Il futuro di una generazione

Parola tra noi
Stefano Alberto

Appunti dall'intervento di don Pino all'Assemblea Responsabili,
su uno sviluppo della riflessione di quest'anno con don Giussani

Milano, 27 maggio 1997



Vorrei riprendere un passaggio svolto nel precedente incontro, quando
si è detto che il fattore più importante nella realtà
di un popolo è quello dell'autorità. Abbiamo precisato che
«l'autorità non è innanzitutto un ruolo, un individuo
che si concepisce dentro una torre da cui lancia segnali, da cui guida l'andamento
delle cose, ma l'autorità è un essere nuovo. In particolare,
l'autorità è il luogo (e il luogo è una persona, un
io) dove il nesso tra le esigenze del cuore e la risposta data da Cristo
è più limpido, è più semplice e più pacifico».

«L'autorità è un essere - dicevamo ancora l'ultima volta
riprendendo il contributo di don Giussani Nessuno genera, se non è
generato
-, non una sorgente di discorso»; è un essere
nuovo che, nella consapevolezza vissuta della risposta che Cristo è
alle esigenze del proprio cuore, diventa autorevole.

L'esito di questa autorevolezza possiamo definirlo come amicizia. L'autorità
è chi ti è realmente amico, chi vive cioè - nel rapporto
- il senso del destino dell'altro, e vive il rapporto come volontà
attuata di esso, vive il rapporto come coscienza del senso del destino e
come affermazione che nell'altro si attui questo destino.

Di quale destino stiamo parlando? Senso del destino vuol dire senso di Dio.
E qui possiamo riferirci all'inizio della prima lezione degli Esercizi:
l'io - che è il punto più effimero dell'universo - è
il luogo che vive la coscienza della totalità del Mistero: «Dio
è tutto in tutto».

L'io è il punto della realtà in cui la realtà riconosce
la novità, l'unica novità di cui tutto consiste, che Dio è
tutto in tutto. Senso del destino come totalità di Dio e senso del
destino come riconoscimento di Colui che questa totalità ci svela
e che in questa totalità continuamente ci introduce, che è
Gesù Cristo, Gesù di Nazareth.

L'avvenimento di questa amicizia, di un'amicizia così concepita,
investe l'impeto naturale, la realtà naturale in cui il popolo, fisicamente,
materialmente, è generato: il rapporto uomo-donna. 

I)
Da dove si genera un popolo? Il popolo - abbiamo detto - si genera sempre
da un avvenimento.

L'avvenimento che consideriamo in questo passaggio è l'impeto naturale
che caratterizza il rapporto dell'uomo e della donna, il legame originale,
il legame naturale uomo-donna. Ma questo non è ridotto alla semplice
generazione naturale; passa tutto attraverso l'impeto naturale, ma è
avvenimento, è avvenimento generativo solo in quanto è amicizia.

Perché si possa parlare di rapporto uomo-donna in senso generativo
di un popolo occorre, dunque, guardare all'avvenimento decisivo per il destino
dell'uomo e della donna, che è il loro rapporto vissuto come amicizia,
cioè come senso del destino dell'altro e attuata volontà di
esso che diventa reciprocità.

È l'avvenimento di questa amicizia che dà inizio a questo
legame, come un bambino dà un nuovo inizio a una famiglia.

È nell'avvenimento della scoperta del rapporto come amicizia nel
senso sviluppato agli Esercizi, che il legame diventa stabile e fecondo,
diventa, cioè, appartenenza.

È questo avvenimento che esalta l'impeto naturale in cui uomo e donna
si scoprono uniti dall'identico desiderio di essere; uniti, cioè,
come aiuto reciproco, amore reciproco per affermare nell'altro, dell'altro,
il comune destino.

L'impeto naturale, l'impeto che tutti gli uomini vivono, è preso
dentro, è esaltato da questa dinamica di amicizia, che fa diventare
l'impeto naturale fattore stabile, fattore permanente, fattore nuovo, realmente
generativo del popolo.

