Il fiotto dell'obbedienza

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Memores Domini (Salsomaggiore, 21 febbraio 1999)

Quello che chiedo al Signore in questo momento è che ci aiuti, o che mi aiuti nell'aiutarvi, a capire il significato più vero di quello che stiamo confidandoci in questi tempi. Perché il nostro discorso ha sottolineato e sottolinea certe cose? Veramente, non è facile accettare con tranquillità, come la può accettare un vecchio come me, la verità, che d'altra parte è inconfondibile e irresistibile, delle parole che diciamo e che ci siamo detti, specialmente le ultime due volte.
«L'uomo nuovo». Che cosa si dice, che cosa si intende dire, che cosa si pretende di dire con «l'uomo nuovo»? «L'uomo nuovo» potrebbe anche avere come sinonimo «l'uomo vero». Ma questo può sembrare un appesantire la chiarezza della proposizione. Perché? Perché tanti possono sentirsi «uomini veri» mentre, dal punto di vista del Signore, possono oggettivamente essere poco «veri». L'uomo nuovo, l'uomo vero - questo è il particolare punto di vista che ci è stato iniettato dal Signore - è l'inizio dell'eternità nell'esperienza dell'uomo solito in questo mondo; è l'esperienza di un uomo che coltiva l'eterno, percepisce l'alba dell'eterno in sé, capisce come nella sua esistenza la verità eterna o la felicità compiuta ed eterna sono tangibili, sono contenuto reale dell'esperienza.
Per questo ho sottolineato molto l'importanza di quella magnifica poesia che è l'inno Prima che sorga l'alba.1 «Prima che sorga l'alba / vegliamo nell'attesa»: c'è un'attesa nell'uomo, quanto più è semplice e trasparente, c'è un'attesa che deborda ogni raggiunto termine, ogni raggiunto oggetto del proprio desiderio, ogni raggiunto compagno, ogni raggiunta soddisfazione.
Ecco, ci può essere un pagano, un poeta pagano, il poeta più pagano che la storia letteraria ci abbia fatto conoscere, che ha un'intuizione, a un certo punto, che descrive geneticamente questa impressione che l'uomo ha, che l'uomo può avere, del non eterno: il non eterno, l'effimero, il passeggero come una dimostrazione, per contrario, dell'eterno, dell'eterno per l'uomo, di una verità eterna per l'uomo, di una felicità eterna per l'uomo; perché è traducibile anche in questi termini il fatto che le cose, tutte le cose, persone o cose, tutte le cose - momenti o periodo o vita intera - non sono. «Non sono»: non sono sufficienti a dire e a definire. «Medio de fonte leporum surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat»,2 dice Tito Lucrezio Caro, che è il più accanito materialista dell'antichità: proprio nel folto della soddisfazione c'è un punto di sorgente amara che strozza, soffoca, strozza in mezzo al piacere.
Comunque, l'eterno ha un inizio nel tempo. Il tempo dell'uomo non è come il tempo della gazza ladra o del micio, del gattino: ha dentro quel qualche cosa di vero, che è vero, ha dentro il vero (altrimenti non se ne potrebbe neanche parlare). Ha dentro il vero. È l'eterno che ha l'inizio nel tempo. Se l'eterno è amore e felicità, verità e felicità, l'eterno è presente nel tempo come verità e come felicità, come soddisfazione, come compimento, come esperienza di compimento. È una differenza di vita quella che, attraverso noi, Dio vi chiede, Gesù vi ha chiesto. Vi ha chiesto e, quindi, vi chiede, perché il Signore non può venire nel mondo e nella tua vita e commettere l'errore (sarebbe un andar contro natura, per Lui) di chiederti «momentaneamente»: non naviga che nell'eterno il Signore, cioè Dio fatto uomo, l'uomo che è Gesù Cristo.
Ho pensato, rimuginando questa cosa, che è una piattaforma perenne, anche senza credere in Dio, dell'insufficienza della forma della nostra vita, della forma "terrena" della nostra vita.
Volevo cercare di farvi capire il valore, il valore reale della tematica sul lavoro. Che cosa c'era prima del lavoro? Che tema abbiamo fatto negli Esercizi prima del lavoro?
