenomeno supremamente espressivo dell’umano dell’offerta, il culmine è rappresentato dall’offerta di Cristo, l’uomo più consapevole, più amante del Padre e delle sue creature. «Christe, cunctorum dominator alme»12. L’Eucarestia, «la grande preghiera», è il culmine dell’offerta dell’umanità a Dio, perché in essa la dedizione di Cristo fino alla morte in croce vince l’ingiustizia come origine della storia, che sembra ingiustizia di Dio, ed è invece la ribellione originaria dell’uomo, che pretende di essere come Dio e diventa nel tempo alveo della menzogna, del demonio, del padre della menzogna, di Satana.
C’è una differenza profonda tra il male dell’uomo e il male che nasce in Satana e da Satana. Una ragazza mi domandava l’altro giorno: «Ma allora il primo peccato, il peccato originale è stato quello dell’uomo che ha preteso di essere come Dio, di affermare il suo io di fronte a Dio?». Io ho detto subito sì, ma poi ho pensato: c’è una differenza, ed è che il male originale, il peccato originale, quell’origine impossibile a farsi oggetto di fantasia, ma così reale che senza la sua ipotesi non si capirebbe nulla dell’uomo e del mondo, è stato sì un’affermazione o una volontà di affermazione del proprio io da parte di Eva e di Adamo, istigati da Satana; ma c’è qualche cosa d’altro nell’avvenimento, perché c’era, in Adamo ed Eva, qualche cosa che hanno ereditato dall’essere abominevole, dal padre della menzogna, come diceva Gesù, ed è una sfida a Dio. Non fu soltanto una volontà di affermazione di sé di fronte a Dio: la cattiveria fu nella sfida a Dio. La sfida a Dio, come cattiveria, non può essere dell’uomo, è proprio la tipica malizia di Satana. Allora io capisco il peccato originale come questo veleno iniettato nella natura umana, nel sangue dell’uomo: la sfida a Dio. Se perdonare l’affermazione di sé può essere quasi quasi ancora concepibile, perché anche noi dobbiamo perdonare ai nostri debitori, la sfida a Dio, no! Qui non è più possibile il perdono, ci vorrebbe paradossalmente qualcosa di più, un di più, qualcosa di indecifrabile, di impensabile per l’uomo. Ci vorrebbe la misericordia. Ci vuole la misericordia. «Felix culpa», diceva sant’Agostino13.
Nell’offerta di Cristo, la realtà carnale, il pane e il vino, diventando mistero della fede - cioè il corpo e il sangue del Verbo incarnato -, letteralmente coincidono con il Mistero del Figlio di Dio. Il Mistero coincide con il segno: dove questa suprema e adorabile unità, che si può affermare solo con timore e tremore - il Mistero si identifica con il segno, e così il segno, la realtà sensibile, la carne e le ossa non sono contro lo spirito -, dove questo avviene al sommo, se non nell’Eucarestia?
L’Eucarestia - ed è un ultimo pensiero - implica il trionfo della verità nell’uomo, perché riconosce come espressione del divino l’istante apparentemente effimero. Io cito sempre un mio amico che, da lontano, in tutte le lettere, scrive della «densità dell’istante». Tempo e spazio, per Cristo morto e risorto, non sono più un limite, l’istante non è una prigione né una tomba. Pure per noi il tempo e lo spazio sono strumento della nostra ricchezza espressiva, senza di essi non potremmo esprimerci, il nostro verbo non potrebbe esistere; ma nello stesso tempo chiudono: tempo e spazio sono la possibilità di dire e nello stesso tempo chiudono. Invece per Cristo morto e risorto tempo e spazio non sono più limite, ma “ragione” divina perché Lui sia presente. La ragione divina per cui Lui diventa presenza a me e a tutti noi fratelli è questo istante o questa circostanza, senza che sia per sé necessario aggiungerci altro.
Così l’Eucarestia diventa inizio del trionfo di Cristo nel tempo e nello spazio, cioè nella storia. L’Eucarestia inizia il godimento della risposta del Padre, che non può essere continuamente provocata nei figli, se non cedendo alla loro domanda, come dice il Vangelo di Luca al capitolo undicesimo e al capitolo diciottesimo. Contemporaneamente, l’Eucarestia è la sconfitta della menzogna, come ingiustizia e dolore senza speranza e quindi senza ragione. L’Eucarestia è Cristo morto e risorto, è il senso della resurrezione di Cristo in ogni istante di tempo e spazio, dentro la storia, e innanzitutto dentro l’esistenza della mia vita. In ogni istante il senso di me che mi soffermo a toccare questa cosa fuggevole è così inane, impotente! Il senso della resurrezione di Cristo è in ogni istante di tempo e spazio, nella mia esistenza e nella nostra storia: in ogni istante, come dice il libro del pellegrino russo. Ma bisogna ricordarci di questo dieci volte, cento volte, mille volte al giorno, fino a diecimila volte, fino a quando cioè il ricordo di Cristo risorto divenga familiare. La formula da dire è: «Cristo in croce per i miei peccati». La resurrezione di Cristo è il significato denso di ogni momento che passa.