È nell'impeto naturale che unisce uomo e donna, vissuto a partire
dall'avvenimento dell'amicizia, che si scopre l'esperienza di una generazione:
essa - diceva don Giussani nel passaggio finale della seconda lezione degli
Esercizi - non è il semplice mettere al mondo, buttare fuori dei
figli; è nella tensione al riconoscimento del senso del destino e
all'affermazione di esso nell'altro che si genera l'umano.

È tutto valorizzato l'impeto naturale, è tutta valorizzata
l'attrattiva naturale dell'uomo e della donna; ma essa diventa dinamismo
stabile, permanente, diventa fattore generativo dell'umano a partire dall'avvenimento
dell'amicizia. È da questo avvenimento che l'impeto naturale diventa
fattore di generazione di un nuovo io e, nel moltiplicarsi, attraverso i
dinamismi naturali, di questa trama di legami, diventa un disegno, diventa
l'emergere di una realtà che noi chiamiamo popolo. Ma è popolo
solo se quello che è avvenuto tra i primi due, tra l'uomo e la donna
- come paternità, come generazione dell'umano, cioè come avvenimento
e frutto di questo avvenimento di amicizia -, si prolunga permanendo come
avvenimento originale.

Ci sono quattro caratteristiche di questo avvenimento di un'amicizia
iniziale.

1) La prima caratteristica è proprio il fatto che essa si partecipa,
è partecipata di padre in figlio; il fenomeno della generazione diventa
il fenomeno proprio della partecipazione di questa coscienza del destino
e di questa affermazione del destino dell'altro a cui si lascia partecipare
l'altro, a cui padre e madre lasciano partecipare, introducono il figlio.

Qui la generazione acquisisce il suo senso profondo di trasmissione del
senso della vita, del significato per cui le cose ci sono.

2) La seconda caratteristica di questa amicizia iniziale (la prima è
la partecipazione, cioè il fatto che questa realtà si partecipa,
si comunica) è che il senso del destino vive come ricerca e riconoscimento
continuo, perciò come amore.

Il senso del destino nel rapporto, nella generazione, non è l'affermazione
di una teoria, ma è una passione di comunicazione che nasce dalla
iniziativa continua dell'io di fronte al Mistero, cioè dal riconoscere
se stessi come generati. È una ricerca, è un riconoscimento
del destino che diventa amore, cioè passione comunicativa, passione
educativa, passione generativa, che si attua anche attraverso le circostanze
faticose, le circostanze che sembrano diventare obiezione, ma che in realtà
il Signore dà perché questa intenzione comunicativa si purifichi
sempre di più, diventi sempre di più gratuita.

Il dolore, la fatica, non sono mai obiezione, ma sono sempre circostanza
che approfondisce la verità dell'amore: l'amore diventa, attraverso
di essi, gratuità.

3) La terza caratteristica, propria dell'ambito generativo della famiglia,
ma anche di qualsiasi luogo che viva la generazione come amicizia è
che, sia la preoccupazione di rendere partecipe l'altro del significato
della vita, sia la continua comunicazione di questo, che nasce dal riconoscimento
personale, diventano lotta contro l'estraneità, difesa da chi è
estraneo.

Qui richiamo l'ultimo passaggio della prima lezione degli Esercizi, dove
il peccato è individuato come idolatria, cioè il vivere un
aspetto della vita al di fuori del fatto che Dio è tutto in tutto;
per noi questa idolatria si manifesta come accettazione di un estraneo,
come seguire un estraneo: invece della familiarità in tutto con il
Mistero, invece di vivere la familiarità originale che l'Essere ha
con la creatura, si segue un estraneo, si segue qualcuno (o qualcosa) che,
sotto una apparenza di normalità, in realtà è estraneo
al senso del nostro destino, è contro, è nemico all'affermazione
del bene che è il Mistero stesso.

La generazione come amicizia - nel nucleo originale, nel nucleo della famiglia,
nel nucleo del rapporto tra uomo e donna vissuto come amicizia - diventa
lotta contro l'estraneità, lotta contro il nemico che vuole strappare
l'uomo dal Senso per cui vive.