Abbiamo parlato della memoria, cioè di Cristo. Di Cristo e poi dell'uomo. E, parlandovi dell'uomo dopo d'aver parlato di Gesù Cristo, abbiamo ripetuto che l'uomo è uomo se imita Cristo, come avevamo detto agli Esercizi della Fraternità due anni fa e poi l'anno scorso:3 Dio è tutto in tutto, questa è l'osservazione suprema che, anche se non è voluta, ci segue ogni giornata, ogni tempo, ci tallona senza sbagliare di un minuto; e, si diceva poi, l'uomo è uomo solo in quanto è memoria di Cristo, «Cristo tutto in tutti». «Dio è tutto in tutto», ma «Cristo è tutto in tutti», cioè Cristo - la sua concezione di Dio e dell'uomo - deve essere imitato, cioè deve riflettersi nella coscienza di tutti: «Cristo tutto in tutti».
Quello che implica questa tentata identificazione o questa sequela, in quanto è consapevole e cordiale, sembra portare in sé un suggerimento altamente anomalo per le nostre esperienze normali (tanto che l'animo devoto sta lì ad attendere, carico di curiosità e poi di desiderio; ma l'animo - come dire? - non riflessivo, che non bada a sé, che non pensa mai a sé, rifiuta le cose con la stessa istintività con cui esse gli vengono a tiro, con la stessa istintività le rifiuta): «Factus oboediens usque ad mortem».4 San Paolo, parlando di Gesù, ha questa espressione terribile, chiara e terribile: terribile all'uomo piccolo; ma all'uomo che è come bambino o come grande con grande coscienza di sé, diventa invece un sollievo e una sorgente di pace, di equilibrio e di pace. Gesù - ricordate il pezzo importante della lettera ai Filippesi? -: «fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce». Fatto obbediente.
Per non tardare troppo, dico che l'uomo nuovo è l'uomo vero, ed è l'uomo felice, della felicità che è letizia, della felicità che può avere, come tante volte sperimentiamo noi e vediamo negli altri, in tanti altri (tanti altri senza le pretese che abbiamo noi). L'uomo nuovo è l'uomo felice, che ha questa soddisfazione - soddisfatto -, una soddisfazione che è gremita di gratitudine (l'uomo intellettuale come noi, ben sapendolo; ma è più meravigliosa la gratitudine che ha la persona pacata, pacificata, senza troppi ingombri di parole e di rapporti!).
L'uomo nuovo è l'uomo vero. E l'uomo nuovo (o vero) ha come sua definizione l'obbedienza (non c'è nessuna affermazione più ridicola di questa nell'uomo che crede di avere consistenza in sé, che ha una qualche consistenza in sé, o uno spazio che attenda questa presunzione, questa presuntuosa posizione): l'obbedienza come norma della vita, come descrivibile dinamica dell'esistenza di un individuo. Perché Cristo è l'uomo: «Ecce homo», «Ecco l'uomo». Ponzio Pilato ha detto così quando ha presentato Cristo schiaffeggiato, con la corona di spine e tutto insanguinato: «Ecco l'uomo». Ma quell'uomo era così per obbedienza. E qualsiasi cosa si possa dire di Cristo, fu per obbedienza: «Io, quello che il Padre mio vuole, faccio sempre».5
L'obbedienza è pensare, fare tutte le cose avendo il motivo e il criterio da Altro attivo e determinante nel presente, cio?a una Presenza; l'obbedienza è l'adempiere questo - sperimentalmente, anche secondo l'assetto che si è assunto o che Dio fa assumere -, l'obbedienza è atteggiamento, comportamento - comportamento e atteggiamento, perché tutto diventa in noi punta aguzza, improvvisa (oppure punte aguzze normali nella giornata) o diventa placida sorgente, una virtù sorgiva; ma la cosa più bella sono le due cose insieme, quando c'è una semplicità da bambini e uno sguardo e un comportamento da grandi. L'imitazione di Cristo mi pare che conduca a queste (come si chiamano in montagna?) strette forre -. L'obbedienza è la parola che riempie il cuore, comunque, per la modalità umana nuova. Un uomo nuovo, una vita nuova, un atteggiamento nuovo, ha come trasparente paradigma una modalità nuova nel guardare tutte le cose. Questa modalità nuova è che il guardare le cose aumenta, fa essere più fiottante una speranza, la speranza che non può mantenersi se non è vera, veramente intesa. Ma la speranza è tutto il grembo dell'uomo; il grembo dell'uomo (per fare un paragone che può sembrare valido solo per la donna) è la speranza.