3. «Chiamati in un solo corpo»
Secondo la storia stabilita dal Padre e operata dallo Spirito, Cristo implica nella definizione stessa della Sua personalità tutti coloro che vengono scelti. Forse occorrerà andare a rileggere, nel Vangelo di Giovanni, la preghiera di Gesù, capitolo 17, versetti 1-6. Nella definizione stessa della Sua personalità Cristo implica tutti coloro che sono stati scelti: «Padre, è venuta l’ora, glorifica il figlio tuo; perché lo scopo della storia è la mia gloria. Tu mi hai dato il potere su ogni uomo affinché io dia all’uomo la vita eterna. Questa è la vita eterna: che conoscano te, solo e vero Dio, e colui che hai mandato»14. E poi vi è l’accenno a questa selezione che dilunga, in un tempo disegnato dallo Spirito del Padre, dalla volontà del Padre, l’operatività di questa scelta. Nella storia, questa scelta viene operata, dalla forza onnipotente del Dio che fa tutto, nel Battesimo.
Perciò, il soggetto eucaristico, secondo tutta la sua statura, è, come si dice in teologia, “Cristo mistico”, realtà il cui compimento totale avverrà nell’ultimo giorno e sarà la gloria finale di Cristo, in quella misericordia che compirà ogni cosa. Ma Egli è già nella storia dell’uomo. Gli uomini in cui si riflettono gli sguardi di Giovanni e di Andrea, come quel pomeriggio, nella casupola vicino al Giordano, rivolti al volto di Gesù; gli uomini in cui questi occhi di Giovanni e Andrea si rifletteranno, ogni momento, ogni giorno si presentano come possibile amore a Cristo, perché il tempo istante per istante è amore di Cristo, rilevabile come unico significato delle incertezze, degli errori, degli abbandonati e sperduti bambini, della coscienza matura dell’uomo che piange per la persecuzione del mondo, per la sua solitudine, la sua estraneità in un mondo che lo perseguita, o che piange per la gioia del “popolo”, perché questo, al limitare del tramonto di ogni giornata, sta, come gocce sparse fra il mare di lacrime.
Comunque, il soggetto eucaristico è questo Cristo mistico, il cui compimento avviene in quella assimilazione misteriosa, dovuta a una potenza infinita, di coloro che il Padre sceglie, afferra a Cristo, li presenta a Cristo e Cristo li afferra, nel Battesimo li assimila a sé, e diventano membra del suo corpo, una realtà assolutamente nuova: «Non sapete che siete membra gli uni degli altri?»15. Se queste fossero solo parole, allora, tutto essendo pura parola, non ci sarebbe che il cinismo annientatore.
Questo popolo che così si costituisce nella storia - sia grande come nel Medioevo, oppure sia quasi soffocato, come in una piccola parrocchia dimenticata, dove il parroco ha venti o trenta persone che vanno in chiesa la domenica - come si manifesta, che scopo sociale ha, socialmente che cosa fa (non c’è nessun posto per ministri assegnato a loro, nessun sindacato che chieda di essere guidato dal loro cuore, dalla loro presenza, dalla loro fede)? «La pace di Cristo - dice san Paolo ai Colossesi - regni nei vostri cuori perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate perciò pieni di gratitudine»16. La pace è il prodotto della presenza di questo «unico corpo». Si tratti dell’epoca di Cluny, si tratti dell’epoca di Péguy, il popolo cristiano sta nel mondo come coefficiente di pace, sorgente della pace, equilibratore che assicura la pace, fattore della pace. Mi pare di leggere tanti pezzi del nostro Cardinale, ché questo credo sia il suo pensiero più intimo, segreto e appassionante. Coefficiente di pace: la pace che non si può fermare, che non fa arrestare, ma che continuamente lancia nell’incontro valorizzatore di tutto e di tutti, che sostiene la compagnia tra di noi.
Mi permetto augurarvi per la Pasqua quello che sento di augurare a tutti: la speranza è una certezza nel futuro in forza di una realtà presente. Non una presenza qualsiasi; è la presenza di Cristo, resa nota dalla Madonna, che ci rende certi del futuro, ed è possibile allora - allora! - un cammino senza sosta, per i piccoli come per i grandi, per i grandi come per i giovani; un cammino senza sosta, un tendere senza limiti, a partire dalla certezza che Lui, come possiede la storia, si manifesterà in essa. Questa attesa è un momento della giornata in cui siamo quasi continuamente sollecitati, da tutta la storia cristiana, a partecipare: è l’Eucarestia, l’offerta di Cristo, morto e risorto, al Padre, perché Cristo è del Padre, cui io appartengo nelle ore e nei minuti di questa giornata.

1 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 1937 (1994), p. 551.
2 Cfr. F. Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924),
Feltrinelli, Milano 1994, p. 91.
3 Cfr. Mt 11,25-26.
4 Gen 12,1-7.
5 Es 3,13.
6 Es 3,15.
7 Gv 17,3.
8 Gv 10,30.
9 Gv 15,5.
10 G. Leopardi, Cara beltà…, Bur, Milano 1996, p. 86.
11 Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Bur, Milano 1989, p. 296.
12 «Cristo, dominatore di tutti e datore di vita». Inno della Dedicazione
del Tempio. Canto ambrosiano del secolo V.
13 Dall’Exultet della liturgia pasquale, attribuito secondo la tradizione
a sant’Agostino.
14 Cfr. Gv 17,1-4.
15 Cfr. Rm 12,5; Ef 4,25.
16 Col 3,15.