4) C'è un quarto aspetto di questo avvenimento dell'amicizia come
sorgente di una generazione nuova: questa novità di vita tende ad
abbracciare tutto, tende a creare luoghi di umanità nuova, ad uscire,
ad espandersi, a diffondersi oltre l'ambito della cellula originale del
rapporto uomo-donna nella famiglia e a creare luoghi in cui la preoccupazione
del senso del destino e la preoccupazione di questa volontà di attuare
il destino, il bene dell'altro, possano manifestarsi come coscienza e come
attuazione concreta, come attenzione ai bisogni e alle circostanze che la
vita fa emergere.

Riassumiamo questo primo approfondimento: la concezione nuova dell'amicizia
- come coscienza del destino dell'altro, senso del destino dell'altro e
come volontà attuata per l'altro, che si realizzi il suo destino
- è l'avvenimento che investe il dinamismo naturale originale, investe
il rapporto uomo-donna.

Se il rapporto uomo-donna non nasce da questo avvenimento, che nel legame
uomo-donna diventa riverbero dell'amicizia originale dell'Essere, non si
ha generazione, non si ha generazione dell'io, non si ha quindi generazione
di popolo.

II)

C'è un secondo fattore, che introduco riprendendo ancora un passaggio
fatto la volta scorsa. L'impeto originale tra uomo e donna, l'impeto di
comunicazione di questa passione per il destino dell'altro, l'avvenimento
dell'amicizia, non potrebbero diventare esperienza quotidiana, non potrebbero
diventare tentativo che ogni giorno è ripreso, senza la presenza
di qualcuno che continuamente ridica, che continuamente illumini, che continuamente
annunci la verità della persona.

Non c'è popolo, quindi non c'è vera amicizia, non c'è
l'avvenimento dell'amicizia come il fattore generativo che si serve dell'impeto
naturale del rapporto tra uomo e donna, senza uno che desti continuamente
nel popolo, che desti continuamente nell'io la coscienza dell'io, l'autocoscienza
dell'io come rapporto con il Mistero.

Non c'è popolo senza profeta: questo è vero nell'esperienza
del popolo ebraico, il popolo preso a paradigma da Dio per ogni avventura
umana che si chiami popolo.

Non c'è popolo senza profeta, perché senza uno che richiami
tutti all'essenziale, senza uno che richiami tutti al contenuto vero di
coscienza dell'io, il patrimonio della coscienza, il contenuto della coscienza
dell'io si dilapida. Dilapidandosi l'io, si dilapida la persona.

E qui occorre cogliere il nesso con la seconda domanda che don Giussani
ha fatto nella introduzione del venerdì sera agli Esercizi e ha ripreso
la domenica mattina: Che cos'è l'uomo? che cos'è l'uomo per
Dio; ma, subito dopo: Che cos'è Dio per l'uomo? Il contenuto della
coscienza dell'io è che Dio è tutto in tutto. Ma come facciamo
a conoscerlo così? E la risposta è stata: occorre uno che
ce lo dica, che ce lo faccia conoscere così, perché se Dio
è tutto e l'uomo non capisce, se Dio è tutto e l'uomo non
se ne ricorda, è come se Dio non ci fosse.

Il Mistero ha voluto che ci fosse un uomo, nato da donna: l'uomo Gesù
di Nazareth. È Gesù, è Gesù di Nazareth il profeta,
cioè Colui che introduce continuamente l'uomo al contenuto più
vero di autocoscienza, cioè che Dio è tutto in tutto.

La funzione più necessaria nella vita del popolo - ancora più
necessaria dell'impeto naturale abbracciato dall'avvenimento dell'amicizia
da cui si genera materialmente il popolo - è la funzione del profeta,
cioè di colui che rivela il senso di tutto, il senso per cui c'è
l'io, per cui c'è la realtà, e ridicendo questo muove l'io
come riconoscimento e muove l'io come libertà, cioè come affezione
in atto.

Il profeta, nel popolo, è dunque Gesù. In questa affermazione
sta tutta la ricchezza e tutta la novità della seconda lezione degli
Esercizi, vale a dire, il fatto che nel rapporto col Mistero, nel rapporto
con Dio, noi siamo introdotti continuamente da Gesù.

Se Dio, per l'uomo, è tutto in tutto, questo per noi diventa esperienza
solo nella imitazione dell'uomo Gesù: nella imitazione dell'uomo
Gesù nel suo rapporto con Dio come Padre, creatore, perfezione e
redentore; nel rapporto che Cristo ha avuto con l'altro, con il prossimo
come luce, forza e aiuto, come condivisione totale; e nel rapporto che Gesù
ha avuto con la società nel suo aspetto istituzionale, con la società
e con la storia.