La fede, la speranza e la carità sono tre virtù, le abbiamo imparate come tre virtù, ma sono un bozzetto in cui il punto cardine è la certezza, una certezza. È come avere una certezza in tutti i campi, per tutto l'orizzonte (include anche la fede, deve arrivare alla fede; per questo i termini cristiani «isolano» questa fede come sorgente di saggezza).
L'obbedienza è parola che riempie il cuore della modalità nuova di una speranza vera: la speranza come certezza che l'uomo ha in cammino; un cammino che è dettato dalla certezza della fede e che si documenta, ravvivandosi continuamente con quel che fa, con la carità.
È proprio tale obbedienza che suscita speranza, è proprio questa obbedienza che stabilisce il grembo materno per l'uomo nuovo e fa sentire, vedere e sentire, fa vivere, come in un crepuscolo del mattino o come in un albore, il compiersi dell'uomo nuovo. Perché l'uomo che cerca di seguire Gesù non è mai nella posizione in cui Gesù è, non è mai sempre teso a seguirlo, ma nella misura in cui questo è pur fatto in qualche modo, si avverte che è avvenuto qualcosa! Perciò l'aspetto più grave della vita di un uomo del genere è la preghiera, è il domandare a uno. Pensate a Pietro o a Giovanni e Andrea, quando lo seguivano per i viottoli dei campi: lo seguivano senza perderlo di vista una volta, un momento. Ma, a un certo punto, lo sguardo di Gesù su di loro, e lo sguardo di loro su loro stessi, non poteva non accorgersi di qualcosa che cambiava in loro.
Chi è fuori da questo grembo materno dell'obbedienza è fuori da qualsiasi giro delle cose. Ma, per saper chi è fuori, diciamo in che modo l'obbedienza è fonte, sorgente della certezza, della certezza che dà fede e carità, e della certezza che si chiama speranza, perché riguarda il futuro, riguarda il domani, tra un'ora. Obbedire significa - basta leggere specialmente san Giovanni: l'ultimo discorso di Gesù6 o il sesto e il settimo capitolo (la prima discussione pubblica di Gesù con tutti gli alti papaveri del popolo ebraico di allora) -, obbedire significa che, per il giudizio e per la decisione a cui l'uomo è portato o per cui è sollecitato, l'uomo segue un Altro da sé e poggia tutta quanta, confonde la sua persona, come intelligenza delle cose e come giudizio sulle cose e come affettività per le cose, in un'altra persona: stanno in un'altra persona, in un Altro, in un'altra Presenza (un Altro, comunque, in quanto è al di sopra e al di fuori, più dentro di me a me stesso).7
Se, invece, non si è in questa posizione, se si è determinati da quello che ci dicono altri, se la nostra posizione non è determinata da Cristo, dalla sequela di Cristo, se è determinata da altro, è una posizione da schiavi (la lettera ai Romani di san Paolo e la lettera ai Galati parlano bene di queste cose).8 La non obbedienza è il prevalere di una dismissione di Cristo, di una «dimissione» di Cristo: scompare Cristo dal nostro giudizio e l'uomo si governa con propria misura, cioè l'uomo sceglie lui da chi dipendere (perché è evidente che uno non si fa tutto da sé, perciò dipende da qualche cosa). L'uomo si avvita sul suo no che prende la mela; l'uomo si governa con questa misura. E la mela di Eva, se è una metafora iperbolica, prende poi negli uomini tutta la coscienza in modo preciso, con una precisione che non sappiamo avere nei nostri atti, pubblici o privati, sia pur fatti con attenzione. È quel no di Eva che si traduce - come dice Eliot - in «usura, lussuria e potere»,9 dei quali quello che più è sentito e si può dir generale è il potere, per un possesso che sembri più adeguato al proprio desiderio.
Perciò, l'obbedienza è il criterio di vita, il criterio ultimo di vita dell'uomo nuovo: «Fatto obbediente fino alla morte» (ma adesso accenno, devo rassegnarmi ad accennare soltanto a questo, perché dovrà evidentemente essere ripreso da noi). L'obbedienza è pensare, fare tutte le cose avendo il motivo e il criterio da Altro, da Altro da noi, cioè da una Presenza. Mentre la disobbedienza, la non obbedienza, cede ai criteri dell'altro, di qualcosa d'altro, a criteri e decisioni di altri, ma è una schiavitù, perché cede a tutta la violenza che un certo tipo di rapporto, che dimentica Dio sempre - sempre! -, ha.
Per questo dicevo che l'obbedienza è la parola che riempie il cuore, per la modalità nuova di cammino che Dio ha previsto per l'uomo: una speranza vera. E dietro questo compiersi dell'uomo nuovo che ne avviene, dietro questo obbediente, in lunga fila, saranno confermati tanti altri nella stessa speranza. Perché è da uno così che nasce un popolo; e il popolo è innanzitutto il figlio, il figlioletto, i due figlioletti.

Ora, il problema è che l'uomo nuovo si afferma su un uomo vecchio. L'uomo nuovo è come un innesto su un tronco vecchio. Per questo esige un cambiamento; tutto in noi dovrebbe portarci a questo cambiamento, ma dopo l'interruzione di Eva (la quale si è fidata non della presenza, ma di quello che non era stato mai presente nella sua esperienza: satana, il serpente, lei non sapeva cosa fosse. Così, per essere più libera è diventata schiava. Quello che non dipende da Altro ci fa sempre schiavi: per colui che non dipende da Cristo, dalla presenza di Cristo, la schiavitù è inevitabile).
L'uomo nuovo, l'uomo obbediente, affermandosi sull'uomo vecchio, esige un cambiamento, un cambiamento che è come se si creasse una creazione nuova, una creazione letteralmente nuova: è un altro. Chi ha sentito nella sua carne questo cambiamento dice che è come un essere nuovo (i Padri della Chiesa l'hanno detto in più espressioni).
Il passaggio che questo cambiamento implica è reso difficile, reso problema, reso caso - reso problema e reso ostacolo -, dal fatto che la novità si innesta su una vecchiezza. Perciò deve essere una creazione nuova, perché che un bimbo rinasca nel cuore d'un vecchio, nel cuore del vecchio, significa che molto lordume, molta copertura di questo vecchio deve svanire, deve essere eliminata: è il cuore che ritorna nuovamente creato.
Per questo tale cambiamento inizia sempre come un crepuscolo del mattino, come un'alba del mattino, una realtà in cui l'uomo quanto più cammina, cioè obbedisce, tanto più vince ogni reticenza e ogni nube; si dilata il sole della verità, della bellezza e dell'amore. Così resta investita la totalità di quell'uomo; perché se un brano di me stesso chiede il sole, venendo il sole illumina tutto me stesso: oltre quel brano, tutti i brani miei.
Questo «uomo nuovo» è la parola che esprime il vero avvenimento cristiano. L'avvenimento cristiano è l'entrata nella storia come protagonista ultimo di un uomo diverso. Soltanto che lo cambia adagio: il passaggio dall'uno all'altro, innestandosi questa novità sul tronco vecchio, inoltrandosi nel tronco, avviene adagio. Adagio avviene. Per questo ho sempre fatto cantare quell'inno bellissimo Prima che sorga l'alba:10 perché è la descrizione fisica, proprio perfetta, di come avviene, in un uomo che è richiamato, questo cambiamento. E, passo dopo passo, questo cambiamento è come "cose che non si vedono": non si vedono come occhio, né si vedono come concezione, come concetto, né si vedono come sentimento. Si capisce quel che ci viene detto; o, meglio, si capisce quanto sacrificio implicano quando il passo è da fare; possiamo anche non capirlo prima, non saperlo prima, ma il passo è da fare. Il passo di questo cambiamento è «strappante», ci strappa qualche cosa - «Per affermare quella presenza debbo» -: l'uomo vecchio, sentendo sorgere in sé un richiamo nuovo, per attuarlo ha bisogno di accettare questo strappo (come nelle operazioni di qualunque tipo: perfino il taglio è uno strappo).