Non c'è popolo senza uno che ridica continuamente il senso per cui
tutto c'è. In questo senso il profeta vero e unico, il Maestro, è
Gesù.

Qui vorrei sottolineare tre punti di questo fattore profetico come fattore
per cui il popolo vive.



1) La prima cosa che Cristo rivela è proprio questa coscienza del
destino: siamo introdotti, attraverso l'uomo Gesù, nel rapporto col
destino come Essere, come Dio tutto in tutto. È questa la dimensione
che potremmo dire redentiva, perché il riconoscimento di questa coscienza,
sempre e di nuovo, è il punto per cui la vita, l'azione è
vera.

2) La seconda annotazione è il richiamo della ragione per cui
si fa tutto. Essa è, per noi, quella che è stata per Cristo;
la ragione per cui si fa tutto è il Padre, il disegno del Padre,
il seguire questo disegno: «Io vedo sempre tutto quello che il Padre
fa. Io e il Padre siamo una cosa sola. Io faccio quello che vedo fare al
Padre».

Aderire al disegno del Padre è per noi, diventa per noi - in Cristo
- seguire Cristo nella Sua obbedienza. È obbedendo che l'io si realizza;
comprendiamo che l'obbedienza al disegno, all'opera di un Altro, è
ciò che rende l'io se stesso.

3) E c'è un terzo fattore di questo annuncio profetico che permane
tra di noi e che rende il popolo tale.

In Cristo ciascuno di noi è stato scelto. Perché siamo stati
scelti? perché siamo stati presi da Cristo? perché la nostra
vita è stata afferrata, prima nel gesto del Battesimo, e poi nell'incontro
storico per cui il Battesimo è diventato per noi esistenzialmente
persuasivo, l'annuncio di Cristo è diventato per noi fattore di liberazione,
fattore di movimento? È la scoperta che ciascuno di noi è
stato scelto per essere, nel popolo, profeta. Vi ricordate la frase che
leggiamo nei salmi delle Lodi? «Anche i vostri figli e le vostre figlie
diverranno profeti».

Questa funzione fondamentale di Cristo di annuncio della verità,
della coscienza dell'io, non è rimasta un punto isolato nel passato,
nella storia: permane nella storia, nel presente attraverso la scelta che
Cristo fa di ciascuno di noi, per cui ciascuno di noi è chiamato
ad avere una funzione esemplare per gli altri, per tutti gli altri.

Il vertice di questo richiamo esemplare è, nel popolo cristiano,
la verginità, che come forma stessa è richiamo di questa totalità:
la ragione per cui si vive, la ragione per cui si fa tutto, è che
Dio è tutto in tutto. In questo senso la verginità, come stoffa
dell'esistenza cristiana, che attraversa ogni vocazione - proprio perché
è la testimonianza radicale di questa totalità del Mistero
-, diventa l'espressione suprema dell'amicizia e, quindi, l'espressione
suprema di fecondità, perché è l'amicizia che genera.

Nella amicizia che diventa continua testimonianza profetica e richiamo
reciproco («Esortatevi a vicenda finché dura quel tempo che
chiamiamo oggi», cfr. Eb 3,13) si genera di continuo un popolo.

In questa continua nascita del popolo è sempre più esaltata
e diventa sempre più pacifica, sempre più lieta l'accettazione
della propria storia, l'accettazione delle circostanze che a ciascuno Dio
dà, proprio perché la storia personale, la circostanza che
a ciascuno di noi il Signore fa capitare, viene riconosciuta come contributo,
come fattore di costruzione del popolo.

Riassumiamo questi due approfondimenti relativi alla dinamica della generazione
del popolo:

I) l'avvenimento che genera - attraversando, abbracciando il legame originale,
l'impeto naturale dell'uomo e della donna - è l'amicizia;

II) il fattore che dà la radice di questo è la profezia, la
profezia di Cristo nel popolo, Che - scegliendoci - coinvolge come protagonisti
di essa ciascuno di noi.