Allora, a questo punto io spero che uno, se riempie di attenzione le frasi che dico una dopo l'altra, possa capire: «È in questo senso che ci avete parlato di lavoro, di uomo e donna, o di giustizia!». Certo, è in questo senso! Per questo avevo parlato di questi tre punti come documenti di un cambiamento. Queste tre cose, ognuna di queste tre cose in cui si documenta il cambiamento implica tutti gli altri aspetti della vita, perché è un cambiamento dell'io (non creativamente, perché la capacità data può coprire un solo aspetto della questione, però uno implica gli altri due, tutto! Non c'è niente di così disorganico da poter essere concepito come isolato da un contesto. Sarebbe astratto).

A. Ho parlato della giustizia come è vissuta nella nostra epoca: come il luogo dove l'uomo è misura delle cose. Fino a quando l'uomo è misura delle cose, fino a quando l'uomo si ritiene misura delle cose, la vita dell'uomo nella società sperimenta e subisce un dominio, una schiavitù - dice san Paolo nella lettera ai Romani -, non conosce cos'è la libertà. Anche chi fa un'accoppiata o una «triplicata» di grosse imprese che si mettono insieme, lo fa per impadronirsi di un potere maggiore - perché il soldo dà possibilità di fare tutto, di essere padroni di tutto, fa illudere di questo; e quanti si dimostrano illusi di questo! O il giornale lo scrive! -; si impadronisce del potere e tenta di rendere quelli che ha attorno schiavi di sé (ma questo impadronirsi del potere non vale soltanto per quelle ditte grosse - per la Telecom, per esempio, per usare l'ultimo esempio -!). Così, sotto il pretesto della giustizia, noi sentiamo l'urto che ci fanno, il disgusto che ci danno, questo sentirci buttare dentro un popolo nella sua caduta, perché tutti si lasciano buttar dentro. È un amaro documento il fatto che noi non possiamo identificare la giustizia con queste cose. Eh sì, la giustizia implica sempre queste cose, quando dimentica l'Altro per tutti e tutto, cioè Dio, e quindi Gesù Cristo e quindi ogni persona creata da Dio e salvata da Cristo.
Quel che diceva Nietzsche è fantastico come giudizio, ma dà anche il punto, il fenomeno risolutore di questa situazione in cui è tutta la gente: «Non mi piace la vostra giustizia fredda e nell'occhio dei vostri giudici riluce sempre per me il boia con la sua spada gelida. Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi, dunque, l'amore che porta su di sé non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe». Tra l'altro, per questo è bella questa frase: perché introduce anche il concetto di amore giusto. È la giustizia che fa capire quando l'amore è giusto: se l'amore produce giustizia, è giusto; se l'amore non produce giustizia, non è giusto. Ora, l'amore è affermare il destino dell'altro; uno non ama se non afferma il destino dell'altro, realmente. Può scivolare cento volte, se ha la vecchiaia come me o se è come un bambino che non sa dove è la strada o se ha la cocciuta e cornuta tenacia di chi è grande, ma l'amore è realmente un'affermazione dell'altro, di un altro: è come l'obbedienza, l'affermazione di una presenza come criterio.
L'obbedienza è amore, ma anche la giustizia implica questo, perché se la giustizia non è amore, cosa avviene? Avviene che tutti i fattori in gioco dentro un fatto perseguibile di un uomo, tutti i fattori che sono in gioco - tutti i fattori dell'esperienza, responsabili di quell'esperienza - non sono ricercati, non si fa un passo in più se non solo dopo d'averli trovati, non si dimostra niente; anzi, si dimostra coi pentiti, con i criminali che dicono di essersi pentiti.
Da questo punto di vista l'amore è giustizia non in quanto dissolve il giudizio sul male, ma perché l'amore implica il realizzarsi di un giudizio adeguato di fronte a chi ha errato: solo la carità può, di fronte a un assassino, far comprendere l'assassino, bonificando l'errore di tutti i limiti possibili della sua responsabilità. Invece, per l'io che non è amore la giustizia è violenza: arrivare a colpire l'altro appena dia uno spunto pure non verificato o, come vediamo, addirittura - l'ho detto prima - verificato con l'apporto della testimonianza di criminali che si qualificano come pentiti. È come in tutti i rapporti che non hanno il desiderio del destino dell'uomo come fondo dello sguardo. In tutti i rapporti l'uomo che non ha l'amore come ispirazione, come fattore del suo guardare, in tutti i rapporti, con qualsiasi compagnia della creazione, l'uomo senza amore è violento: la violenza, infatti, è pretendere che una realtà inadeguata possa supplire al reale intero.

B. Il rapporto uomo-donna è l'indice più chiaro della necessità della compagnia per il cammino della vita, come ha detto Dio nel Genesi: «Facciamo un essere che sia compagna di lui; non può stare solo questo essere che ho creato, perciò faccio una compagnia a lui». Ma se non è compagnia, la donna non è - non è! - soggetto dell'amore, soggetto o oggetto di amore! Non c'è l'amore tra i due, perché, se non è compagnia al destino, l'uomo o la donna pensano all'altro non secondo il destino, non con amore e preoccupazione al destino.
Il rapporto amoroso tra persone, il cui simbolo originale per l'uomo è la donna, è falso se l'amore, che è affermazione dell'altro come destino, viene bruciato alle radici dalle esigenze di un ritorno del nostro darci all'altro. Se darci all'altro ha bisogno, prevede, o è "giocato per", o pretende un ritorno dall'altro, non dono ma calcolo sarebbe - sempre! -. Un calcolo in cui lo svolgimento sorge ed è determinato dall'istinto, che veicola attraverso soddisfazioni o convenienze una sentimentalità; per cui l'affetto non nasce da un giudizio di intelligenza, ma da un'ondata precaria di emozioni e di decisioni in cui la violenza nascosta, incosciente a se stessa, produce un mattino senza sole.
Guardate, avevo portato alcune poesie con l'illusione di poterle leggere, invece vi prego di andarle a vedere sul testo Le mie letture il capitolo su Ada Negri: leggete Mia giovinezza e poi la poesia che dice: «Non seppi dirti quant'io t'amo», Atto d'amore. Andate a rileggerle, per favore, perché non è senza grande motivo e grossa intuizione quando insistiamo su certe cose, se ripetiamo le cose... è come il nostro carissimo "barzellettista" Adriano: tutti i pezzi che narra sono sentiti da noi per la centesima volta! Sono realmente vivaci, perché li fa con un tono e una modalità nuova.

C. Il lavoro. È veramente una scoperta poter riconoscere il lavoro nel senso più proprio del termine, nel suo orizzonte totale: il lavoro come orizzonte totale è rapporto dell'uomo con tutti gli altri esseri; ma è un rapporto che, vissuto con qualsiasi altro essere, illumina la coscienza che l'uomo ha di sé in un pensiero, in un ricordo del mistero dell'universo la cui natura è quella dinamica dell'Essere che deve operare. Così il lavoro è l'opera in quanto giunge a incidere sull'opera dello Spirito; è come il Mistero nell'aspetto originale della creazione. Ogni istante di lavoro, ogni gesto di lavoro - fosse quello di un ago che fissa un bottone alla camicia o alla giacca - ha la dignità propria del soggetto umano.
Se non si comprende questo, qualsiasi altra espressione cui una donna o un uomo è costretto (perché non può avere altro da fare, oppure non è capace di fare altro) non avrebbe dignità: sarebbe il cancellare tutti questi individui dalla faccia della terra, cancellare via tutto. Allora, anche chi va sulla Sojuz, nell'alto dei cieli, fa una cosa che vale come il gesto di sua madre che lo lavava da piccolo. Che razza di tranquillità grande ci sarebbe in uno che sulla Sojuz pensasse che sta facendo la volontà di un Altro, che sta facendo per l'intervento di un Altro quella cosa grande, come sua madre quando lo lavava da piccolo. Ed è una cosa grande uno che non è più capace di parlare - perciò non può far più né lezioni, né niente - o uno che vuole andare in bicicletta ma perde l'equilibrio, va a terra e sta sei mesi all'ospedale per il fianco spaccato, poi non va più in bicicletta (però si fa portare in macchina!).
Come è in Cristo: Cristo, con un suo gesto, ha ricreato il mondo, perché ha rinnovato la creazione. È una ri-creazione. L'aspetto originale della creazione, offuscata e alterata da un fatto, che è il peccato originale, è toccato da Cristo, ma ognuno che è immedesimato a Cristo, ognuno di noi se è immedesimato a Cristo, tocca lui pure la creazione di Dio e la fa essere diversa, o sviluppa la cosa più grande che può compiere il rapporto con le cose, con tutte le cose e con tutti gli uomini: la speranza. Ravviva la speranza.

Da cosa nasce per noi questo rapporto con Cristo che giunge fino a questi ultimi capillari di tocco e di cambiamento, a questo livello di sviluppo di interesse alle cose e a un equilibrio così maggiore che improvvisamente, dopo vent'anni di abitudini cattive, ci fa prendere un assetto buono, equilibrato (con tutto quello che si faceva prima!)? È il Battesimo. Il Battesimo è realmente il visibile, misterioso ma pacificante e inquietante segno del nuovo, della novità nel mondo che ha portato Cristo. Perché Cristo nel mondo è croce e risurrezione. Per questo vale tutto quello che abbiamo detto prima: il sacrificio è lo strappo per il cambiamento; senza strappo non c'è, non esiste niente, tanto è vero che noi ci meravigliamo che Dio abbia usato per se stesso una così tragica modalità.
Comunque, «nessuno di noi vive per se stesso, nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore».11 Questa frase, che vi è stata già dettata, è un obbligo che la prendiate sul serio. Ricordatevi di questa frase per sempre; così potete anche voi essere capaci di compiere quello che Igino di Padova ha fatto lo stesso giorno in cui è stato quasi distrutto dallo scoppio a Padova.12 Me l'ha detto sua moglie subito dopo: «Guardi, ha letto su un libro questa frase e me l'ha fatta vedere: "Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore"».
Per questo l'obbedienza è la fondamentale chiarezza e presa di coscienza di quel che noi dobbiamo fare. È molto più interessante se obbedisci che se riesci (non a disobbedire, ma a fare!).

Note
1 Prima che sorga l'alba, inno delle Lodi del Giovedì, in Libro delle ore, Jaca Book, Milano 1998, p. 114.
2 «Qualcosa d'amaro sorge dall'intimo stesso d'ogni piacere, che angustia anche tra i fiori» (T. Lucrezio Caro, De rerum natura, IV, vv. 1133-1134).
3 Cfr. Tu o dell'amicizia, Appunti dalle Meditazioni di Luigi Giussani e Stefano Alberto, suppl. a Tracce - Litterae Communionis, n. 6, giugno 1997, pp. 22-23. Cfr. Il miracolo del cambiamento, Appunti dalle Meditazioni di Luigi Giussani e Stefano Alberto, suppl. a Tracce - Litterae Communionis, n. 7, luglio-agosto 1998, pp. 27-28.
4 Fil 2, 8.
5 Cfr. Gv 8, 29; 14, 31.
6 Cfr. Gv 14-17.
7 Cfr. «Intimior intimo meo, superior summo meo», in Sant'Agostino, Confessioni, III, 6.
8 Cfr. Gal 4, 1-9; Rom 8, 12-21.
9 Cfr. T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», BUR, Milano 1994, p. 101.
10 Vedi qui, nota 1.
11 Rm 14,7-8
12 Si fa riferimento allo scoppio avvenuto a Padova il 5 gennaio 1998 durante il tradizionale falò della Befana. Cfr. E. Andreatta, «Nella predilezione la speranza di un popolo», in Tracce - Litterae Communionis, n. 2, febbraio 1999, pp. 32-34.